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mercoledì 30 aprile 2014

Archeologia e luoghi di energia: il pozzo sacro di Santa Cristina.

Archeologia e luoghi di energia: il pozzo sacro di Santa Cristina
di Sergio Costanzo



Pur se ritengo l'archeologia una disciplina rigorosa, che annovera fra gli studiosi degli intellettuali seri che devono vagliare le ipotesi con un fitto filtro al fine di ridurre gli errori, ho pensato di pubblicare questo interessante articolo di Sergio Costanzo, a metà strada tra il sacro e il profano, per tastare il polso ai lettori. Confido nella comprensione degli addetti ai lavori e mi auguro che qualche intrepido amico lanci qualche commento. (n.d.r.)

L'acqua con la sua capacità chimica e con la sua memoria specifica è in grado di veicolare energie. Molti dei santuari edificati in epoca cristiana hanno inglobato pozzi o fontane ed ancora oggi all'acqua sono legati fenomeni denominati "miracoli". In merito al pozzo sacro di Santa Cristina, la cui vista dall'alto ne evidenzia una struttura esterna a "toppa", forse in assonanza con l'organo generatore della Dea Madre, è stata condotta una attenta analisi e sono stati diagrammati i livelli energetici che mutano man mano che si discende la scalinata fino ad arrivare a contatto con l'acqua. Seguendo quanto affermato da Mario Aresu e Lello Fadda, al primo gradino sono state rilevate 2.000 Bovis. Il livello sale man mano che la discesa procede fino ad arrivare a 7.800 Bovis al decimo gradino. Scendendo ancora si arriva al ventiquattresimo gradino con 34.000 Bovis e a contatto con l'acqua si raggiungono 410.000 Bovis. Questi livelli energetici fanno pensare che la discesa alle acque rappresentasse un vero e proprio cammino di iniziazione o comunque un percorso di scarico e ricarico di energie per chi scendeva al pozzo e si immergeva nelle sue acque. Fonti greche e latine riportano dell'usanza dei sardi di recarsi presso i loro monumenti per i riti dell'incubazione. Si trattava di rituali di guarigione in cui, per cinque giorni e cinque notti, una persona soggiornava o addirittura dormiva in queste aree ad alta energia.
Non trovando gli studiosi un'unità di misura che mettesse tutti d'accordo, è in uso la scala di Bovis. L'energia del corpo umano, se non non affetto da malattia, corrisponde a 6.500 Bovis. Misure al di sotto di questo valore, depongono per uno stato generale di squilibrio delle energie fino ad arrivare a vere e proprie patologie. Più bassa è l'energia del corpo più significativa è la malattia. Tutti i luoghi della terra, le persone, le cose o quello che mangiamo sono classificati secondo il tasso vibrazionale. Se è al di sotto delle 6.500 unità Bovis toglie energia, se è al di sopra la porta. In natura normalmente non si trovano punti più energetici di 10.000 Bovis, ma vi sono zone universalmente conosciute che vanno ben oltre, la cattedrale di Chartres, il Tibet, l'India, l'Egitto (18.000). Valori al di sopra dei 6500 Bovis, si ritrovano in natura in luoghi particolari, riconducibili a culture e latitudini diverse. Nelle chiese cristiane all'incrocio dei transetti, nelle moschee di fronte al Minbar, nei templi tibetani nel garbhagriha, il livello di energia è stato misurato a 11.000-12.000 Bovis. La rotella tibetana di preghiera che contiene un mantra scritto su pergamena o sul tessuto, una volta girata, vibra da 12.000 a 16.000 Bovis. Per quanto concerne i luoghi, le letture inferiore a 6.500 sono l'effetto dei flussi sotterranei, difetti geologici e griglie magnetiche.
Nel corso dei millenni, in virtù delle loro caratteristiche, questi luoghi sono divenuti luoghi di culto, in onore di divinità le più disparate, o luoghi di cultura e potere. Paradossalmente questo intimo legame tra energia e fede e conoscenza, ne ha decretato l'alienazione e l'oblio.
Se le teorie del Dottor Hartmann, fossero state recepite con più attenzione, oggi forse saremo qualche passo avanti, nel difficile cammino per il recupero della conoscenza e di un sapere proprio di tutte le culture antiche, trasmesso e conservato con cura da generazioni di sciamani, sacerdoti, veggenti, sensitivi, druidi, profeti, monaci e architetti. Templi, caverne, menhir, piramidi, moschee, piccole pievi romaniche o maestose cattedrali, chi di noi in certi luoghi non si è sentito almeno una volta accolto, abbracciato, sollevato, e il suo respiro si è fatto sincrono, ritmato, con un respiro più ampio, immenso. Questi luoghi che dalla preistoria hanno richiamato a se l’uomo, sono stati frequentati, armonizzati, modificati, usurpati, ma ancora oggi il battito della terra è forte e presente.
Alcuni studiosi sostengono che la cultura megalitica permetteva all'uomo di rilevare le zone a energia negativa. Collocare a terra un menhir, equivaleva a praticare una sorta di agopuntura per trasformare le griglie vibratorie negative (una sorta di sanificazione del terreno) e gli obelischi di pietra fungevano da trasmettitori che irradiavano in nella zona circostante energia positiva, una funzione che anche oggi continuano ad avere. Gli antichi Romani, non solo orientavano tutte le costruzioni in relazione ai reticoli, come del resto i Celti prima di loro, ma il tracciato delle loro strade, seguendo le indicazioni degli Auguri, evitava quando possibile luoghi ad energia negativa. Questo per ridurre l'affaticamento dei loro soldati in marcia. Così nell'antica India, le griglie sono state usate per definire il concetto degli otto dishas, (orientamenti) e più precisamente per definire l'orientamento delle tempie (e quindi della testa), in relazione alle zone ove risiedere.

