Diretto da Pierluigi Montalbano

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giovedì 31 luglio 2014

I precursori della civiltà Europea

I precursori della civiltà Europea e la ruota
di Franco Sarbia

Per nostra buona sorte i predecessori della cultura europea avevano orizzonti più ampli di visioni localistiche limitate nello spazio e nel tempo. Secondo il filologo Giovanni Semerano - dell’opera del quale conosco il rigore scientifico - ritroviamo l’idronimo Ebro (Iber) anche nell’affluente della Morava Ibar, nell’Ucraino Ibr e in altri ambiti non Iberici. Hibernus, Ἴβηρ, l’Ebro, come il nome antico del fiume Maritza, Hebrus, Ἧβρος, fiume principale della Tracia sulle cui rive Orfeo fu lacerato dalle baccanti, come il nome “Hebrides” delle Western Islands, con il mare delle Ebridi, il braccio di mare dell’Atlantico; deriva dalla stessa base che indica passaggio da una riva all’altra, così “Hiberia” è la terra di là dallo stretto; tale base corrisponde ad accadico ebēru, ḫabāru (to cross: water, to extend beyond), eber nāri (di là dal fiume, far bank, Beyond the River: Euphrates), ebar (beyond), eberru (travelling across).
La storia scritta inizia con i primi documenti sumerici della fine del quarto millennio proprio in corrispondenza con le prime testimonianze scritte sul carro, nella città Sumera di Ur attorno al 3000 a.C. L’epopea di Sargon sarebbe iniziata settecento anni dopo. La prima sepoltura scita con carro a due ruote è del I Millenio a.C. Sicché non abbiamo bisogno d’inventarci altri successivi inventori della ruota e del carro. Con i primi tentativi di fissare alla slitta i rulli, normalmente utilizzati per favorirne lo scorrimento, restringendone la parte centrale a forma di asse per facilitarne la rotazione negli anelli di legno sotto i pattini, si giunge a un veicolo che, in assenza di strade carrabili, per molto tempo supererà la slitta solo nella steppa desertica dove questa continua a incagliarsi negli arbusti. Subito dopo, infatti, lo troviamo diffuso nelle steppe dell’altopiano persiano e da lì nella valle dell’Indo. L'etimologia della parola Carro segue la sua storia. La voce latina originaria non è carrus bensì “currus” cocchio, carro trionfale. currus è dal sumerico guru gurru (tras)portare: mentre currō (corro), il verbo latino con esso incrociato, è dalla diversa radice gur, correre serpeggiare (La ritroviamo in toponimi che richiamano vie serpeggianti nella foresta come Garonne o Groane), accadico qarāru, e ḫarrānu, carovana, strada, percorso, viaggio. Sull'uso preferenziale di Currus invece di Carrus, dei parlanti latini, troviamo nell'"Agricola" di Tacito (dopo il 100 dC): «Ac saepe vagi "currus", exterriti sine rectoribus equi». (Spesso i carri vaganti, e i destrieri atterriti senza guida). Carrus invece è la voce gallica latinizzata carros, carro da trasporto, la troviamo autonomamente attestata anche nell’Irlandese carr come nell’antico alto tedesco karro, ha come antecedente comune l’accadico ḫarû, parte del carro e garru, recipiente che prende poi il senso finale di carro, vagone e ruota, con l’accadico ma-garru.
La parola ruota potrebbe essere di origine celtica  in quanto il latino ha la sua parola "rota-ae", rotundus (rotondo), ma ugualmente hanno: il lituano, rātas; l'antibo alto tedesco, rad; l'irlandese, roth; l'antico irlandese, rethid; il sanscrito, ráthaḥ; l'avestico, raѳo; il gallico, rhôd; il semítico, rdī; l'accadico, redû, l'assiro, radā’u. Tutte queste parole che condividono la stessa radice, molte delle quali documentate prima dei celti, derivano dal celtico.


mercoledì 30 luglio 2014

Ripescata in Sardegna un'ancora in pietra di 4000 anni fa

Ripescata un'antica ancora in Sardegna
di Grazia Terenzi


La Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Alghero ed i subacquei di Cagliari hanno riportato alla luce un'ancora litica del peso di circa 50 chilogrammi, risalente a 4000 anni fa. Il prezioso reperto è stato, poi, consegnato ai responsabili della Soprintendenza Archeologica di Sassari.
L'ancora è una lastra dalle forme geometriche trapezoidali con tre fori. Uno di questi fori, praticato nella parte superiore, serviva per assicurare l'ancora alle navi per mezzo di cime di fibra vegetale o animale. Gli altri fori, posti in basso, ospitavano delle marre di legno che si attaccavano al fondo marino. Ancore come questa arrivavano a pesare fino a 600 kg.

Questo genere di ancore rimasero in uso fino al VII e VI secolo a.C., quando furono sostituite da ancore a ceppo litico. I più antichi esemplari sono stati ritrovati a Cipro e Creta. Il ritrovamento nelle acque sarde non fa che confermare che le coste dell'isola, in particolare quelle occidentali, erano luoghi di partenza, transito e scambio di merci tra i paesi del Mediterraneo già in epoche molto remote.
Questo tipo di ancore è stato rinvenuto anche in Turchia, Egitto, nel Mar Nero, in Grecia, a Malta, inFrancia, in Spagna e persino in Inghilterra. Non appena restaurato, il prezioso reperto sarà esposto al Museo Archeologico di Bosa.

martedì 29 luglio 2014

La collezione Canese: Arte buddhista birmana in mostra al Museo Cardu di Cagliari

La collezione Canese: Arte buddhista birmana in mostra al Museo Cardu di Cagliari
di Ruben Fais

Il Museo d’arte siamese “Stefano Cardu” espone un’importante collezione d’arte birmana, concessa in deposito dal proprietario Silvio Canese e da sua moglie Erika. Le opere un tempo appartenevano ad Antonio Gallo, raccolte amorevolmente da quest’ultimo durante gli anni della sua permanenza in Myanmar in qualità di console vicario. L’incontro di chi scrive con i collezionisti e la scoperta della collezione, sono stati il risultato di eventi casuali e di fortunate coincidenze. Nonostante ciò, la reciproca profonda fiducia e la stima professionale, ci hanno convinto a intraprendere un percorso, a volte non facile, che si è concluso con l’emozionante arrivo a Cagliari delle opere, e la recente e suggestiva inaugurazione della collazione nell’aprile del 2011, nei locali del Museo. Viva e palpabile l’emozione davanti allo splendore delle opere, che hanno ricompensato la fatica e l’impegno di tutti coloro che hanno contribuito all’evento.
Il nostro consiglio di acquisire le opere, invocato sin dal 2009 e favorevolmente accolto dal museo cagliaritano, si basa su motivazioni di diversa natura. La raccolta difatti si rivela preziosa in quanto costituisce un corpus omogeneo per provenienza e contenuti. Il materiale è pervenuto in buono stato di conservazione, nonostante le normali lacune e le relative rughe del tempo, tipiche di antichi oggetti di provenienza archeologica e realizzati in materiali deperibili. 

La collezione è composta da manufatti di alta qualità esecutiva, datati tra il XVIII e il XIX secolo. Le opere provengono in buona parte dal regno Shan e da quello costiero di Arakan, regioni e manifatture periferiche birmane meno note e studiate, caratterizzate da un’eleganza più sobria e rigorosa rispetto all’arte coeva più documentata e fastosa, prodotta nella capitale Mandalay (1885-1912).

