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mercoledì 16 settembre 2015

Archeologia. Gilgamesh, Noè e gli uccelli, strumenti di navigazione nel mondo antico

Archeologia. Gilgamesh, Noè e gli uccelli, strumenti di navigazione nel mondo antico
di Pierluigi Montalbano



Secondo l'opinione di illustri specialisti dei sistemi di navigazione nel mondo antico, i comandanti delle navi minoiche e micenee, ossia delle flotte più importanti del Mediterraneo dell'età del bronzo, portassero a bordo, nei lunghi viaggi per mare, qualche uccello che servisse al preciso scopo di fornire un aiuto direzionale durante la navigazione. Una traccia sicura di questa pratica la possiamo trovare ritrovare nel mito di Giasone. Il viaggio degli Argonauti segnava un itinerario che rendeva percorribile la rotta verso la Colchide e, nel contempo, fondava misticamente la possibilità di seguire una via marittima mai tracciata prima di allora.
Tutto il complesso del mito di Giasone parrebbe confermare l'ipotesi relativa all'uso degli uccelli come elemento per favorire la navigazione. Significativo, a questo proposito, è l'episodio delle rocce Simplegadi. Gli Argonauti avevano superato quell'ostacolo lasciando volare un non precisato uccello davanti alla nave, vogando poi a gran forza riuscirono a passare tra
le rocce, nello stretto indicato dal volatile.
E' difficile pensare che tale stratagemma costituisca soltanto un espediente narrativo. Trattando del tema relativo all'uso degli uccelli come sistema occasionale di navigazione, lo studioso R. W. Hutchinson - pur ammettendo che "sarebbe interessante sapere se i comandanti dei mercantili minoici si valessero di un simile mezzo, poco necessario quando navigavano verso le Cicladi, ma non disprezzabile nel caso di viaggi più lunghi, senza terre in vista, dato che le stelle non erano sempre visibili neppure nelle acque del Mediterraneo" - ritiene che "nei poemi omerici non se ne trova traccia". Ma le cose non stanno in questo modo, infatti si possono ritrovare inequivocabili elementi di questa pratica nei testi omerici, ed esiste in proposito una lunghissima tradizione che arriva fino alla letteratura cristiana medioevale.
L'uso degli uccelli come aiuto alla navigazione è testimoniato nel mito di Utnapishtim (il Noè dei sumeri), contenuto nell'epopea dell'eroe sumerico Gilgamesh. In quest'importante racconto, risalente a 4500 anni fa,  troviamo la ben nota narrazione dalla quale venne in seguito tratto l'episodio biblico del diluvio universale. La famosa vicenda, scritta con caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla, lascia pochi dubbi sull'uso effettivo che nel mondo antico si faceva della pratica in argomento.
Utnapishitim aveva fatto costruire un'arca, "aveva navigato per sette giorni e sette notti, mentre le acque salivano e al settimo giorno l'arca aveva fatto approdo su una montagna "agli estremi limiti della terra", ed egli aveva aperto una finestra dell'arca, e ne aveva fatto uscire una colomba per vedere se il livello delle acque fosse sceso ma la colomba era tornata perché non aveva trovato un luogo dove posarsi poi aveva fatto uscire un corvo, e il corvo non aveva fatto ritorno. Il particolare del corvo che non ritorna al luogo della sua partenza indica chiaramente che il volatile ricopre la funzione di segnare una direzione, precisamente quella nella quale si sarebbe potuta trovare una terra emersa.
Nel mito di Utnapishtim, così come nell'espediente di Noè nel racconto biblico, l'uso di mandare in volo degli uccelli è la derivazione di una precisa consuetudine: quella di utilizzare dei volatili come "animale guida" con il preciso compito di "aprire nuove e più sicure vie". E' facile supporre che una tale abitudine "marinaresca" non sia stata inventata dai sumeri ma che venisse praticata già da epoche precedenti.
Nei testi biblici, molto successivi, e nell'epica classica, compaiono svariate affinità con elementi del poema; si pensa che alcuni temi fossero diventati largamente diffusi nel mondo antico e che la loro attestazione testimoni rapporti culturali fra i popoli (ad esempio si presume l'influenza sugli ebrei del periodo della prigionia di questi ultimi a Babilonia). Le somiglianze degli elementi della trama e dei personaggi dell'Epopea con quelli della Bibbia comprendono ad esempio il giardino dell’Eden e il racconto del Diluvio Universale contenuto nella Genesi.
Il titolo assegnato dai moderni studiosi alla narrazione deriva dal nome del protagonista, Gilgamesh, il re sumero di Uruk, attualmente Tell-al-Warka in Iraq, un eroe che affronta avventure di ogni genere e, dopo la morte del compagno Enkidu, parte alla ricerca del segreto dell'immortalità.
Gilgamesh, un guerriero crudele, è per due terzi divino e per un terzo mortale e domina su sudditi stanchi delle sue angherie. Gli dei lo puniscono creando un avversario, Enkidu ma lo scontro finisce in parità. Colpito dalla forza di Enkidu, Gilgamesh stringe con lui un patto d'amicizia e vanno alla Foresta dei Cedri dove trovano un mostro che custodisce il prezioso legno, Humbaba, che i due sconfiggono facilmente. Dopo qualche tempo Enkidu muore e Gilgamesh decide di andare alla ricerca di Utnapistim, colui che gli dei presero con se dopo il Diluvio Universale rendendolo immortale. Gilgamesh, per far tornare in vita il suo amico Enkidu, vorrebbe ottenere da Utnapistim il segreto della vita. Supera una serie di difficoltà (simili alle famose fatiche di Ercole) ma il saggio gli risponde che la morte è inevitabile. Gilgamesh, ormai senza speranze, sta per andarsene quando Utanapishtim, impietosito, gli rivela che c'è l'unica possibilità per l'eterna giovinezza è una pianta che si trova in fondo al mare. Gilgamesh parte subito alla ricerca del prezioso vegetale e, dopo averlo trovato, decide di riposarsi sulle rive di un ruscello. Al suo risveglio, scopre che la pianta tanto preziosa è stata mangiata da un serpente, che subito dopo cambia pelle. Sconfitto, torna così ad Uruk, la sua città. Gilgamesh prega il dio degli inferi di fargli rivedere Enkidu per un'ultima volta. Il desiderio viene esaudito ed Enkidu rivela al suo grande amico che la vita nell'oltretomba è triste e cupa, piena di rimpianti per tutto ciò che non si è fatto nella vita terrena e per le occasioni che si sono perse. Gli consiglia di lasciar stare in pace i morti e di godersi la vita finché possibile, dato che nell'oltretomba l'esistenza sarà senza felicità. Le uniche persone che godono di un'esistenza dignitosa nell'aldilà sono coloro che hanno generato numerosi figli perché la discendenza è l’unica garanzia di vita eterna.


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