I costruttori di cattedrali nel medioevo, oltre a sfruttare luoghi già conosciuti dal punto di vista cultuale ed energetico, eressero meravigliose torri selezionando i luoghi e modificandoli al fine di potenziarne la salubrità per migliorare le condizioni della vita materiale degli uomini. Altri edifici, invece, furono selezionati e potenziati a fini terapeutici o per innalzare lo spirito verso mondi superiori.
Un altro pozzo sacro facilmente accessibile è quello di "Sa Testa" nei pressi di Olbia. A differenza del pozzo di Santa Cristina la struttura è realizzata interamente in granito e scisto, materiali lapidei di cui la zona è ricchissima. Il monumento si sviluppa sull'asse NNO-SSE con una lunghezza di 18 metri. La Tholos, la copertura del pozzo vera e propria, è andata perduta e oggi è visibile soltanto la base circolare. Nel monumento si riconoscono un cortile circolare e un atrio a forma di trapezio. Nella scalinata, il primo gradino di accesso è in realtà una canalina con funzione di valvola troppo-pieno, che consentiva la fuoriuscita dell'acqua in eccesso in periodi di abbondanza. Il cortile, infatti, è in pendenza verso l'esterno e il pavimento presenta al centro una condotta realizzata interamente in pietra, che serviva a far defluire l'acqua all'esterno, in modo da non impedire o disturbare lo svolgimento dei rituali, anche con la massima capienza idrica. 9 dei 17 scalini sono attualmente sommersi e non consentono la discesa fino alla soglia finale. E’ frequente scorgere dei serpenti sugli scalini o negli anfratti. Questi rettili trovano riparo fra le umide pietre del pozzo e da alcuni sono da considerarsi i veri guardiani del luogo. Verosimilmente il pozzo di Sa Testa è più antico di quello di Santa Cristina, lo si fa risalire infatti al XIV a.C. Pozzi analoghi sono numerosi in Sardegna, alcuni come il pozzo Milis a Golfo Aranci in pessime condizioni. Esistono pozzi e sorgenti eneolitici anche nel resto d'Italia e d'Europa, ma sono stati inglobati e snaturati da costruzioni posteriori. Cito solo per cronaca il pozzo druidico di Chartres posto 37 metri sotto la superficie del pavimento e ormai sacrificato alla splendida cattedrale gotica. Sarebbe interessante riuscire a scorgerne altri.

Fonte: http://www.sergiocostanzo.it

Nelle immagini: Il Pozzo di Santa Cristina e il Pozzo Sa Testa di Olbia.

martedì 29 aprile 2014

Bandiera della Sardegna. I 4 mori tra storia e leggenda.

La bandiera sarda. I 4 mori tra storia e leggenda.
di Alberto Massazza



L’emblema dei 4 mori è uno dei simboli identitari, non riconducibili a un’entità statuale effettiva, universalmente più conosciuto. La tradizione sarda lo vuole strettamente legato alla vittoriosa resistenza dei 4 Giudicati sardi, coadiuvati dalle Repubbliche Marinare di Pisa e Genova, ai tentativi di conquista degli arabi, particolarmente alla spedizione di Mujahid, governatore di Denia e delle Baleari, nel 1016. Secondo la leggenda, il Papa Benedetto VIII consegnò ai pisani un gonfalone recante una croce bianca su campo rosso, al quale i sardi, dopo la definitiva cacciata degli Arabi, aggiunsero le quattro teste di moro. Nessuna documentazione storica ha mai avvalorato questa tradizione, a parte la citazione nella Cronaca del pisano Ranieri, risalente al 1450, successivamente ripresa da altri studiosi sardi.
Accanto alla tradizione sarda, se ne creò una spagnola che vedeva nei 4 mori lo stemma celebrativo della vittoria riportata da Pietro I d’Aragona nella battaglia di Alcoraz contro 4 principi arabi, nel 1096; la croce rossa, a sua volta, sarebbe stata dovuta all’intervento prodigioso e determinante, per le sorti della battaglia, di San Giorgio. Una variante di questa leggenda vedrebbe l’origine del simbolo nella vittoria ottenuta da Raimondo Berengario IV, primo re della corona unificata catalano-aragonese, contro i mori di 4 province catalane, intorno alla metà del XII secolo.
Sta di fatto che il primo documento storico in cui compaiono i 4 mori è il sigillo di Pietro II d’Aragona, detto il grande, del 1281, 16 anni prima del 1297, anno in cui Papa Bonifacio VIII infeudò il Regno di Sardegna e Corsica alla corona aragonese, per dirimere la controversia tra questa casata e gli Angiò, a seguito dei Vespri Siciliani. Anche i successivi sovrani aragonesi utilizzarono lo stesso soggetto, ancora privo di bende, per i loro sigilli.
Evidentemente, quando i catalano-aragonesi iniziarono a prendere possesso dell’isola, combattendo dapprima a fianco degli Arborea contro i pisani e in seguito contro gli stessi Arborea, si portarono appresso, oltre agli stemmi di Aragona (la croce appuntita) e di Catalogna (i 4 pali rossi su sfondo giallo), anche i 4 mori, considerati ormai simbolo identitario della corona aragonese. A testimonianza di ciò, lo Stemmario di Gerle, catalogo manoscritto illustrante tutti gli stemmi delle case reali dell’Europa del tempo, conservato alla Biblioteca Reale di Bruxelles e risalente al 1370-1386, al foglio 62 reca i tre stemmi in primo piano, con i 4 mori in posizione centrale e definiti come stemma del Regno di Sardegna.
Così iniziò il rapporto di identificazione dei sardi con l’emblema tetramorato che subì numerose variazioni sul tema, nel corso dei secoli: i mori rivolti a sinistra, a destra, frontali, opposti; coronati, a capo nudo, senza bende, bendati sulla fronte, bendati sugli occhi. Sotto quell’emblema, Carlo V istituì i Terçios di Sardegna, corpi militari speciali composti interamente da sardi, che si distinsero nelle battaglie di Tunisi (1535) e Lepanto (1571) contro i turchi.
Col passaggio ai Savoia nel 1720, ai 4 mori, bendati negli occhi e rivolti a sinistra, venne sovrapposto lo stemma sabaudo: un’aquila con scudo rosso con croce bianca sul petto. L’emblema ereditato dagli aragonesi venne utilizzato per la monetazione del Cagliarese, coniato a Cagliari. Con l’Unità d’Italia, il simbolo divenne espressione della sola Sardegna, utilizzato dalla Brigata Sassari nella Grande Guerra, nelle epiche battaglie sul Carso. Emilio Lussu, che di quelle battaglie fu il più nobile testimone letterario, finita la guerra, lo scelse come simbolo del nascente Partito Sardo d’Azione. Dal 1952, è divenuto l’emblema ufficiale della Regione Autonoma della Sardegna. L’ultima revisione, datata 2005, ha fissato le bende calanti sulle fronti e le teste rivolte a destra.
Quali motivi abbiano portato i sardi a identificarsi così visceralmente con un simbolo portato dagli invasori è difficile dirlo. A mio modesto parere, credo che, in primo luogo, lo abbiano trovato perfettamente calzante, in riferimento al racconto ormai mitico che si tramandava delle vittoriose battaglie dei 4 Giudicati contro Mujahid; in secondo luogo, l’aver combattuto sotto quell’emblema, in particolare nei Terçios di Carlo V contro i turchi e nel Carso contro gli austriaci, ha sicuramente rafforzato il legame identitario, fino a rendere i 4 mori una delle bandiere non nazionali (quantomeno in senso istituzionale) più riconoscibili al mondo.