lunedì 28 luglio 2014

Archeologia. Porti e approdi antichi del Sulcis

Porti e approdi antichi del Sulcis
di Piero Bartoloni

Il Sulcis-Iglesiente è la regione della Sardegna in cui troviamo la maggior concentrazione degli insediamenti fenici. La ragione è la ricchezza mineraria della zona, soprattutto per quanto riguarda l’argento, metallo di riferimento per i popoli del vicino oriente: 7.2 grammi di argento erano l’unità di misura della moneta orientale. I sardi, proprietari delle miniere d’argento scambiavano questo metallo con il rame perché le miniere di questo elemento sono solo 8 e non erano sufficienti al fabbisogno dell’isola. Solo Funtana Raminosa forniva una buona quantità di rame, le altre miniere erano povere. Oggi è l’oro il metallo di riferimento, ma anticamente avevamo l’argento nel Vicino Oriente e il rame in Sardegna. I fenici avevano bisogno di porti, luoghi dove sostare con le navi che offrivano anche la possibilità di penetrare verso l’interno. Qualunque porto, per quanto grande e attrezzato possa essere, se ha le montagne alle spalle perde quasi completamente il suo valore strategico. Da Guspini, a nord, fino all’attuale Carbonia, si trovano miniere di piombo argentifero e di galena argentifera. I greci affermavano che la Sardegna era l’isola dalle vene d’argento, e sono state censite 399 miniere di questo metallo. I principali insediamenti nella Sardegna meridionale sono Monte Sirai, Carloforte, Sant’Antioco, Pani Loriga-Santadi e Bithia. I porti importanti per imbarcare l’argento erano Guspini a nord, nello stagno di San Giovanni, e Sulki a sud. Il metallo veniva semilavorato negli insediamenti, e imbarcato sulle navi dirette nel Vicino Oriente. Già nella carta ottocentesca di Alberto Ferrero La Marmora si nota come la città di Sulki, il più antico agglomerato urbano sardo (780 a.C.), sia affacciata sullo stagno di Sant’Antioco e sul Golfo di Palmas.
Era un sito favorevole e ricercato dai marinai, tanto che nella prima guerra punica ci fu una importante battaglia navale nel Golfo di Palmas perché i romani volevano impadronirsi del porto. Nella battaglia di Sulki l’ammiraglio cartaginese fu sconfitto, riparò a terra e, come avveniva in quelle circostanze, fu crocifisso. Nelle monete romane dell’epoca si notano una serie di rostri, importanti perché rappresentavano il trofeo delle battaglie navali. Inoltre erano denaro contante in quanto realizzati in bronzo. Il porto fenicio di Sulki si trovava dove ancora oggi i diportisti ormeggiano le barche, protetto dal castello di Castro e da quello di Su Pisu. Contro la tramontana, l’unico vento dannoso per questo porto, c’era il becco roccioso di Sant’Isandra, oggi sprofondato, sopra il quale abbiamo individuato un edificio costruito, anch’esso oggi sommerso.



Questo edificio era realizzato con i blocchi delle fortificazioni cartaginesi. Si tratta di due quadrilateri affiancati, che sono stati recentemente demoliti perché i pescatori si sono serviti di questi blocchi per fare dei pedagni per le reti. Probabilmente si trattava di un piccolo santuario collocato lungo una strada rotaia, parallela alla linea di costa, che consentiva alle navi di essere trascinate in porto con delle corde legate a buoi, secondo una tecnica utilizzata anche in altri luoghi.

domenica 27 luglio 2014

Archeologia Sperimentale. Fusione a cera persa a Talana e Jerzu.

Archeologia Sperimentale. Fusione a cera persa a Talana e Jerzu.

Domenica 3 Agosto, Talana, ore 21.00, in piazza. Archeologia sperimentale. In occasione delle "Giornate Archeo Sperimentali: Fusione sotto le stelle", il maestro fonditore Andrea Loddo preparerà un pugnaletto in bronzo con elsa gammata e un bronzetto nuragico di sacerdotessa offerente con il metodo della cera persa. Durante l'avvenimento, Pierluigi Montalbano illustrerà la storia dei metalli in Sardegna e i processi tecnologici per la preparazione dei bronzetti. La giornata è dedicata alla sagra del prosciutto con l'allestimento di bancarelle, palcoscenico con musicisti e balli.

Lunedì 4 Agosto, Jerzu, ore 21.00, replica della giornata precedente con il maestro Andrea Loddo che preparerà altre opere artistiche con il metodo della fusione a cera persa. Pierluigi Montalbano illustrerà la "Via dei Metalli", con le antiche rotte commerciali che interessarono il Mare Mediterraneo di 4000 anni fa. La giornata è dedicata alla sagra del vino con l'allestimento di bancarelle, palcoscenico con musicisti e balli.

sabato 26 luglio 2014

Il palazzo di Cnosso e la civiltà minoica

Il palazzo di Cnosso e la civiltà minoica
di Pierluigi Montalbano

L’antica città di Creta, nel Mediterraneo orientale, fu famosa e potente nella prima metà del II millennio a.C. quando fiorì la civiltà che Evans, dal nome del mitico re Minosse, chiamò minoica.
I primi ritrovamenti risalgono al 66 d.C., quando, in seguito a un terremoto, fu trovata una cassetta di metallo, con tavolette scritte in una lingua sconosciuta. Gli scavi moderni iniziarono nel 1900 con Evans specialmente nel grande palazzo del Bronzo, nella città e nelle necropoli.
L'abitato più antico era sulla bassa collina di Kephala, sulla riva sinistra del torrente Katsabà (Kairatos), allo sbocco di una valle fertile. Le leggende greche su Cnosso e sul re Minosse sono basate sui ritrovamenti archeologici risalenti al III e II millennio a. C. quando la città rivaleggiava in campo artistico e politico con le città della Creta orientale e, nel Sud dell'isola, con Festo. Cnosso si impose sui centri vicini, Amnisos, Tylissos, Nirou Chani, ma una supremazia su tutta l'isola non sembra possibile, specialmente dopo i recenti scavi di Festo, prima del XVII a.C.
Fin dal III millennio a. C. la città ebbe rapporti commerciali con l'Anatolia e la costa occidentale dell'Asia Minore, l'Egitto, le Cicladi e la Grecia. Le iscrizioni minoiche, in caratteri geroglifici prima, e poi in lineare A, non sono per ora state decifrate. A partire dal 1450 a.C. appare la lineare B in cui si è riconosciuto un dialetto arcaico greco. Intorno al 1400 a.C. il palazzo e la città furono distrutti ma le rovine, ristrutturate, furono abitate fino all’XI a.C.
All’inizio del X a.C. c’è una variazione del rito funerario e la cremazione si sostituisce alla inumazione, forse per la conquista da parte dei Dori. Le necropoli testimoniano la prosperità di Cnosso, e rapporti con le Cicladi, l'Attica, Corinto e Cipro, fino alla fine del VII a.C.
Dal VI a.C. all'età ellenistica mancano cimiteri e case, ma la prosperità della città è provata da iscrizioni e dalla monetazione. Fu in lotta con varie città dell'isola, ma ebbe come rivale soprattutto Gortyna, nella Creta meridionale, che prese il sopravvento nel IV a. C. Tuttavia Cnosso riconquistò una posizione di dominio, che conservò anche quando, dopo la conquista romana, Gortyna divenne la capitale della provincia di Creta e Cirene. Resti di strade del II millennio a. C. mostrano che la città era in comunicazione con le regioni meridionali, con il mare Libico, con il porto di Katsabà alla foce del Kairatos e con le regioni occidentali e orientali dell'isola.
Fu importante centro artistico in età minoica quando la sua produzione si distingueva dai centri vicini. La documentazione pittorica è frammentaria per cui non sappiamo se gli artisti locali furono attivi anche altrove. L’artigianato offre bronzi, gemme incise, oggetti in argento e oro, vasi, lampade in steatite e pietra, influenzando la Grecia fino al XV a.C.
La costruzione del più antico palazzo minoico è fatta risalire al 2000 a.C. L'attuale facciata occidentale fu costruita nel XX a.C. a Est di quella più antica, ed ebbe fin da allora i caratteristici ortostati di gesso alabastrino. Frequenti restauri e ricostruzioni, necessitati dai terremoti e dal desiderio di abbellimenti, hanno fatto sparire la maggior parte dei resti più antichi. Estese ricostruzioni si ebbero nella prima metà del XVIII e diedero al palazzo l'aspetto che conservò fino alla distruzione finale, avvenuta nel 1400 a.C.
Il palazzo è orientato lungo l’asse nord-sud ed è costruito intorno ad un grande cortile centrale. Il numero considerevole dei vani e la loro distribuzione intorno a pozzi di luce, l'intricato sistema dei corridoi, possono aver dato origine alla leggenda del labirinto di Cnosso. La facciata principale, a Ovest, non formava una linea diritta, bensì aveva le sporgenze e rientranze caratteristiche dell'architettura minoica, e sopra c’erano mattoni crudi e travi di legno. La strada minoica che portava all'ingresso Nord traversava un complesso sistema di scalinate, che l'Evans vuole adibito a rappresentazioni teatrali. Nell'ala Ovest c’erano magazzini,  officine e botteghe. A Est del Cortile Centrale, una scala, una delle più belle creazioni minoiche, scendeva al quartiere privato, dove erano un'ampia sala con tre portici e relativi pozzi di luce, una sala più piccola e altri annessi, fra cui bagno e latrina. La presenza di scale, le basi di colonna e gli stipiti caduti dall'alto, provano l'esistenza di un piano superiore su tutta l'area del palazzo, ma la ricostruzione di Evans è ipotetica. In tutto il sito è presente fin dalle origini un complesso sistema di fognatura.
Non è mai stata fatta un'esplorazione sistematica della città e perciò non ne abbiamo una pianta. Conosciamo resti di case isolate, con pavimenti e focolare fisso nel vano principale, forse vi si accedeva dal piano superiore per mezzo di scale di legno. I pavimenti sono in stucco rosso, o bianco. Il pianterreno è spesso privo di comunicazione diretta con l'esterno, e la porta d'entrata era sopraelevata, come vediamo su un bell'avorio, trovato nel 1957 vicino alla Casa degli Affreschi. Un modello di casa in terracotta, trovato in una tomba di Teké, a un solo piano, con camino, piccole finestre quadrangolari in alto alle pareti, aveva il tetto piatto probabilmente di canne e argilla.
Le tombe più antiche sono a inumazione, ma una tomba di Gypsades sembra avesse tracce di incinerazione. Il cadavere era rannicchiato o, in età più recente, disteso, posto in pithoi, in làrnakes di terracotta, in casse di legno, o posato sul terreno. Si hanno tombe a pozzo, a fossa,a camera scavate nella roccia, a thòlos, costruite con blocchi di calcare squadrati, a falsa vòlta e a falsa. Talvolta le ossa dei seppellimenti più antichi venivano riunite in un angolo, o in una fossa, per far posto alle nuove deposizioni.
Non sono state trovate tombe anteriori al 2000 a.C. All'inizio del X a.C. il rito funebre cambiò. Le tombe, a camera, a fossa, a thòlos, sono quasi unicamente a cremazione e l'inumazione riprende solo nel VI a.C.

