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sabato 14 maggio 2016

Archeologia. La collana apotropaica della Signora Punica di Olbia conservata al Museo Archeologico di Cagliari. Dove è finito il ciondolo? di Sergio Murli

Archeologia. La collana apotropaica della Signora Punica di Olbia conservata al Museo Archeologico di Cagliari. Dove è finito il ciondolo?
di Sergio Murli


(Ricevo e volentieri pubblico, l'articolo del 9 Maggio 2016 pubblicato nel mensile di cultura "Città Mese" il tabloid nato a Roma nel 1991 e diretto da Sergio Murli. L'oggetto della trentesima "archeochicca" del giornale riguarda la Sardegna, precisamente la collana punica trovata da Doro Levi nella necropoli di Funtana Noa a Olbia)

Seconda avventura in Sardegna, questa volta nasce tutto nei pressi di Olbia, precisamente nella località di Funtana Noa, sito tribolato e massacrato per esigenze militari, in un periodo nel quale la ragion di Stato non teneva conto minimamente delle radici – certe radici – della nostra Storia; base di ogni desiderio ed empito che poi porta inevitabilmente a capire noi stessi, attraverso le vicende di chi ci ha preceduto. I tempi non erano maturi.
Dunque, anni Trenta del secolo scorso: in quella zona, scarsamente se non addirittura priva di popolazione, i Comandi militari intrapresero la costruzione di strutture aeroportuali per esigenze strategiche, fornite dalle caratteristiche del luogo, particolarmente vicino al mare e, ripetiamo, con scarsa densità abitativa.
Il grande guaio era che ad essere fittamente occupata risultava la… necropoli punica, e non soltanto, della antica città di Olbia.
Dopo anni di devastazioni e spoliazioni – pensate che vennero asportati anche i blocchi di roccia di alcuni edifici funerari per mettere su certe strutture degli aeroporti – la Soprintendenza alle Antichità della Sardegna intorno al 1937, poté intraprendere una campagna che tentava di mettere al riparo ciò che restava delle necropoli puniche, con una stagione di scavo che continuò l’anno successivo; poi “sospesa” per l’allontanamento del soprintendente Doro Levi, artefice dell’azione di salvaguardia e

recupero del sito. Levi era ebreo e le leggi razziali vigenti allora privarono la ricerca del suo maggiore tutore. 
Vogliamo qui ricordare la vita, abbastanza movimentata di Doro Levi. Intanto un episodio forse determinante nell’orientare verso il suo allontanamento come ebreo e guarda caso che si lega alla nostra chicca. Era allora in visita alla Sardegna Hermann Goering, secondo solo a Hitler; a Goering, conosciuto come collezionista di capolavori dell’antichità, fu, con gesto adulatorio discutibile, offerta in dono la nostra collana; ma, incontrò l’opposizione decisa, irremovibile del Soprintendente che evitò la perdita di questo prezioso reperto. Poi la fine del rapporto con l’Isola, suo malgrado.
Emigrato negli USA, rientrò in Italia nel ’46 e continuò ad operare nel suo campo in Europa, ad Atene, in Turchia. Infine, tornato in patria, continuò ad esercitare nel nome della salvaguardia dei monumenti. Va ricordato che nel periodo bellico, pur in America, perorò e raccomandò di garantire per quanto possibile le vestigia antiche dai bombardamenti, spesso indiscriminati sul suolo italiano.
Si spense a Roma nel 1991, ultranovantenne; era nato a Trieste nel 1898.