Bibliografia: Barbara Fois, Lo stemma dei Quattro Mori, Carlo Delfino editore, 1990.

Fonte: http://albertomassazza.wordpress.com

lunedì 28 aprile 2014

Età del Bronzo. Scoperta nella Valle del Tirso una città del vino di epoca nuragica.


Età del Bronzo. Scoperta nella Valle del Tirso una città del vino di epoca nuragica.
di Valeria Pinna


Conoscevano i segreti del vino fin dall'età nuragica. E nella terra, culla storica della vernaccia, forse era scritto nel Dna. Già 3200 anni fa, gli antenati degli oristanesi erano veri maestri con uva e fermentazioni. Ma erano anche abili nella pesca, nella lavorazione dei metalli e del legno. Tante conoscenze e abilità manuali venute fuori inaspettatamente dal cuore della valle del Tirso.
Da quei cumuli di terra, spostati dalle ruspe che hanno realizzato il ponte di Brabau, aperto al traffico recentemente (dopo 30 anni di lavori) per collegare Oristano a Torregrande e alla costa di Cabras. E che hanno avuto la grande fortuna di portare alla luce un prezioso insediamento del Bronzo. Scoperta da capogiro per gli archeologi che, fino a oggi, sugli usi e sulle abitudini quotidiane dei nuragici avevano viaggiato «un po' con la fantasia, ma adesso abbiamo finalmente testimonianze certe: dai pezzi di legno intagliati ai semi di uva e di fico, fino ai pezzi d'osso», ha commentato il soprintendente Alessandro Usai, mentre illustrava il tesoro scoperto casualmente due anni fa.

Reperti che potrebbero realmente riscrivere la storia del vino e della civiltà alimentare nell'Oristanese. In località “Sa Osa”, a due passi dal fiume Tirso, è stato ritrovato un insediamento risalente all'età nuragica: «Un sito atipico - dice il soprintendente illustrando il valore del ritrovamento - perché non c'è nulla di monumentale in superficie che lo richiama. Non ci sono resti di nuraghi, perciò non saremmo mai andati a scavare là».
Poi, un pizzico di fortuna ha fatto sì che la storia travagliata del ponte di Brabau si intrecciasse con quella degli antichi popoli. «Ci siamo trovati davanti a una scoperta unica - ha aggiunto lo studioso - che troverà spazio nella letteratura internazionale: le pubblicazioni su questo materiale faranno il giro del mondo nei prossimi decenni». Il sito risale alla piena età nuragica, è contemporaneo del nuraghe che si trova nei pressi del Rimedio vicino al ponte Tirso, ritrovato anch'esso durante lavori di costruzione di una strada. «Evidentemente in quell'epoca c'erano diverse comunità nuragiche insediate nelle campagne della zona - ha spiegato Usai -, popoli che vivevano di caccia, pesca, raccolta di frutti e agricoltura». Si tratta di un insediamento interessante sotto il profilo geografico per la vicinanza al fiume e al mare ed è costituito da fosse scavate nel terreno. I cosiddetti «fondi di capanna» sopra i quali si edificava con materiali deteriorabili che, infatti, non sono arrivati fino ai giorni nostri. Sono rimaste, però, le fosse e i pozzi con le tracce dei gesti e delle attività compiute tanti secoli fa. Alcuni, lontani parenti delle discariche, erano utilizzati per depositare rifiuti come cocci, conchiglie e ossa di animali. Altri per contenere scorte di acqua e vari materiali. Erano scavati in profondità, anche sotto il livello del mare.


Uno di questi si è rivelato una sorta di pozzo delle meraviglie per gli studiosi del passato. Una fossa di un metro di diametro e quattro metri di profondità (ma gli studiosi intendono provare a scendere ancora). Ed è stata l'umidità del sottosuolo il vero segreto per conservare i materiali in condizioni uniche e farli arrivare pressoché intatti nelle mani della squadra di archeologi. «Abbiamo trovato molti vasi interi e frammenti grandi che sarà facile rimettere insieme» ha spiegato Usai. All'interno un terriccio fangoso liquido che passato al setaccio ha consentito di ritrovare «frammenti di lische di pesce e anche i pesi delle reti - va avanti - a dimostrazione che la pesca avveniva già allora secondo tecniche precise». Sono stati trovati pezzi di legno grezzo e lavorato, «legni intagliati, fatti su misura per comporre qualche altro oggetto». Ancora, lucerne e piccoli vasi dal carattere votivo e simbolico, quelli che gli studiosi definiscono «manufatti miniaturistici». Conservati nel fango si sono mantenuti benissimo centinaia di semi legumi, di cereali, di olive «che danno lumi sulle abitudini alimentari» e semi di uva e fichi «che documentano l'uso del vino in Sardegna già in quell'epoca antichissima».
Finora si era pensato che il vino fosse stato portato nell'Isola dai fenici o dai micenei, adesso la scoperta sotto il ponte di Brabau cambia radicalmente lo scenario. La Sardegna può essere considerata terra madre del vino e addirittura, anche in età nuragica, c'era una notevole ricchezza e varietà di uve. Ma soprattutto c'era una diffusa conoscenza dei segreti del vino. «La concomitanza della presenza di semi di uva e di fico fa supporre che già allora fosse seguito un sistema in uso fino a pochi decenni fa in Sardegna per rendere più alcolico il vino - ha precisato l'archeologo Raimondo Zucca - Al mosto venivano aggiunti i fichi secchi in modo da conservare meglio il vino e aumentarne il tasso zuccherino e alcolico». Gli archeologi hanno in programma altre analisi anche per conoscere meglio l'origine dei vitigni, ma sono bastati i semi nascosti nel fango per accendere l'interesse sull'argomento anche all'estero. Si sta sviluppando sempre più, infatti, quella particolare branca dell'archeologia che studia proprio i vini e l'alimentazione antica. Ma, le scoperte di Sa Osa potrebbero suscitare interesse anche nel circuito dell'enoturismo, attirando gli appassionati di vino di tutto il mondo, come testimoniato dall'imprenditore vinicolo di Cabras Paolo Contini.
Alla luce di questo immenso valore storico, i lavori degli studiosi capitanati dal soprintendente Alessandro Usai devono andare avanti. Il ponte di Brabau potrebbe aspettare ancora prima di spogliarsi della fascia di incompiuta, ma «una scoperta di tale portata merita l'attenzione di tutti noi. Sarebbe un reato fare finta di nulla», hanno ribadito il presidente della Provincia Pasquale Onida e l'assessore ai Lavori pubblici Franco Serra. Da qui l'impegno delle istituzioni a reperire altre risorse per completare la squadra di archeologi (magari coinvolgendo anche gli operatori delle cooperative dei beni culturali), e consentire alla ricerca scientifica di aggiungere qualche altro prezioso tassello alla misteriosa e sorprendente storia dei nuragici nella valle del Tirso.