Cnosso è celebre per gli affreschi e gli stucchi, a partire dal XVIII a.C. e fino al 1450 a.C. con pittori che si ispirano alla natura. Piante e animali formano il soggetto del quadro, talvolta sono lo sfondo sul quale agisce la figura umana, ma sempre la natura ha parte preponderante. Dal 1450 a.C. il carattere delle pitture cambia, con la figura umana che prende il sopravvento su piante e animali stilizzati. 

venerdì 25 luglio 2014

Archeologia. Scoperta una città del Neolitico Finale.

Individuata una città di 5000 anni fa
di Pierluigi Montalbano

Scoperta una civiltà del Neolitico Finale che realizzava edifici con mattoni di fango e ceramiche senza l’uso del tornio.
Il sito è stato scoperto per caso durante gli scavi per un progetto di costruzione nella regione Khajeh Askar, vicino alla città di Bam. Il direttore del team è Nader Alidadi-Soleimani ed è stato intervistato dal giornale persiano “Mehr News Agency”.
"Purtroppo, una parte del sito è stata danneggiata durante lo scavo e, sulla base dei reperti rinvenuti, il sito può essere classificato come uno dei primi insediamenti umani in Iran. Gli abitanti avevano un collegamento con altre civiltà, come quella Jiroft", ha spiegato.
Il team ha anche scoperto un certo numero di pezzi di ceramica intatta e frammenti. Lo studio dei reperti suggerisce che l'uso del tornio non era conosciuto.
Alidadi-Soleimani ha anche detto che vi erano due tipi di sepoltura, una per l’uomo e l’altra per la donna, identificate in due cimiteri scoperti presso il sito. Uno dei corpi è stato sepolto in posizione fetale e un altro era disteso con la faccia rivolta verso l’alto.
I corpi erano stati sepolti con diversi manufatti accanto, come ad esempio una conchiglia contenente materiale cromatico usato per la cosmesi femminile.
La civiltà di Jiroft è stata scoperta vicino al fiume Halil Rud, in provincia di Kerman, grazie ad una indagine su alcuni scavi clandestini di gente del posto che aveva saccheggiato molti pezzi storici dal valore inestimabile.

In cinque stagioni di scavo portate a termine presso il sito di Jiroft, sotto la supervisione di Yusef Majidzadeh, gli archeologi hanno portato alla scoperta di una ziggurat composta da più di quattro milioni di mattoni di fango, risalente al 2200 a.C. circa. Inoltre, molte antiche rovine e reperti interessanti sono stati scavati in uno strato ancora più antico di Jiroft, conosciuto come il “paradiso perduto degli archeologi”.
Dopo le numerose scoperte uniche nella regione, Majidzadeh Jiroft è stato dichiarato “culla dell'arte”. Molti studiosi hanno proposto varie interpretazioni in quanto non erano ancora stati scoperti scritti o strutture architettoniche, ma recentemente il team ha individuato iscrizioni nella Ziggurat a Konar Sandal, inducendo gli esperti a rivedere le varie opinioni.
Queste scritte sono più vecchie dell’iscrizione Inshushinak, e suggeriscono che la recente scoperta è stata utilizzata alla metà del XXIII secolo a.C.
Gli specialisti iraniani e stranieri, vedono i risultati di Jiroft come segni di una grande civiltà, coeva a quella Sumerica dell’antica Mesopotamia. Majidzadeh ritiene, infatti, che Jiroft è la città di Aratta, descritta come una grande civiltà in una iscrizione di argilla sumerica.
La provincia di Kerman, ospita tra i più importanti siti archeologici dell'Iran, oltre la città preistorica di Bam sede della più grande struttura in mattoni al mondo, proclamata patrimonio dell'umanità dall'Unesco e quasi completamente distrutta da un terremoto nel 2003.



giovedì 24 luglio 2014

Göbekli Tepe. Scoperta la più antica raffigurazione erotica maschile.

Göbekli Tepe. Scoperta la più antica raffigurazione erotica maschile.
di Saverio G. Malatesta


Desta curiosità la notizia del rinvenimento di quella che sembrerebbe essere la raffigurazione di un uomo nudo, colto nel momento della piena erezione: se così fosse, si tratterebbe della più arcaica rappresentazione erotica maschile. La scoperta è avvenuta nel famoso sito turco di Göbekli Tepe, nei pressi del confine con la Siria, all’interno di quello che viene ritenuta la struttura templare in pietra più antica al mondo, databile intorno al XII Millennio a.C., ben 7000 anni prima dell’erezione delle Grandi Piramidi in Egitto.
Prescindendo dalle interpretazioni di carattere fanta-archeologico, che vedrebbero la località, frequentata per circa cinque secoli prima di essere misteriosamente interrata, all’origine – o controprova – del mito del giardino dell’Eden, si tratta comunque si un’area archeologica straordinaria: il complesso, infatti, si compone di una collina artificiale delimitata da grezzi muri a secco e di quattro grandiosi recinti circolari, delimitati da imponenti monoliti dal peso di circa dieci tonnellate l’uno, riccamente decorati con svariate specie animali in bassorilievo, oltre che con motivi geometrici; sono state rinvenute inoltre alcune statue in argilla, molto rovinate, raffiguranti forse una volpe o un cinghiale. Grazie alle analisi paleobiologiche, si è potuto ricostruire l’ambiente che permise a gruppi di uomini di abbandonare il nomadismo e di insediarsi stabilmente in un luogo: solo un’organizzazione stabile, o in via di stabilizzazione, poteva concepire un progetto tanto monumentale e protrarlo per diverse generazioni, sebbene non siano stati rinvenuti (per il momento) resti di abitazioni o animali domestici.
Al posto dell’attuale deserto, querce, ginepri e mandorle, oltre ad animali selvatici, di cui si sono rinvenuti i resti negli strati più antichi dello scavo, accanto agli strumenti utilizzati per cacciarli ed utilizzarne al meglio carne, ossa, pelli; semi di piante selvatiche e tracce di legno carbonizzato indicano che, già prima della costruzione del santuario, il luogo doveva essere frequentato con una certa regolarità. Forse la sedentarizzazione, e di conseguenza l’agricoltura, ebbe il suo primo, fondamentale impulso proprio qui. In attesa di nuove scoperte, intanto, qual era lo scopo di tanti immani sforzi? Propiziarsi le divinità della caccia (ma i bassorilievi delle formiche e gli scorpioni, allora)? Una celebrazione cosmica delle ricchezze che la natura offriva? Riti sciamanici? Cerimonie legate alla fertilità? Culti apotropaici? La scoperta della raffigurazione maschile potrebbe servire a rispondere ad alcune domande.
Jens Notroff, portavoce del Deutsches Archäologisches Institut, l’ente che sta curando gli scavi nella zona, ha affermato che l’immagine è “senza dubbio di un uomo con un pene in erezione”. Figure di nudi femminili così antiche erano già conosciute, questa sarebbe quindi la prima riguardante un maschio: la caratterizzazione fallica indicherebbe fertilità, dunque prosperità ed abbondanza, come si riscontra esplicitamente nella cultura greca e romana, ma con una piccola differenza. L’uomo del bassorilievo, infatti, è privo del capo. “La testa dell’uomo risulta mancante – continua Notroff – Essa era vista come sede dell’anima, dunque un’immagine che ne è priva vuol rappresentare che egli è morto e trapassato nell’aldilà”. A questo vanno ad aggiungersi le figure di contorno – più grandi di quella maschile – un volatile ed uno scorpione, in linea con un inusuale disco, forse il sole. Comprenderne il senso, dunque, diviene ancora più difficoltoso.
Klaus Schmidt, direttore della missione tedesca, illustra epigraficamente quale sia l’insormontabile problema che deve affrontare chi cerca di gettare luce su un apparato iconografico così remoto: “Questa era un’epoca in cui la scrittura non esisteva, quindi i nomi non potevano essere trascritti”, e dunque tramandati attraverso i millenni. Basti pensare all’Egitto: senza geroglifici, non sapremmo che quello che le fonti classiche ci dicono di loro, ed è ben poco. Ma, senza Stele di Rosetta, anche la scrittura geroglifica risulterebbe del tutto inutile. Non basta, infatti, il segno: bisogna anche interpretarlo. “Ad essere onesti – spiega Notroff – stiamo ancora cercando di capire il senso delle immagini: vediamo le figure, ma non ne comprendiamo il significato. È come se si scavasse una chiesa cristiana ritrovando la croce e tutti gli altri simboli, senza alcun indizio su cosa essi significhino. Sappiamo che queste immagini hanno valenza religiosa, ma di tutto il resto non abbiamo alcuna idea”. Dunque il dubbio rimane, e forte, a meno che non intervengano altre insospettabili scoperte a gettare nuova luce, qui a Göbekli Tepe, santuario di oltre tredicimila anni fa.