Tornando al periodo sardo, qualcosa comunque era stato fatto; intanto l’indagine su ben 47 tombe puniche e romane scavate aveva portato al recupero di reperti atti al studio della zona: accertata la datazione la datazione che inizia nel IV sec. a. C. si sono individuate tombe a fossa, alcune con rivestimento sulle pareti di pietre; sembra che il defunto fosse ricoperto e avvolto in un lenzuolo ed anche adagiato in una cassa di legno; nel caso della nostra Signora, raccolti 5 chiodi con resti del legno.
Non mancavano le tombe a pozzo con ingresso che portava alla camera sepolcrale. Il rito è risultato per tutti quello dell’inumazione.
Già, direte, ma che c’entra con la Chicca? Un po’ di pazienza, sta arrivando. Detto che sono state scavate 47 sepolture, quella più ricca di reperti e notizie è la numero 24 scoperta durante l’estate del 1937;  è datata a cavallo tra il IV e il III secolo, era occupata da una sola persona di sesso femminile che doveva essere una gran dama: si deduce dalla ricchezza e dal pregio del corredo, per fortuna giunto fino a noi.
Erano presenti sette vasi e, come recita l’elenco della pubblicazione dell’archeologo e Soprintendente Doro Levi, due di tipo A, una oinochoe mancante del collo e del labbro, e l’altra spezzata in due; due altre intere e una mancante del fondo tipo B. Le altre in frammenti. Un boccale in frammenti. Di alcune forniamo le immagini fotografiche, molto rovinate, e in bianco e nero, credeteci è già un prodigio essere riusciti – sbattendo sugli ostacoli, spesso ciechi e sordi, della burocrazia – a reperirle, attraverso la cortesia squisita, del Dott. Pierluigi Montalbano di Cagliari, autentico faro di una certa cultura, quella che nulla chiede e molto dà; non ci stancheremo mai di essergli grati.
Poi una monetina punica di bronzo, molto consumata e con un foro, e che presenta al rovescio il consueto cavallo davanti a una palma. 
Un magnifico specchio purtroppo molto rovinato e, per quel che ne sappiamo, non ricomposto – perciò contentatevi del disegno del titolo –  liscio da un lato e dall’altro decorato con cerchi concentrici incisi; con impugnatura lavorata finemente a volute attorcigliate e con una deliziosa testina nel mezzo, anche questa di bronzo. Le misure sono, altezza totale circa cm 29, il diametro del disco circa cm 19. Particolare commovente, lo specchio era delicatamente deposto sul corpo della defunta; si pensa che questo manufatto fosse opera di un ottimo laboratorio da individuare nella Magna Grecia, così feconda ed attiva sui mercati dell’area tirrenica se non mediterranea.
Per ciò che concerne il corpo, pochi resti; dello scheletro è stato possibile individuare parte delle costole e delle ossa del torace.
Ma la chicca è senz’altro la importante collana con pendagli e cilindretti, tutti di pasta vitrea, così affermata e alla moda, all’epoca; era al collo della Signora, anche se un po’ scomposta, avendo perso da tempo il laccio che teneva uniti gli elementi.
Era composta da 18 (?) pezzi; presenti 5 testine umane barbute, meno una dichiaratamente femminile e spezzata, una testina di ariete ed una di gallo; presenti 2 cilindri con occhioni, da ascrivere alla funzione apotropaica, due sfere verdi, due piccole sfere con strisce dipinte, 4 tubuli con decorazione ondulata; ma, a proposito del ruolo di salvaguardia della salute della proprietaria – ecco la chicca nella chicca – nella prima immagine fotografica in bianco e nero pubblicata da Doro Levi appare al posto riservato al pendaglio o comunque al posto più importante del monile, un amuleto con l’occhio di Iside o forse, più probabile, con quello di Horus: era traforato a fermaglio, di colore verde. Lo abbiamo un po’… imbellettato per renderlo ancor più visibile nel particolare che pubblichiamo.