Immagini dal web.

domenica 27 aprile 2014

Atlantide. L’esplosione del vulcano Santorini nel Mar Egeo provocò uno tsunami che giunse nel Mediterraneo Occidentale?

Atlantide. L’esplosione del vulcano Santorini nel Mar Egeo provocò uno tsunami che giunse nel Mediterraneo Occidentale?
di Pierluigi Montalbano



Thera-Santorini è un’isoletta del Mar Egeo, a sud delle isole Cicladi, circa 120 km a nord di Creta. Oggi è meta turistica apprezzata, ma deve gran parte della sua fama a una devastante eruzione verificatasi intorno al 1600 a.C. alla fine dell’Età del Bronzo. L’attività eruttiva di Santorini iniziò almeno un milione di anni prima, e forse più. Il vulcano attuale è compreso in un sistema più ampio cui appartiene anche il vulcano subacqueo denominato Monte Columbo. Le varie fasi di eruzione e quiescenza hanno formato depositi piroclastici notevoli causando l’espansione dell’isola. Santorini si trova lungo la faglia che separa l’Africa dall’Europa, dallo Ionio alla Turchia, ancora oggi sede di terrificanti terremoti.
Nel 1600 a.C. Thera aveva una forma quasi circolare, con un diametro di circa 16 km ed era una delle sedi amministrative più importanti della civiltà minoica. Verosimilmente l’eruzione esplosiva che distrusse l’isola fu preceduta da una serie di terremoti, dando modo alla popolazione di mettersi al riparo fuggendo verso Creta o in altre isole vicine, infatti a oggi non sono stati trovati i corpi delle vittime. L’eruzione fu simile a quella avvenuta a Pompei nel 79 dopo Cristo. Il vento spinse i lapilli e le ceneri verso sud-est, sono stati infatti rinvenuti depositi di ceneri nelle coste settentrionali di Creta e fino nell’interno della Turchia. Dalle fratture createsi nel vulcano, l’acqua marina entrò in contatto col magma e l’attività divenne esplosiva. Si svilupparono nubi nere infuocate, composte di gas e pomice che viaggiarono nel mare a oltre 200 km/h con una temperatura di 600 °C alte centinaia di metri. I flussi diventarono sempre più potenti entrando in mare e generando depositi spessi fino a 50 metri, caratterizzati dalla presenza di pietre di notevole dimensione, considerate bombe vulcaniche. Al termine dell’eruzione più violenta, la parte sommitale del vulcano collassò crollando su sé stessa e creando una caldera. L’eruzione durò quattro giorni, lasciando un paesaggio devastato, con il mare al posto della precedente isola vulcanica.

Platone, nel Timeo e nel Crizia, parlava di una favolosa isola, sede di una civiltà eletta, spazzata via da un’immane cataclisma del tutto simile a un maremoto, e vari autori hanno identificato la sua Atlantide proprio con Santorini. Gli scienziati cercano ancora oggi prove concrete di quella favolosa Atlantide anche sul fondo del Mediterraneo. Non ci sono sullo sviluppo di qualche tsunami a seguito dell’eruzione. Nel 2012, alla conferenza di Rodi, un team internazionale di oceanografi e vulcanologi discusse una teoria riguardo lo tsunami. Il primo potente flusso piroclastico scivolò sui fianchi del vulcano raggiungendo con violenza il mare e generando un’onda alta almeno 25-30 metri. La seconda sorgente è identificata con il collasso della cima vulcanica e la formazione della caldera. L’onda generata iniziò a muoversi verso Creta e altre zone del Mediterraneo.
Sull’isola di Anaphi,20 km a est di Santorini, sono stati ritrovati livelli di pomice coperti da sedimenti alluvionali recenti a circa 350 metri dalla costa, ad un’altitudine di circa 50 metri sul livello del mare, forse trascinati lì dall’onda di tsunami che raggiunse quelle coste nel giro di dieci minuti. Altre evidenze simili sono state individuate a nord fino all’isola di Samotracia, a est a Lesbo e Rodi, e a est sulle coste della Turchia, di Cipro e perfino di Israele, dalle parti di Jaffa, dove l’onda avrebbe avuto un’altezza di circa sette metri e sarebbe arrivata un’ora e mezzo dopo l’inizio dello tsunami. L’aspetto più interessante è a sud, nell’isola di Creta, distante circa 120 km da Santorini, dove un onda alta una decina di metri giunse in mezz’ora. L’economia della civiltà minoica, fiorente nell’intero Mediterraneo orientale, e probabilmente estesa in buona parte del Mediterraneo Occidentale, subì un colpo mortale, con la distruzione della flotta navale e danni irreversibili al settore agricolo a causa dell’avvelenamento dei terreni.
Anche verso occidente i danni furono notevoli. Sul fondo del mare, tramite carotaggi e prospezioni sismiche, è stata individuata un’unità sedimentaria dovuta a una frana sottomarina che scivolò sulla scarpata continentale. Stratigraficamente questi livelli occupano la stessa posizione dei depositi piroclastici di Santorini, e la datazione col radiocarbonio porta all’ipotesi che provengano da un’origine ben precisa, comune.
Lo studio è in pieno sviluppo e ha portato alla scoperta di depositi costituiti da sabbie, con presenza di bioclasti, microfauna e frammenti di conchiglie marine nell’interno della costa ad alcune centinaia di metri dall’attuale linea di riva. E’ rilevante la presenza di microorganismi che vivono sulle alghe flottanti, dunque facilmente trasportabili da un’onda. Trovare questi depositi è indice di uno spostamento provocato da un evento di grande energia, e la datazione col radiocarbonio dei reperti nella baia di Augusta corrisponde all’eruzione di Santorini.
Oggi Santorini è un’attrazione turistica unica ma non si deve dimenticare che il vulcano è attivo, infatti i numerosi crateri idrotermali, presenti soprattutto nella zona del Monte Columbo, testimoniano un magma non lontano dalla superficie. Negli ultimi anni c’è un monitoraggio tramite misurazioni GPS della superficie della caldera, e si rileva la crescita continua della porzione settentrionale della caldera. L’ultima eruzione (nel 1950) fu di dimensioni limitate e da oltre 60 anni tutto è tranquillo, ma il vulcano è potenzialmente molto pericoloso, come sanno bene gli scienziati.