Foto di apertura: particolare della stele raffigurante un uomo nudo, nell’angolo in basso a destra.

mercoledì 23 luglio 2014

Cristoforo Colombo, la bussola e la declinazione magnetica

Cristoforo Colombo, la bussola e la declinazione magnetica
di Rolando Berretta

Wikipedia dice che la declinazione magnetica è il valore dell'angolo sul piano orizzontale tra la direzione dell'ago magnetico e la direzione del meridiano del luogo. Più semplicemente è la distanza angolare tra Nord Geografico (il punto di intersezione dell'asse di rotazione terrestre con la superficie dell'emisfero boreale) e il Nord Magnetico (il punto di intersezione dell'asse del campo magnetico terrestre con la superficie dell'emisfero boreale). Il suo valore varia da luogo a luogo e varia nel tempo in quanto il Nord Magnetico a differenza di quello Geografico non è statico. La declinazione può essere Est (E) od Ovest (W) in funzione dell'orientamento delle locali linee di flusso del campo magnetico terrestre (parallelamente alle quali si allinea l'ago magnetico della bussola) rispetto al meridiano locale. Poiché i poli magnetici terrestri non coincidono con i poli geografici (intesi come i punti di intersezione dell'asse di rotazione con la superficie terrestre), il nord magnetico, indicato da una  bussola magnetica, non indica esattamente la direzione del nord geografico. Per orientarsi correttamente al nord occorre correggere l'indicazione della bussola di un valore angolare che è dato dalla declinazione magnetica. Tale valore alle coordinate di Roma (41° 53' 42" N, 12° 29' 05" E), calcolato al 25/03/2014, è pari a 2° 37' 20" Est e varia ogni anno di 6,6' Est.
Per poterla misurare, bisogna servirsi di un ago magnetico libero di ruotare intorno ad un asse verticale alla superficie terrestre; una volta che quest'ago ha raggiunto la posizione di equilibrio, misurando l'angolo che si forma tra il piano verticale passante per l' ago e il piano del meridiano terrestre nel punto considerato, si ottiene la declinazione magnetica.
La declinazione magnetica varia da punto a punto sulla superficie terrestre e varia nel tempo, in quanto il polo nord magnetico cambia continuamente posizione; attualmente si trova nel nord del Canada. Storicamente fu Edmund Gunter, un matematico e astronomo inglese, ad accorgersi della variazione annuale della declinazione magnetica.
…. Il merito del riconoscimento, da parte europea, si deve attribuire a Cristoforo Colombo, il quale nel 1492, uscito con le caravelle spagnole nell'Atlantico, si avvide che l'ago della bussola aveva sensibilmente cambiato direzione dal meridiano vero e poté così constatare il fatto della declinazione, nonché la sua variabilità, passando da un meridiano all'altro nella navigazione da oriente verso occidente. Il primo poi che fece una vera misura (per quanto grossolana) dell'angolo di declinażione fu Giorgio Hartmann, prete di Norimberga, il quale, nell'occasione d'un viaggio a Roma nel 1510, misurò l'angolo eguale a 6° verso est.

Questo passa il convento. Da tutto ciò si deduce che l’ago della Bussola non punta verso il nord/geografico ma punta verso un punto, variabile, che oggi si trova in Canada.
Quindi, se si naviga dentro il Mediterraneo, facendo la spola tra Alessandria e Gibilterra, si dovrebbe léggere lo scarto della bussola. Perfetto! Discorso ineccepibile.
Veniamo alla grande scoperta di Colombo.

lunedì 21 luglio 2014

Il mondo degli Etruschi

Il mondo degli Etruschi
di Pierluigi Montalbano

Gli Etruschi sono, insieme ai nuragici, la più importante popolazione dell'Italia preromana. Inizialmente occupavano un vasto territorio tra l'Arno e il Tevere, poi chiamato Toscana perché i Romani chiamavano Tusci gli Etruschi, e verosimilmente erano conosciuti precedentemente come Tursha, una componente della coalizione dei Popoli del mare che partecipò alle vicende legate all'invasione dell'Egitto intorno al 1220-1175 a.C. Di lì poi si estesero verso nord, in Emilia Romagna, e verso sud, in Campania. Il massimo splendore della civiltà etrusca precede l’avvento di Roma repubblicana, intorno al V a.C. per poi essere assorbiti dai romani, fino a scomparire
Gli Etruschi hanno attirato l'interesse degli studiosi per l'immenso livello artistico raggiunto, pur se a causa della difficoltà di comprendere i testi scritti in etrusco, il mistero della loro origine continua a sussistere ancora oggi. Già gli antichi non erano in grado di spiegare la presenza di questo potente e raffinato popolo nel panorama delle antiche genti italiche. Lo storico Erodoto, nel V a.C., attribuiva l'origine dei Tirreni (così i Greci chiamavano gli Etruschi) a un mitico fondatore, Tirreno, che si sarebbe trasferito nell'Italia centrale dopo essere fuggito dall’attuale Turchia. Al contrario, il greco Dionigi di Alicarnasso, nel I a.C., attribuiva agli Etruschi un'origine italica. Lo storico latino Tito Livio, infine, contemporaneo di Dionigi, sosteneva che gli Etruschi giunsero in Italia dall'Europa centrale. Oggi sappiamo assai di più sulle origini di quel popolo, e abbiamo capito che tutte e tre le tradizioni degli antichi sulle origini degli Etruschi hanno una parte di verità.
La civiltà etrusca deriva direttamente da quella individuata per la prima volta nella località di Villanova, nei pressi di Bologna. La civiltà villanoviana risulta diffusa durante il Primo Ferro (IX-VIII a.C.) proprio nelle zone che vedranno fiorire la civiltà etrusca. I resti di questa civiltà, provenienti, come quelli etruschi, soprattutto da tombe e necropoli, testimoniano di forti influenze delle popolazioni nordiche, in particolare celtiche, presenti anche nell'arte etrusca. Dall’VIII a.C. si nota un cambiamento nei manufatti e si ha un graduale passaggio all’arte etrusca, caratterizzata da evidenti influenze greche. Gli Etruschi, quindi, sono i successori dei Villanoviani, permeati dall'influenza dell'arte greca, giunta in Etruria dalla Campania, dalla Magna Grecia e dalle colonie greche dell'Adriatico, in particolare Spina, nel delta del Po. Alcuni studiosi vedono anche una notevole vicinanza al mondo nuragico della vicina Sardegna.