La provenienza del c.d. ciondolo è stata individuata dal Levi nell’area di Alessandria d’Egitto, così simile ad un precedente oggetto di una collana affine, proveniente da Cartagine, bene.
Bene un accidente, perché vedete, cortesi Lettori, il guaio è che la nostra Chicca nella chicca non è più presente, già, non si dice che è sparita, è stata trafugata, si è disintegrata con uno sciagurato restauro, è scomparsa in una notte di tempesta o durante un trasferimento: no, semplicemente non più presente…
Il problema consiste nel valore simbolico oltre che storico dell’amuleto, nel valore che veniva attribuito dalla proprietaria a questo oggetto così potente da tenere lontano i nemici di qualsivoglia natura, resi dunque innocui. Sarà bene qui chiarire che gli oggetti preposti a questa funzione erano usati solo dai viventi e contro le avversità della vita; dopo, con la morte del corpo ben altre entità si sarebbero prese cura del defunto; la presenza della collana sulla morta va letta come qualcosa di familiare, sempre indossato in vita e dunque lasciatole per sempre.
Chiarita la probabile provenienza dell’occhio… perduto, si è provato ad individuare il sito di produzione per gli altri ciondoletti e tubicini di pasta vitrea. Compito molto difficile in quanto all’epoca, praticamente ogni città fenicia aveva centri di produzione che lavoravano il vetro; considerate che il processo che ha portato alla fusione, era noto fin da millenni prima nell’Egitto faraonico e nella cosiddetta Mezzaluna fertile. 
Come nasce la pasta vitrea, è presto detto per i pochi pigroni che non si sono a suo tempo documentati: è un composto di sabbia quarzifera, niente paura, più o meno la comune sabbia delle spiagge, unita ad una sostanza alcalina, il natrum (o natron) che aveva lo scopo di facilitare la fusione a temperature più basse; ma dire che il natrum serviva a questo è profondamente riduttivo: Wadi al Natrun, località del basso Egitto, era famosa e conosciuta fin dalle prime dinastie faraoniche per lo sfruttamento di questa sostanza salina (minerale carbonato idrato di sodio) utilizzato niente di meno che per la mummificazione.
Intanto due parole su questo gruppo di laghi occupante una depressione lunga decine di chilometri e che si abbassa fino a 8 metri sotto il livello del mare – siamo ad ovest del delta noltico – sono alimentati dalla falda freatica del fiume e dalla falda artesiana del deserto Libico; il fondo è ricoperto da depositi salini, tra i quali, appunto, il natrum.
Qualche cenno sulla lavorazione della pasta vitrea per farne oggettini da indossare: la base era un nocciolo di argilla da sola o con del metallo, su quest’anima, modellata come si desiderava l’oggetto, era versata la materia vetrosa, calda, ruotando fino a darle la forma e le ondulazioni volute. Qualsiasi figura era ottenuta con piccoli apporti, fino a farne occhi, capelli, decorazioni.
Quando l’oggetto appariva solidificato, si frantumava il nucleo di argilla e il pezzo era pronto.
È ora di ammirare questa stupenda collana, con o senza l’Occhio, vera primadonna nelle vetrine del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, famosa e conosciuta in tutto il mondo, dopo la mostra “I Fenici” di Palazzo Grassi a Venezia del 1988 e che avrà sempre un posto nelle pubblicazioni sulla civiltà punica della Sardegna.
Ora un po’ di… saccenza; del resto, è bene ricordare che questi articoli sono di semplice, essenziale divulgazione, senza nulla togliere agli Studiosi.
Parliamo di Olbia – fino al 1939 Terranova Pausania – dalla cui zona arriva la nostra collana. Da “Storia della Sardegna Antica” a cura di Attilio Mastino, 2005, Edizioni il Maestrale, pag. 30: “… Recenti ricerche nell’area urbana di Olbia attestano la presenza di materiali ceramici fenici e greci inquadrabili tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. da collegare alla frequentazione fenicia della zona. Per quanto riguarda i principali centri fenici, lungo la costa orientale divengono ormai apparentemente stabili gli insediamenti di Olbia… Che Olbia con il suo porto naturale fosse stato uno dei principali punti di riferimento della costa orientale è stato recentemente dimostrato da strutture forse pertinenti ad un luogo di culto e alcuni materiali fenici e di importazione riferibili quanto meno alla prima metà del VI secolo a. C.. Spiccano alcuni frammenti fittili tra i quali uno di brocca di matrice orientale non posteriore all’ VIII secolo a.C. … la città di Olbia, che viene dotata di una poderosa cinta muraria, eretta in opera isodoma e composta di blocchi granitici in bugnato rustico e diviene probabilmente il fulcro della politica cartaginese proiettata verso le coste orientali del Tirreno e il baluardo contro eventuali mire espansionistiche di Roma. Non a caso uno dei primi fatti d’arme di ampia rilevanza della prima guerra punica e uno dei pochi riguardanti la Sardegna ebbe appunto luogo nel 259 a.C. nelle acque di Olbia. In ogni caso, in questo periodo, l’intensa attività di scambio tra le due sponde è illustrata egregiamente dai materiali di area etrusco-laziale e  rinvenuti nelle necropoli del capoluogo gallurese.”
Comunque un esempio indicativo di ritorno, ne è la magnifica coppa fenicia d’argento della Tomba Regoli-Galassi di Cerveteri, della quale ne mostriamo un disegno: è più che evidente la ragione di tanto successo nelle piazze tirreniche. 
La differenza tra Fenici, Punici e Cartaginesi. In questo caso con piglio maccheronico si può dire che i primi sono originari della Fenicia, hanno occupato culturalmente e con i loro prodotti gran parte dei mercati del mondo allora conosciuto e tra l’altro le coste sarde; i terzi, pur anch’essi arrivando dalla Fenicia, hanno colonizzato l’altra parte del Mediterraneo, le coste africane e le regioni iberiche e lusitane fino alle Gallie, fondando Cartagine e dando questo nome ai loro possedimenti, alla loro cultura. Inoltre, Fenici e Punici possono essere usati come sinonimi senza pericolo. Qui come al solito la dichiarazione: non ce ne vogliano gli Esperti e abbiano pietà di noi se abbiamo osato (e sbagliato).

Ringraziamenti. La spinta iniziale viene dalla disponibilità della Direttrice del Museo cagliaritano, Dottoressa Donatella Mureddu e dal suo collaboratore Mariano Zuddas, Coordinatore museale, per l’invio di materiale utile all’impostazione. Poi, ma solo in ordine temporale, infinita gratitudine al Dott. Pierluigi Montalbano, direttore dell’Associazione Culturale Honebu, per la parte conclusiva di definizione, sulla vicenda del ciondolo mancante. 

Il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari si trova in Piazza Arsenale.

Crediti. Infine, citato il testo usato nell’articolo e ora quello per le immagini: Doro Levi, "Le necropoli puniche di Olbia", in Studi Sardi, IX, 1950. Ricordiamo che le altre foto sono una scelta redazionale. Il disegno del titolo è di Sergio Murli.

Conclusioni. Trovata l’immagine del pendaglio apotropaico, più difficile, anzi impossibile, resta sapere che fine ha fatto; rimarrà un mistero? 
Arrivederci alla prossima uscita, quella di giugno, e, come sempre, se Dio vorrà. 



Fonte: http://www.cittamese.it/cultura/968-archeochicca-xxx-necropoli-di-funtana-noa

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