Immagini di: wikipedia.org e http://akrokorinthos.blogspot.it/

sabato 26 aprile 2014

L'antica navigazione commerciale nel Mare Mediterraneo

La navigazione commerciale nella preistoria
di Pierluigi Montalbano


Le più antiche notizie riguardanti la navigazione commerciale risalgono al 2650 a.C. e appaiono in testi egiziani della IV dinastia. Si parla di 40 navi inviate in Libano per approvvigionarsi del legno di cedro, ricercato per la costruzione di tetti e per la realizzazione delle parti nobili degli scafi. Ovviamente, più di quanto accade oggi, la navigazione antica dipendeva dall’andamento delle stagioni e dal regime dei venti e delle correnti. Inoltre, la durata del viaggio non era prevedibile, poiché le antiche navi, capaci di risalire il vento solo con difficili manovre e un’andatura a zig-zag, navigavano preferibilmente con il vento in poppa ed erano spesso costrette a cambiamenti di direzione o a lunghe soste. A complicare la situazione si aggiungevano i problemi di orientamento, basati sui movimenti del sole e sulle costellazioni.
Le nostre principali fonti di documentazione sulle antiche imbarcazioni sono i monumenti figurati, le notizie degli storici e degli scrittori antichi, quelle dei documenti epigrafici e, negli anni più recenti, i ritrovamenti archeologici subacquei.
Erano diffuse piroghe ricavate dallo svuotamento di grossi tronchi d’albero, barche formate da un’armatura di legno sulla quale erano tese delle pelli cucite tra loro, zattere costituite da due piroghe unite da tronchi o formate da una piattaforma di legno tenuta a galla da otri di pelle animale gonfi d’aria (antenate dei nostri gommoni), barche di canne o di papiro, come è attestato in Egitto dove, a partire dal Regno Antico (I-VIII Dinastia 2920-2150 a.C.), si iniziarono a costruire anche navi di legno, delle quali è giunto a noi un noto esemplare integro, la nave del faraone Cheope o Khufu (2551-2528 a.C.).

Ecco una breve nota sul suo ritrovamento:
Nel 1952, ai piedi della piramide del faraone Cheope, durante un lavoro di asportazione di un cumulo di sabbia gli archeologi portavano alla luce una pavimentazione di grandi lastre di pietra squadrate. Si trattava in realtà della copertura di una fossa sigillata. L’esplorazione effettuata con una macchina fotografica introdotta attraverso un foro rivelava il contenuto: una grande imbarcazione smontata in numerose parti, remi, grandi tavole, porte, colonne, elementi diversi, il tutto ricoperto da stoffe ormai degradate e resti di tappeti. Il legno però si presentava conservato bene grazie al fatto che l’ambiente era rimasto isolato perfettamente per 4600 anni. Il lavoro di recupero del reperto era affidato al capo conservatore delle antichità Ahmad Moustafa. La fossa era lunga 31,2 m, larga 2,6 m e profonda 3,5 m, e conteneva l’imbarcazione che giaceva smontata in 407 elementi disposti su 30 strati. Rimessi insieme, si poté constatare che gli elementi componenti tutta la struttura erano 1224, i più grandi dei quali in cedro del Libano, mentre i più piccoli, quali cavicchi e perni, erano di gelso. L’imbarcazione, oggi musealizzata, è lunga 43,4 m, larga 5,9 m e ha un dislocamento di circa 40 tonnellate. Il tavolame dello scafo, spesso 13-14 cm, è assemblato parzialmente con legamenti passanti attraverso lo spessore dalla parte interna e in parte con elementi che, perfezionati, troveremo nella tecnica del tenone e della mortasa delle navi greche e romane. La carena è piatta, senza chiglia, fatto, questo, comune anche nelle costruzioni più antiche non solo egiziane, con 12 elementi interni classificabili come corbe ma non portanti. Una batteria di 6 coppie di rematori vogava con remi di lunghezza variabile da 6,8 m a 7,8 m, utilizzati sia come derive sia come timoni.

venerdì 25 aprile 2014

Le navi di bronzo: dai Santuari nuragici ai tumuli etruschi.