Le fonti per la storia degli Etruschi sono scarse e  tutte di ambito greco e romano. La struttura sociale prevalente tra gli Etruschi era la città, che aveva caratteristiche sociali e architettoniche per molti aspetti simili a quelle delle città greche, in particolare la grande accuratezza con cui erano decorate le porte delle mura difensive, in grandi pietre squadrate.
Come le città greche della Magna Grecia, anche quelle etrusche erano tra loro collegate in leghe, ad esempio quella delle dodici città: Vulci, Volterra, Volsini, Veio, Vetulonia, Arezzo, Perugia, Cortona, Tarquinia, Cere, Chiusi, Roselle. Tale lega, però, aveva più un valore sacro che politico: per esempio, quando Roma conquistò, dopo una guerra decennale, Veio, nessuna città etrusca della lega si mosse in suo aiuto.
Nel VII e VI a.C. le città etrusche raggiunsero la loro massima espansione: dalla Campania, con Capua e Pompei, fino all'Emilia, Lombardia e Veneto, con i centri di Marzabotto, Felsina (Bologna), Spina, Adria, Mantova.
Nel 540 a.C. una flotta mista di Etruschi e Cartaginesi si scontrò vittoriosamente al largo di Alalia, in Corsica, con una flotta greca, ponendo termine all'espansione ellenica verso il Tirreno settentrionale. Quel momento segnò il culmine della parabola per la civiltà etrusca. Pochi anni dopo, nel 510-509 a.C. Roma, fino ad allora retta da una monarchia etrusca, i Tarquini, iniziò una politica di espansione in zona etrusca.
Le città campane di Capua e Pompei furono perdute a partire dal 505 a.C., anno della battaglia di Ariccia, mentre nel 474 a.C. una flotta greca vendicò al largo di Cuma la sconfitta di Alalia.
A partire dal V a.C. il baricentro della civiltà etrusca si spostò tutto a nord e tra il IV e III a.C. la civiltà etrusca crollò: Veio venne conquistata da Roma nel 396, tra il 356 e il 311 caddero Tarquinia e Cerveteri, all'inizio del III a.C. Perugia, Arezzo, Cortona, Vulci e, nel 264, Volsini. L’Etruria settentrionale si arrenderà all'espansione romana con poca resistenza.
Le città erano rette da re e le insegne del potere saranno poi acquisite da Roma per designare il potere dei magistrati superiori, i consoli e i pretori: la corona d'oro, il trono d'avorio, lo scettro con l’aquila, la tunica e il mantello di porpora intessuti d'oro. Anche i littori, le guardie del corpo del re che portavano sulla spalla il segno della sua potestà di punire (il fascio di verghe con la scure) diedero il nome al fascio littorio. Ognuno dei dodici re della lega etrusca ne aveva uno, ed è curioso che a Roma i consoli saranno preceduti ciascuno da dodici littori.

Il re fondava il suo potere su una classe aristocratica di ricchi proprietari terrieri, che facevano coltivare le loro terre da servi privi di diritto politico. Le donne, al contrario di quelle greche, partecipavano attivamente alla vita sociale. La ricchezza e il lusso caratterizzavano la vita delle classi dirigenti etrusche e il banchetto (o simposio) aveva un'enorme importanza, testimoniata nelle tombe dove i defunti erano rappresentati sui coperchi dei sarcofagi come se stessero partecipando a un banchetto, distesi su uno dei tre letti del triclinio, poi adottato dall'elìte della società romana.
L’arte degli etruschi è soprattutto funeraria e proviene dalle necropoli di Cerveteri, Tarquinia e Chiusi, con le tombe a camera, di Norchia, con le tombe a grotta. Nelle tombe c’erano gli ziri (grandi orci di argilla grezza che contenevano il vaso cinerario con le ceneri del defunto). Oltre alle abitazioni, anche gli edifici di culto sono andati per lo più perduti. Sappiamo che avevano in pietra solo le fondamenta, mentre l'alzato era in mattoni crudi, in terracotta o in legno. I templi sorgevano su alti basamenti ed erano costituiti da un portico aperto e da una parte chiusa divisa in tre celle non comunicanti. Il colonnato del portico aveva colonne tuscaniche che, a differenza di quelle greche, erano lisce.
Per le statue e i sarcofagi, al contrario dei greci, gli etruschi preferiscono la terracotta alla pietra, ma le raffigurazioni sono influenzate dal gusto greco, seppure con forti connotazioni locali. I ritratti sono elementi che consentono di capire l’evoluzione dell'arte etrusca dalla fase arcaica a quella ellenistica. I visi passano dalla scarsa espressività del famoso Sarcofago degli Sposi di Cerveteri del VI a.C. al crudo realismo umoristico dei sarcofagi di età ellenistica rinvenuti a Tuscania, dove si rappresentavano anche i difetti fisici dei defunti. Sono comuni le suppellettili d'oro, le coppe istoriate, le tavolette critte in etrusco e in fenicio, testimonianza dell'alleanza che portò al trionfo di Alalia, rinvenute a Pyrgi presso Santa Severa, la fibula della tomba Regolini-Galassi…tutte opere esposte nel Museo etrusco di Villa Giulia a Roma o al Museo gregoriano-etrusco del Vaticano.
Alcuni vasi funerari rimandano a pratiche religiose dove non è riscontrabile l'influsso greco, ma piuttosto una derivazione dalla precedente cultura villanoviana. In particolare gli ossuari con coperchio conico rovesciato, le numerose tipologie di buccheri e alcuni tipi di urne, i canopi.
La metallurgia raggiunse per gli etruschi traguardi altissimi grazie alla disponibilità di materiale ferroso: dall'oreficeria all'oggettistica, dalla fabbricazione di armi alla statuaria, non v'è branca in cui gli etruschi non fossero specialisti. Ricordiamo la lupa in bronzo, alla quale, in ossequio alla leggenda di Romolo e Remo, vennero successivamente aggiunti i due gemelli nell'atto di succhiare il latte, conservata a Roma nei Musei Capitolini e la tradizione la attribuisce a un mitico artista di nome Vulca, che avrebbe importato le arti a Roma, durante la monarchia dei Tarquini.
Etrusca è una splendida statua in bronzo di un uomo con toga e braccio alzato detto l'arringatore, trovata nei pressi del Lago Trasimeno, in Umbria, e conservata a Firenze, e la rappresentazione in bronzo di un fegato di pecora, a Piacenza, con tutte le indicazioni utili per servirsene allo scopo di indovinare il futuro, una pratica religiosa per la quale gli Etruschi erano famosi: l'aruspicina, cioè l'arte di fare previsioni sul futuro fondandosi sull'osservazione delle viscere delle vittime sacrificate agli dei o la capacità di indovinare il futuro tramite l'interpretazione di segni (fulmini, piogge e venti, il volo degli uccelli in una particolare zona del cielo).
Lo scrittore latino Publio Terenzio Varrone, nel I a.C. dice che il loro dio principale era Vertumnus, una divinità che aveva il suo centro di culto principale in un santuario a Volsini.

Il mistero del passaggio dalla vita alla morte è rappresentato in un famosissimo affresco scoperto nella tomba del tuffatore a Paestum (Campania). Pur appartenendo a un membro dell'aristocrazia greca che governava la città, risente degli influssi artistici esercitati dall'ambiente artigiano di Capua etrusca e il defunto è un giovane nudo che dall'alto di un trampolino, si tuffa in un mare tranquillo.

domenica 20 luglio 2014

Civiltà nuragica: i bronzetti

I bronzetti nuragici
di Pierluigi Montalbano

Fra i personaggi rappresentati nelle piccole statuette nuragiche in bronzo abbiamo varie specializzazioni: spadaccini, arcieri, lancieri, portatori d'ascia, portatori di pugnale, e poi ci sono sacerdoti, animali e oggetti d'uso comune come ceste in miniatura, spiedi, carri. Ogni categoria aveva un ruolo particolare nell'arte figurata sarda del I Ferro.
I bronzetti sono stati studiati dal grande archeologo Giovanni Lilliu già dagli anni Quaranta e la sua classificazione distingue il filone geometrico del gruppo Abini-Uta dal filone barbaricino, stilisticamente più elegante, dipendenti da due diversi livelli di committenza: gli aristocratici (la nobiltà guerriera) e il popolo (artigiani, commercianti, produttori).
Ogni descrizione dei bronzetti si basa quasi totalmente a elementi di tradizione locale (veste, calzari, copricapo, armi e oggetti vari come brocchette, anfore, ceste, e le botteghe artigianali sarde, fin dalle origini, attestano l'estrema originalità di questa produzione.
L'interpretazione dei bronzetti guerrieri richiama l'esigenza di ostentare il potere da parte di una committenza locale che spinge per modelli di cultura elevata. 
Abbiamo due tipologie principali: i demoni-militari e i guerrieri, con personaggi come il famoso eroe con quattro occhi e quattro braccia che fa pensare a un riferimento mitico accanto alla celebrazione del rango. 

Visti nella loro globalità, i bronzetti mostrano il mutamento nel passaggio dalla astrazione della pietra alla iconografia, minuziosa e precisa, dell'eroe mitico su uno sfondo religioso tradizionale. Il sacerdote-militare nasce all'interno di un’arte metallurgica assai avanzata tecnologicamente e attestata in Sardegna almeno dal Bronzo Finale. 
La nascita della rappresentazione figurata appare espressione di una società che cambia struttura, infatti non bisogna dimenticare che nello stesso periodo si verificano due fenomeni importanti: non si costruiscono più nuraghi e Tombe di Giganti e inizia il periodo delle grandi capanne delle riunioni per le assemblee della comunità.  Si avverte come fondamentale il momento della rappresentazione di simboli che riportano allo status. In altri termini, si assiste a una società in cui la produzione figurativa è finalizzata alle necessità politiche e celebrative di una classe dominante. 
Nel Bronzo Finale la Sardegna è al centro degli interessi commerciali e delle vie navali dei popoli che si affacciano nel Mediterraneo. Insieme a questa produzione artisticamente e ideologicamente elevata, si registra l’apparizione delle incantevoli navicelle bronzee che propongono un mondo legato al commercio e alle straordinarie elaborazioni araldiche. Il quadro che si ricava vede una produzione di matrice locale che non può storicamente essere definita fenicia visto che almeno due secoli separano questa produzione dall'inizio delle frequentazioni commerciali da parte dei fenici. 
Forse l'aspetto antico dei bronzetti sardi discende dalla familiarità con il bagaglio decorativo e con il gusto da tempo circolanti nell'isola, ma in realtà il problema delle origini è un falso problema perché la prospettiva corretta è quella di valutare la formazione di una società tecnicamente avanzata e strutturalmente complessa nel momento in cui compie la scelta politica e ideologica di autorappresentarsi in piccole sculture in bronzo. 

Ritengo legittimo affermare che le botteghe si avvalessero della presenza e della conoscenza di artigiani stranieri, a riprova del grado di articolazione della società sarda dell'epoca. I gruppi sociali committenti della bronzistica si riconoscono nella tematica eroica, principesca e sacerdotale della gestione del rituale. La società sarda approda allo stile di vita delle grandi famiglie aristocratiche presenti anche al di fuori dell’isola, etruschi in testa.
I gruppi a due figure sono rari fra i bronzetti e soltanto in un caso, con lo stesso tema che Michelangelo impresse nel marmo dopo 3500 anni nella famosa “Pietà” si interpreta una donna seduta in trono che tiene in grembo un bambino. Dal VI a.C. si registra il passaggio nella sfera cultuale salutifera, con personaggi appartenenti al popolo che offrono qualcosa per la grazia ricevuta. 

La mutazione è evidente, ad esempio, nel Capotribù di Uta, rappresentante di una casta aristocratica e guerriera, al quale si sostituisce si sostituisce un popolano che affida al tema figurativo non la casta né il rango, ma l’appartenenza a un gruppo umano meritevole di qualche distinzione, il gruppo degli uomini miracolati da una divinità.
Le caratteristiche riscontrate accomunano quest’ultima serie sarda alla produzione etrusco-italica, proveniente da santuari e stipi votive. Il predominio iconografico dell’orante-offerente, abbinato a un mutamento di culto rivolto al miracolo, suggeriscono anche per i sardi l’allineamento al fenomeno che risulta generalizzato fuori dall’isola intorno V a.C. riferito all'esplosione della religiosità popolare che orienta il culto in senso sanatorio.

sabato 19 luglio 2014

La maschera, un oggetto legato al mistero e alla spiritualità.

La maschera, un oggetto legato al mistero e alla spiritualità.
di Pierluigi Montalbano 

La maschera è presente in tutte le culture umane ed è legata a una dimensione arcaica e spirituale dei popoli selvaggi. Studiando i fenomeni sul tema, gli specialisti tentano di trovare la chiave per svelare il pensiero religioso e lo sviluppo sociale dell'uomo non civilizzato. L'uso delle maschere nelle società primitive costituisce uno dei misteri principali dell'etnografia e le strane, bizzarre e grottesche maschere che popolano le vetrine di molti musei etnografici esercitano un certo fascino anche sui visitatori più preparati.
Le forme artistiche che coprono il volto umano provocano nell'animo dell'osservatore un'impressione mista di interesse per l'esotico, ma la maschera isolata e analizzata nella sua dimensione di oggetto artistico è in realtà il prodotto di un processo di selezione che assume il suo significato completo nel momento in cui è indossata da un individuo che esegue determinate azioni cerimoniali, in un preciso rito.
La sua funzione si esprime attraverso la danza, la musica e le azioni dei personaggi che le si muovono intorno. L'occasione sociale in cui la maschera fa la sua comparsa, i ruoli e le funzioni di coloro che indossano le maschere e di coloro che assistono, il significato e la funzione dei comportamenti di ciascun partecipante…varia da una società all'altra. Il significato di una maschera è quindi strettamente legato in complesse relazioni simboliche e valori culturali specifici di una determinata società. E’ comunque inevitabile riconoscere tratti comuni nell'uso di maschere nelle situazioni culturali più diverse, pertanto la maschera deve essere intesa come il prodotto della continua interrelazione di fenomeni eterogenei.
La maschera è un oggetto artificiale con cui coprire il volto di chi la indossa. In molti casi la copertura del volto è soltanto una parte del costume dell'individuo mascherato, in altri il volto rimane in vista, e la maschera viene portata come una sorta di copricapo. Alcune maschere erano prodotte per venir appese nelle pareti interne delle capanne riservate agli uomini, dove avevano la funzione di oggetti sacri, immagini di spiriti e di entità sovrumane la cui vista era proibita ai non iniziati. Esistono due fattori determinanti nell'uso della maschera: ciò che è nascosto, ossia colui che è mascherato, e ciò che è mostrato, cioè cosa rappresenta la maschera stessa. L'elemento nascosto è il più delle volte il volto umano, immagine dell'identità personale dell'essere umano. Ciò che viene mostrato è un altro volto, a volte una rappresentazione mostruosa e inquietante. Oppure, la maschera può rivelare ciò che è separabile dall'essenza fisica dell'uomo, quindi lo status sociale, la condizione, l'interpretazione di un ruolo o di una parte.

Tuttavia, ciascuno sa che dietro la maschera è nascosto un essere umano e spesso gli spettatori sono in grado di riconoscere anche la persona che indossa una certa maschera, ciascuno sa che si tratta di una maschera, di un artificio, di una finzione. Eppure, la solennità, la ritualità, le prescrizioni che circondano in molte culture la comparsa di personaggi mascherati rivelano che si tratta di occasioni socialmente importanti, in cui trovano espressione i valori e le credenze più significativi per la comunità.

venerdì 18 luglio 2014

Stelle, costellazioni e animali: Quando le orse avevano la coda

Stelle, costellazioni e animali: Quando le orse avevano la coda
di Alberto Majrani


Nelle classiche rappresentazioni del firmamento ci sono sia animali reali, come l'ariete o il leone, che immaginari, come il drago o il capricorno, come viceversa mancano animali importantissimi, pensiamo al gatto, al cinghiale o al cervo. Il cavallo appare come Pegaso, il cavallo alato, mentre il gatto fu proposto senza molto successo solo nel 1799. C'è infine una strana anomalia che riguarda la costellazione dell'Orsa, che come è noto… sono due: l'Orsa Minore,

che è quella vicina al polo nord celeste (una delle sue stelle è la Stella Polare), e l'Orsa Maggiore,
che è una delle costellazioni più evidenti e facilmente riconoscibili, nota fin dalla più remota antichità e chiamata anche con vari altri nomi, come il Grande Carro, l'Aratro, il Mestolo, la Bara e altro ancora. Entrambe le costellazioni sono  costituite da un gruppo di quattro stelle disposte in forma trapezoidale, che costituirebbero il corpo dell'animale, e altre tre stelle quasi allineate che rappresenterebbero la coda.