Navi di bronzo
di Valerio Giovannini

In Toscana, nell'ambito dell'XI edizione de "Le Notti dell’Archeologia”, che quest'anno ha come tema "Le acque degli Antichi", il museo civico archeologico "Isidoro Falchi" di Vetulonia ha presentato la mostra “Navi di bronzo. Dai Santuari nuragici ai Tumuli etruschi di Vetulonia".
Il tema delle acque (risorsa idrica, spazio e strumento di dialogo commerciale e culturale) è lo sfondo ideale per un'esposizione che si incentra sui contatti fra civiltà ed etnie differenti e sugli scambi intrapresi fra l’etrusca Vetulonia e la Sardegna sin dall’Età del Bronzo.
La mostra indaga in particolare la complessa trama di rapporti fra la fascia costiera peninsulare toscana e la terra dei Sardi per evidenziare e chiarire il ruolo della componente nuragica e il peso della marineria vetuloniese nella distribuzione di oggetti importati e prodotti nei primi secoli dell’Età del Ferro.
Fulcro tematico e perno scenografico dell’esposizione sono le barchette bronzee. "Reperti che - spiega la direttrice del Museo di Vetulonia, Simona Rafanelli - possono a tutti gli effetti essere considerate la prima evidenza che collega la Sardegna nuragica al mare e Vetulonia alla Sardegna e al mare e che rappresentando idealmente una serie di ideogrammi che raccontano la storia incrociata dei due popoli del Mediterraneo”.
Chiave di lettura dell'esposizione sono le categorie ideali del mare, dell’acqua e del vino. A questo alludono infatti le navicelle (tradizionalmente interpretate quali lucerne o brucia profumi, che riproducono imbarcazioni ornate da protomi zoomorfe) e le fiaschette di tipo cipriota (riprodotte in miniatura negli omonimi pendagli bronzei) e le brocchette a collo obliquo e ventre arrotondato (che contenevano la preziosa bevanda, vero e proprio status symbol delle aristocrazie etrusche). C'è poi la classe delle armi e oggetti dell'ornamento personale rappresentati, nella forma simbolica di amuleto, da “faretrine” e bottoni nuragici. Reperti che si intrecciano e convivono all’interno di un itinerario che, per quanto riguarda la distribuzione dei materiali, esula volontariamente da una netta distinzione fra isola e continente.
Il percorso espositivo si ispira al tema più generale dell’eterno flusso e riflusso delle onde del mare, snodandosi attraverso un intricato sistema di realtà e simbolo, di allusioni e rimandi, di importazioni e riproduzioni e guidando il visitatore alla conoscenza di quegli oggetti che rappresentano il lascito materiale di una stretta relazione fra comunità etrusche ed isolane che risale a un’epoca remota e che coniuga gli estremi di un rapporto capace di promuovere dinamiche di sviluppo, crescita e integrazione culturale.
Per sottolineare la particolare dialettica instauratasi fra le città dell’Etruria settentrionale costiera e le principali isole del Tirreno. Al termine del circuito di visita, una sezione specifica è riservata all'unica città etrusca sorta sul mare: Populonia. Su questo tema, in ottobre, è previsto il Convegno di Studi Etruschi e Italici incentrato sui rapporti fra la città sul Golfo di Baratti e la Corsica.
Chiude la mostra il forte segno iconico del Tridente della tomba a Circolo di Vetulonia, per rappresentare una sorta di “passaggio di testimone” del dominio sul mare dalla Sardegna nuragica dell’Età del Bronzo alle città etrusche della costa tirrenica, prima fra tutte Vetulonia.

Le navicelle nuragiche

Le ‘barchette’ o ‘navicelle’ sono un prodotto caratteristico della civiltà nuragica e costituiscono un eccezionale documento che ci parla di un vasto mondo di conoscenze: carpenteria navale, rotte, commerci, organizzazione sociale ed economica senza dimenticare la loro valenza quale segno di prestigio e potere che solo può spiegare la conservazione in luoghi ed epoche anche molto lontane, rispetto a quella della fabbricazione.
Questi reperti si ritrovano frequentemente nella penisola in corredi funebri (soprattutto a Vetulonia) e in ripostigli dell’Etruria tirrenica ma anche oltre, nella Campania villanoviana ed in Calabria.
Ognuna di queste navicelle non solo è un’opera di raffinato artigianato artistico e un oggetto prezioso e sacro, ma è anche un racconto e un messaggio che segue schemi e stilemi ricorrenti e dunque perfettamente comprensibili ai contemporanei quanto lo sono per noi sigle e stemmi.
Oggetto di dono tra capi o tra individui eminenti, le navicelle sono simbolo degli scambi commerciali e dei rapporti personali. Ma c’è di più. Esse potrebbero essere il segno dell’acquisizione di costumi esotici, di rituali stranieri da parte delle elites villanoviane per via del prestigio che esse dovevano presentare ai loro occhi. E' questo il caso delle fiaschette, ove testimoniano il costume di assumere bevande di tipo alcolico.
Oggetti caricati di valore simbolico e sacrale che in Sardegna sono presenti esclusivamente in contesti santuariali (pozzi sacri e templi), le navicelle bronzee, in Etruria, provengono da corredi tombali. A testimoniare ancora una volta come le forme di tesaurizzazione fino alla piena età Orientalizzante (VII a.C.) fossero esclusivamente di tipo privatistico.
Sulla base dei dati archeologici e metallurgici e dello studio delle costruzioni navali antiche, la produzione delle barchette nuragiche si colloca all’apogeo della Civiltà Nuragica, nella piena padronanza delle risorse interne ed esterne che hanno determinato la presenza riconosciuta e ‘qualificata’ della Sardegna sulle rotte commerciali del Mediterraneo.
Così come i modellini di nuraghe (frequentissimi in pietra e in bronzo ed in dimensioni da scultoree a miniaturistiche) rappresentano sia il monumento che la comunità che lo aveva prodotto, anche i modellini di nave simboleggiano sia la nave che il gruppo sociale che nei commerci, nella marineria e molto probabilmente anche nella pirateria, traeva il sostentamento per sé e per coloro che restavano a terra.
Il richiamo a terra, costante in Ulisse e nei suoi compagni, che in tutte le traversìe mantenevano il senso della loro identità e la tensione continua al “ritorno”, appare raffigurato, nelle navicelle, dal giogo di buoi, volto sempre verso la poppa come nelle barchette da Meana e dalla Tomba del Duce di Vetulonia, dalla protome bovina a prua, spesso riconoscibile dalle sferette sulla punta delle corna, come in una delle barchette dalla Tomba delle Tre Navicelle, dalle colonnine che rappresentano modellini di nuraghe come nell’‘albero’ di navicella da Furtei, dagli animali terrestri, come le volpi o i cani sulla barchetta da Meana, talvolta composti in scenette di caccia, come i due cani con il cinghiale sulla navicella dalla Tomba del Duce di Vetulonia.
Prezioso documento della signoria nuragica dell’età del bronzo finale (al tempo stesso metallurgica, navale e commerciale) non stupisce infine che in questi oggetti permanesse una forte valenza simbolica anche in epoca avanzata ed in ambito tirrenico, cosa che spiega la lunga tesaurizzazione di questi manufatti anche presso i discendenti (a Vetulonia, che del mondo nuragico ha raccolto le più vive ed importanti tradizioni, finivano come arredo di tombe principesce oppure divenivano offerta sacra in santuari portuali come Gravisca, Capo Colonna, Porto di Ostia).
“D’altra parte – conclude Simona Rafanelli – come si è già osservato, se i primi imperatori romani hanno voluto far risalire ad Enea e a Venere la propria stirpe, perché mai i principi vetuloniesi potevano esitare a richiamare fra i propri avi i mitici guerrieri, navigatori e pirati del Popolo delle Torri?”.

giovedì 24 aprile 2014

Il Diluvio Universale

Il Diluvio Universale
di Pierluigi Montalbano


E’ un leggendario cataclisma in seguito al quale il mondo viene sommerso dalle acque. Troviamo riferimenti a questo evento in molte tradizioni mitiche nell’Oriente antico, nel mondo classico (mito di Deucalione e Pirra) e in altre civiltà. I due racconti più significativi sono: il mito di Utnapishtim, contenuto nel poema babilonese di Gilgamesh, e il racconto biblico di Noè.
Gilgamesh è un eroe dell’epica mesopotamica, quinto re della 1ª dinastia di Uruk, secondo la Lista reale sumerica. Figlio della dea Ninsun e del re di Uruk Lugalbanda, è descritto nella letteratura sumerica del periodo di Ur III (fine del III millennio), ma è già ricordato come dio nell’onomastica di Fara (metà del III millennio). È il protagonista di cinque composizioni epiche e di un poema in accadico, di cui sono conservati anche scritti in lingua ittita e urrita.
Il testo narra la profonda amicizia tra Gilgamesh e Enkidu, eroe suo pari. Questi era stato creato da Anu per punire Gilgamesh della tirannide esercitata in Uruk. I due eroi lottano ed Enkidu riesce a vincere. Poi diventano grandi amici e compiono una serie di gesta eroiche, tra le quali l’uccisione di Khumbaba. Ma ciò provoca la punizione di Enkidu, che muore per volontà degli dei. Gilgamesh è disperato e cerca un mezzo per riportarlo in vita. Utnapishtim, l’immortale eroe del diluvio universale, non può aiutarlo perché gli dei hanno riservato per sé stessi la vita eterna, Gilgamesh allora richiama in vita la figura del suo amico dagli inferi e il poema si chiude con la descrizione dell’oltretomba.
Utnapishtim (Ziusuddu per i sumeri), su suggerimento del dio Ea, costruisce l’arca che lo salverà, con la famiglia e vari animali, dal diluvio deciso dagli dei per punire il genere umano. Dopo 6 giorni e 6 notti di navigazione, l’arca si ferma sul monte Nisir dove dopo aver fatto uscire una colomba, una rondine e un corvo, Utnapishtim scende dalla barca e offre sul monte un sacrificio agli dei, che mostrano di gradirlo. Andò poi ad abitare in un’isola alla foce del Tigri e dell’Eufrate, e qui venne a visitarlo Gilgamesh, per chiedergli come gli era stata concessa l’immortalità.
Nella Bibbia Noè, decimo patriarca, figlio di Lamech, accoglie nell’arca sua moglie, i tre figli e due coppie di ogni specie animale e naviga per più di 10 mesi. Invia una prima colomba che rientra, poi una seconda che non torna e, subito dopo, l’arca si arena sul monte Ararat. Tutti scendono e Noè dedica un sacrificio a Dio.
Dopo il diluvio, Noè visse per altri 350 anni fino all’età di 950, con i figli, Sem, Cam e Iafet, da cui la tavola genealogica fa discendere tutti i popoli della terra. Si dedica all’agricoltura piantando la vite. Con il vino si ubriacò e fu trovato disteso nudo dal figlio Cam che lo derise e chiamò i fratelli. Questi, coprirono pietosamente il padre con un mantello e per questo il primogenito Sem e Iafet furono benedetti, mentre Canaan, discendente di Cam, fu condannato a essere schiavo.
L'opinione che dalla Bibbia si possa risalire al tempo del Diluvio è dei Creazionisti, che, leggendo la Bibbia letteralmente, pongono la data nel 2348 a.C. poichè Abramo, vissuto nel 2000 a.C., secondo la Bibbia sarebbe nato 292 anni dopo il diluvio. A partire dall’Ottocento la scienza si distacca dalle credenze della Bibbia e i fautori dell'ortodossia religiosa cercano, senza riuscirci, prove che possano confermare quanto decritto dalla tradizione. Il metodo scientifico richiede prove ed esperimenti, così la tesi che il Diluvio fosse solo un mito prese sempre più piede negli ambienti scientifici, mentre la cultura popolare rimase fedele alle narrazioni legate alla propria fede religiosa. L'ipotesi che ha avuto maggiori sostenitori nel XX secolo è quella secondo cui il mito del Diluvio si riferisce a un'alluvione preistorica nell'area mesopotamica, quando il clima di quella zona era molto più umido e con maggiori flussi fluviali. Si ipotizza che l'area dove fiorirono le prime culture neolitiche fu interessata da un'imponente alluvione con un effetto devastante sulla popolazione che viveva in prossimità dei fiumi. Solo chi già disponeva di imbarcazioni in grado di trasportare provviste ebbe la possibilità di salvarsi.
L'evento eccezionale, tramandato dai sopravvissuti, è stato poi ingigantito e mitizzato nella struttura di credenze delle culture successive.
Un’indagine svolta da americani e russi nel Mar Nero dal 1993, ha rilevato un’antica linea di costa seppellita dal fango, con scambio di acqua dolce e salata (intorno al 5600 a.C.) che prova la connessione del Mar di Marmara con il Mar Nero attraverso il Bosforo. La loro teoria si basa su una serie di viaggi andata e ritorno di acqua e sul modificarsi del livello del mare, alla fine delle ere glaciali:
Precedentemente il Mar Nero era un grande lago d'acqua dolce 200 m sotto il livello del mare, isolato dal Mediterraneo attraverso la soglia del Bosforo. I popoli primitivi s’insediano sulle sue rive dando vita alle prime civiltà agricole. Poi il Mediterraneo aumenta progressivamente il livello e, quando supera la soglia del Bosforo, provoca una catastrofe riversando nel Mar Nero l'acqua in una grande cascata. Il livello del Mar Nero nel giro di pochi anni si sollevò di 150 metri inondando più di 100 000 km² di terreno e causando una diminuzione della popolazione. Questa ipotesi è ora supportata da una serie di altri dati come tracce del livello del mare in un canyon alla destra del Bosforo, sensibili anomalie nella distribuzione di strati di acqua, tracce di sedimenti fossili al di sotto del livello attuale del mare…
Si può anche pensare a un evento sismico che causò una falla nel Nord dell'Anatolia nella zona della Marmara e Dardanelli, una regione da sempre colpita da fortissimi terremoti.