Il problema è che gli appartenenti alla famiglia zoologica degli Ursidi non hanno la coda! O quantomeno  ne hanno una molto  breve, tanto che già in alcune mitologie antiche le tre stelle della coda sono state trasformate in tre cacciatori che inseguono l'orsa. Una volta credevo che le tre stelle rappresentassero la testa e il collo dell'orsa, solo che poi il cielo stellato ruota nel senso sbagliato e quindi questa povera bestia dovrebbe camminare all'indietro! Con tutti gli animali dotati di coda e quattro zampe, gatti, cani, linci, volpi eccetera, perché mai avrebbero dovuto inventarsi ben due orse con la coda? Non ha molto senso. E quindi magari l'Orsa… non è un'orsa!

Mi sembra già di sentire un coro indignato: "Diavolo di un Majrani, non sei mai contento? Non ti è bastato raccontarci che Ulisse non era Ulisse e che Troia non era Troia, ora ti vuoi mettere pure a ristrutturare l'Universo? Ma chi ti credi di essere!?". Eh, sì, del resto quello di potersi divertire a spaziare liberamente tra varie ipotesi, anche apparentemente astruse, è uno dei (pochi) vantaggi concessi a chi non è costretto ad uniformarsi alle rigide regole dell'ortodossia accademica. Certo, sembra un po' strano, però, se si guarda bene, non c'è apparentemente motivo perché si debba affibbiare una coda ad un'orsa;  un conto è attaccare le ali ad un cavallo, ad indicare un animale particolarmente veloce con doti straordinarie di saltatore, che sembra volare, ma la coda ad un'orsa a cosa potrebbe servire? E poi, perché mai avremmo a che fare con due femmine di  orso, e mai un maschio, visto che non ci sono delle stelle ad indicare dei piccoli orsacchiotti? Io avrei una soluzione possibile del mistero, anche se mi rendo conto che sarà molto difficile trovarne una vera "prova", tenendo presente che abbiamo a che fare con eventi realizzatisi in un tempo estremamente arcaico, forse decine di migliaia di anni fa.

giovedì 17 luglio 2014

Tradizioni Popolari. Gli antichi giochi di gruppo, quando i ragazzi giocavano per strada.

Antichi giochi delle nostre tradizioni popolari.





Chissà quanti di voi hanno preso parte almeno una volta da ragazzi a questi antichi giochi:

CHIE T'HAT PUNTU?

Questo gioco si faceva in gruppo e si svolgeva così: uno si sedeva su una sedia e tappava gli occhi ad un altro. Uno del gruppo Io pizzicavo e tornava al suo posto. Quello che era seduto chiedeva: "Chie t'ha puntu?" e l'altro rispondeva: "s'alza" "Puite?" "Po ti sanare" "Attindela po ti curare".
Quello che era inchinato andava in mezzo al gruppo e ne sceglieva

MUSCONE

Anche questo era un gioco di gruppo. Uno appoggiava una mano sul viso e l'altra sotto la spalla. Uno del gruppo, stando dietro, dava un colpo alla mano nascosta sotto l'ascella; siccome il protagonista doveva indovinare da chi aveva ricevuto il colpo, quelli del gruppo gli giravano attorno e con l'indice sollevato facevano il moscone. Se indovinava chi era stato, si scambiavano i ruoli, diversamente restava ancora lui nell'angolo con la faccia coperta.

GARIGI

A garigi si giocava con "sas laddarasa" (la pallina poteva essere di vetro o di terracotta fatta appositamente), e si svolgeva così: si faceva un buco nella terra. A turno si lanciava una pallina cercando di farla entrare nel buco; se uno ci riusciva guadagnava tre punti. Dopo passava la mano al compagno, il quale cercava di avvicinare la pallina all'altra "ceddare". Se c'erano tre palmi di differenza si guadagnavano altri tre punti.
Così si continuava fino ad arrivare a ventun punti e vinceva chi aveva totalizzato più punti Chi vinceva finiva il gioco; gli altri continuavano.

martedì 15 luglio 2014

Archeologia in Sardegna: ipotesi sull’origine e sulla funzione dei nuraghi.

Archeologia in Sardegna: ipotesi sull’origine e sulla funzione dei nuraghi.
di Aldo Casu

Quasi tutti gli studiosi della Civiltà Nuragica hanno formulato ipotesi sulla funzione dei nuraghi ma sono pochissimi quelli che hanno indagato sull’origine di queste costruzioni megalitiche uniche in tutto il mondo e ancora così misteriose e ricche di fascino.
Il Megalitismo, che ha coinvolto la Sardegna dal Neolitico all’Età Nuragica (6.000-700 a.C.), però, al contrario di quanto si crede, è stato un fenomeno mondiale che ha la maggiore concentrazione delle sue strutture nell’Europa Atlantica e in tutto il bacino del Mediterraneo.
Le imponenti strutture in pietra quali Stonehenge e i nuraghi  fanno parte del “patrimonio culturale europeo e mondiale”, e per la capillare diffusione e la grande varietà che ebbero in Sardegna, le cultureprenuragiche e la successiva Civiltà nuragica vengono considerate fra le più importanti culture megalitiche mai esistite.
L'ignota tecnologia usata per il taglio dei monoliti, la costruzione dei monumenti stessi e il loro significato spirituale resta ancora un enigma ma gli studiosi, con le loro ricerche, hanno dimostrato
come il cosiddetto “proto-megalitismo sardo”  sia strettamente legato al “megalitismo dell'area pirenaica ”. (1)
In Sardegna, espressione del megalitismo, oltre ai nuraghi, sono i ‘menhirs’ (vedi foto 1), i ‘dolmen’ (vedi foto 2), le ‘allèes couverts’ (vedi foto 3) e i ‘circoli dolmenici’ (vedi foto 4).(2)
Col passare dei secoli i ‘dolmen’ si evolsero nei primissimi ‘protonuraghi’ a base quadrata o, comunque non circolare; le “allèes couverts” si evolsero in ‘tombe dei giganti’ prima, e in seguito in ‘nuraghi a corridoio’.

lunedì 14 luglio 2014

Dario e Serse, i potenti re persiani che cambiarono il mondo

Dario e Serse, i potenti re persiani che cambiarono il mondo
di Pierluigi Montalbano

Alla morte di Cambise, avvenuta improvvisamente mentre rientrava in patria per soffocare una ribellione, il regno di Persia rimase al tiranno Gaumāta che si professava legittimo erede della dinastia sotto le mentite spoglie di Bardiya, fratello di Cambise. I capi delle sette famiglie più importanti del regno scoprirono il tranello, irruppero armati nella fortezza di Sikayahuvati in Media, e capeggiati da Dario fecero una strage nel 522 a.C.
La grande iscrizione che Dario lasciò incisa sulla roccia di Bīsutūn contiene la storia di tutte le ribellioni che egli dovette sedare, prima di riportare a unità il vasto regno persiano, con 7 anni di guerre e una ventina di battaglie vittoriose che assoggettarono tutte le provincie.  In Egitto si accordò con la casta sacerdotale evitando l'occupazione militare.
Riorganizzato il regno sulla base delle satrapie, rivolse il pensiero a garantire il proprio regno contro possibili minacce ai margini occidentali. Una via di 2400 km che congiungeva Sardi con Susa fu costruita per facilitare lo spostamento delle truppe verso Occidente e Dario iniziò le operazioni di guerra contro gli Sciti d'Europa. L’esercito persiano nel 514 a.C. attraversò il Bosforo su un ponte di barche e, sorpassata la Tracia, raggiunse il delta del Danubio e attraverso un altro ponte di barche concesso da Istieo, tiranno di Mileto, giunse nella steppa per assoggettare le tribù scitiche che, però, rifiutarono battaglia e lo costrinsero a ritirarsi ritornando a Sardi e lasciando in Europa, al comando di Megabazo, un potente esercito che ridusse all'obbedienza le città greche della Tracia e il re Aminta di Macedonia. L'esito infelice della spedizione causò delle ribellioni e Aristagora, succeduto a Istieo nella signoria di Mileto, capeggiò una rivolta nel 500 a. C. alla quale Sparta non offrì aiuti ma Atene concesse una flotta di 25 navi. Gli Ioni, alleati con la Licia, la Caria, Cipro e le città dell’Ellesponto,  distrussero Sardi, capitale dell'Asia Minore, ma la cittadella nella quale la guarnigione persiana si era rinchiusa non cedette e i Greci, già soddisfatti, desistettero da altre operazioni. Dario reagì e, occupata Cipro, con una flotta di 600 navi, nell'estate del 494 a.C., dinanzi a Mileto, inflisse una dura sconfitta alla flotta ionica e conquistò Mileto soffocando tutte le rivolte. Risentito per l'aiuto che Atene ed Eretria offrirono ai ribelli, decise di punire queste e inviò una flotta nell'Egeo sottomettendo le Cicladi, assaltando Eretria e, attraversato il tratto di mare fra l'Eubea e l'Attica, raggiunse la baia di Maratona.
Le truppe persiane furono costrette dagli Ateniesi ad accettare battaglia in condizioni sfavorevoli e subirono nel 490 a.C. la famosa sconfitta di Maratona che allontanò per qualche tempo la minaccia persiana. La riscossa non ci fu perché Dario morì nel 485 a.C. lasciando il trono a Serse, figlio della sua seconda moglie Atossa, figlia di Ciro il Grande. 
Nato nel 519 a. C. Serse fu preferito al fratello maggiore, nato prima che Dario diventasse re. Nel suo regno, represse la rivolta egiziana e cercò di proseguire il lavoro contro la Grecia progettato dal padre. Dopo le disastrose sconfitte di Salamina e di Platea del 480 a.C., tornò in patria dove morì nel 465 a.C. in una congiura di palazzo, insieme col figlio primogenito, per mano del comandante della sua guardia del corpo, Artabano.
Nei rilievi del suo palazzo a Persepoli, Serse è rappresentato in tre modi:
1) come principe ereditario, mentre esce dai suoi appartamenti, seguito da un servitore che gli regge l'ombrello aperto sul capo 
2) come correggente, in piedi dietro il trono di Dario, nell'atto di toccare con la mano sinistra l'alto schienale del trono stesso 
3) come "Gran Re", mentre esce dal suo palazzo seguito da due servitori, che reggono le insegne del suo rango.
Nelle rappresentazioni è sempre vestito con una lunga tunica persiana, pieghettata sul davanti e sulle maniche, con la testa pettinata a riccioli fitti e con una tiara merlata. Nel collo portava dei monili dorati, anche se oggi non ci rimane traccia di tali dorature.

Immagine da Wikimedia

domenica 13 luglio 2014

Le streghe e la stregoneria: gli oscuri rituali di natura demoniaca perseguiti dall’inquisizione.

Le streghe e la stregoneria: gli oscuri rituali di natura demoniaca perseguiti dall’inquisizione.
di Samantha Lombardi


Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle. (Voltaire)

Fra il Duecento e il Quattrocento, e poi nei secoli che seguirono, le testimonianze storiche e letterarie della cultura greca e latina accrescono la credenza nelle streghe. Giovan Francesco Pico della Mirandola, con la sua più celebre opera Strix Sive de Ludificatione Daemonium (1523) testimoniò, come, a quella data, già si parlava di fatti collegati a oscuri rituali di natura demoniaca della stregoneria che portarono a una durissima azione inquisitoria di repressione di cui fu oggetto Mirandola in quel periodo storico.
Canidie, Sagane, Erito, Circi erano i nomi delle streghe, ma anche delle maghe, descritte da Ovidio, Orazio e Lucano, che popolavano un universo in cui si rinnegava Cristo per seguire la fede Satanica. Fra i tanti testi dove troviamo ampiamente citati i nomi delle streghe che vissero nell’immaginativa di poeti e letterati troviamo il Malleus Maleficarum (pubblicato nel 1487 dai frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor), il De Lamiis et Pythonicis Mulieribus (testo di Ulrich Molitor del 1489) e il Disquisitiones Magicarum (del gesuita Antonio Martin del Rio, pubblicato nel 1599/1600).
Ma quali erano le sembianze della strega nell’antichità classica? La sua figura, senza ombra di dubbio, deve aver esercitato il suo fascino nell’immaginario collettivo. Le più allettanti e continue testimonianze sono quelle offerte dai poeti greci e latini ed è proprio a questi ultimi che i tribunali dell’Inquisizione medievale faranno frequente riferimento, anche se le antiche Leggi Romane non rimangono insensibili alla credenza dei rituali magici. Infatti, le Leggi delle Dodici Tavole (Duodecim Tabularum Leges), compilate nel 451/450 a. C., rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del Diritto Romano, dove una delle regole della Tavola VIII (illeciti) condannava tutti coloro che avevano cantato un maleficio (qui malum carmen incantassit). Cicerone e Plinio il Vecchio sottolineano come nella stessa Tavola veniva indicata inequivocabilmente, fra i reati capitali, l’appropriazione, per mezzo della magia, del raccolto o del grano di un altro.
In età imperiale anche lo storico Ammiano Marcellino, fornisce testimonianze riguardanti alcuni rituali puniti da leggi o editti. Dimostrato, tra l’altro, è l’uso della “defixio”, la stessa definisce la pratica magica collegata al rito della penetrazione con un chiodo della piccola lastra di piombo arrotolata su se stessa, su cui era scritto il nome del destinatario della maledizione o su cui era inciso semplicemente il testo dell’anatema. La lastrina inchiodata era posta in una buca che si credeva potesse comunicare con gli Inferi.
Streghe e maghi utilizzavano invece piccole figure realizzate in cera, metallo o altro materiale dalle grossolane sembianze delle loro vittime. Contemporanea era la produzione di amuleti che dovevano proteggere, dalle forze del male, coloro che li indossavano; su questi oggetti venivano incise anche formule magiche e immagini con valore scaramantico.
Se scarse sono le testimonianze iconografiche, vasta è la documentazione scritta delle pratiche magiche. Precise al riguardo sono le fonti letterarie di vari autori, tra cui: Virgilio, Orazio, Apuleio e Lucano che in alcune delle loro opere raccolgono ciò che andrà a costituire un repertorio in grado di alimentare l’immaginario di altri letterati, ma soprattutto degli stessi inquisitori. Non si può negare però che l’iconografia della strega medievale e rinascimentale insieme ad immagini letterarie e figurative, affonda le proprie radici nell’antichità classica. La figura della strega vestita di nero, a piedi nudi, ululante, con i capelli arruffati, che ci restituisce l’immagine medievale, in realtà, non è altro che la descrizione di Canidia proposta da Orazio nelle Satire.

sabato 12 luglio 2014

Tarquinia, civiltà etrusca. Iscrizione funeraria etrusca della “Tomba degli Scudi” di Tarquinia

Iscrizione etrusca della “Tomba degli Scudi” di Tarquinia
di Massimo Pittau



In una parete della splendida e famosa “Tomba degli Scudi” di Tarquinia (del sec. IV/III a. C.) si trovano i resti di una delle più lunghe iscrizioni funerarie etrusche (CIE 5385; TLE 90; ET, Ta 5.4 – 4:3). Purtroppo il testo dell'iscrizione risulta ormai molto guasto e per la sua ricostruzione hanno penato parecchio gli etruscologi F. Slotty, M. Pallottino, H. Rix, ecc. Sia per i numerosi guasti del testo sia per l'incertezza della lettura, è avvenuto che finora siano stati effettuati solamente pochi e molto parziali tentativi di traduzione di qualche breve brano dell'iscrizione. In virtù del fatto che di recente ho portato a termine la totale revisione dell'intero patrimonio lessicale della lingua etrusca che ci è stato conservato (vedi M. Pittau, Dizionario della Lingua Etrusca, I edizione Sassari 2005, II edizione digitale 2014 Ipazia Books, Amazon) ed inoltre ho effettuato la traduzione e il commento di molti testi della lingua etrusca (vedi M. Pittau, I grandi testi della Lingua Etrusca – tradotti e commentati, Sassari 2011, Delfino editore; 600 iscrizioni etrusche tradotte e commentate (Ipazia Books 2013), mi sento oggi in grado di effettuare un nuovo tentativo di ricostruzione (sempre parziale) del testo dell'iscrizione e di proporre la traduzione probabile dei suoi brani più ampi.