Immagine http://images.movieplayer.it/2008/09/15/wallpaper-del-film-d-animazione-l-arca-di-noe-88378.jpg

mercoledì 23 aprile 2014

Ercole, Eracle, Melkart, l'eroe delle dodici fatiche

Ercole, l'eroe delle dodici fatiche
di Pierluigi Montalbano


I fenici lo conoscono come Melkart, i greci lo chiamano Eracle, per i romani era Ercole, il fortissimo eroe-semidio che affronta vittoriosamente fatiche sovrumane. È un eroe possente ma benefico: che compie imprese per liberare il mondo da pericolosi mostri. Alla sua morte viene accolto tra gli dei e le sue fatiche diventano il simbolo dei sacrifici che ogni eroe virtuoso è tenuto a esercitare. La sua apoteosi è l’assunzione nell'Olimpo, tra gli dei, simbolo della virtù premiata.
Eracle è figlio di Zeus (Giove per i Romani) e della mortale Alcmena, a cui il dio si unì assumendo le sembianze del marito di lei, Anfitrione. Sin dalla nascita è odiato da Era (Giunone), adirata per il tradimento di Zeus. Ha ancora pochi mesi quando la dea invia contro la sua culla due enormi serpenti ma Eracle, già in possesso di una forza straordinaria, li strangola con le mani. Era fa sì che l'eroe da adulto sia colto da follia e uccida i figli e la moglie Megara. Per espiare questo orrendo delitto deve compiere le dodici fatiche, imposte da suo cugino Euristeo.


Per compiere le sue imprese Eracle dovrà affrontare:
1) il leone di Nemea, una belva invulnerabile che divorava gli abitanti e il bestiame: Eracle lo uccide soffocandolo con la morsa delle sue braccia, poi ne indossa la pelle dopo averla scorticata con gli stessi artigli dell'animale;
2) l'idra di Lerna, un serpente a più teste, ciascuna delle quali, una volta tagliata, ricresceva. Ercole riesce a sconfiggerla bruciando le ferite con tizzoni ardenti e impedendo così alle teste di ricrescere;
3) il cinghiale di Erimanto: Eracle riesce a catturarlo vivo dopo averlo immobilizzato in mezzo alla neve. Quando lo porta a Euristeo, questi per il terrore si nasconde in una grande giara;
4) la cerva dalle corna d’oro, Cerinea, sacra a Artemide. Eracle la cattura dopo un anno d'inseguimento, ferendola mentre guada un fiume;
5) gli uccelli del lago Stinfalo, predatori dei raccolti. Eracle li fa uscire dalla foresta in cui si annidavano facendo risuonare nacchere di bronzo e li stermina con le frecce;
6) la pulizia delle stalle del re Augia, in cui si era accumulata una quantità immensa di letame: Eracle riesce a pulirle in un solo giorno deviando nel cortile delle stalle il corso dei fiumi Alfeo e Peneo;
7) il toro di Creta, spirante fuoco dalle narici: l'animale viene catturato vivo, benché furioso;
8) le giumente di Diomede, re della Tracia, che si cibavano di carne umana: Eracle riesce ad ammansirle dando loro in pasto lo stesso crudele re;
9) la cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni: per conquistarla l'eroe deve combattere contro il popolo delle donne-guerriere e uccidere Ippolita;
10) i buoi di Gerione, gigante a tre teste che abitava nell'Estremo Occidente, nell'isola di Erizia. Eracle, dopo aver innalzato due colonne fra Europa e Africa in ricordo del suo passaggio, attraversa l'Oceano sulla coppa del Sole, uccide il mostro e si impossessa delle mandrie;
11) Cerbero, il mostruoso cane infernale a tre teste e coda di serpente, che l'eroe riesce a domare e a portare sulla terra dopo essere sceso vivo nell'Ade;
12) la conquista dei pomi delle Esperidi: Eracle viaggia ancora a Occidente per rubare dal giardino delle Esperidi le mele d'oro che crescevano su un albero meraviglioso custodito da un drago immortale.
Ercole è anche protagonista di innumerevoli altre imprese: partecipa alla spedizione degli Argonauti, combatte contro i Centauri, strappa a Thanatos, cioè alla Morte, Alcesti, e altre ancora. Muore per l'inganno in cui cade la sposa Deianira, che gli invia in dono una veste intrisa del sangue del centauro Nesso: la donna crede che si tratti di un talismano d'amore, ma la veste, una volta indossata, corrode le carni dell'eroe.
Eracle, in fin di vita, ordina che gli venga preparata una pira sul monte Eta e lascia che il suo corpo sia consumato dal fuoco. Ma il suo destino è tra gli immortali: è accolto nell'Olimpo tra gli dei, ove ha come sposa Ebe, la dea della giovinezza.

La figura di Ercole ha posto vari problemi all’indagine: in primo luogo se debba essere annoverato tra gli dei o tra gli eroi. Le tradizioni greche ci parlano dell’eroe figlio di Zeus e della mortale Alcmena, ma anche di un Eracle concepito come Dattilo Ideo, primo di un gruppo di cinque Dattili, nati direttamente dalla grande Dea Madre di Creta, e quindi un dio. Questo suo aspetto divino è riconoscibile anche nella maggior parte delle imprese raccolte nella tradizione relativa alle dodici fatiche sostenute per volere di Era. La dea in questa tradizione è presentata come nemica dell’eroe-dio, ma comunque resta, anche in questa prospettiva, una grande divinità femminile al servizio della quale una figura maschile sovrumana compie una serie di imprese.
Nelle tradizioni tebane, Zeus possedette la mortale Alcmena avendo assunto l’aspetto del marito Anfitrione. Era, gelosa di Alcmena, anticipò la nascita di Euristeo rispetto a quella del cugino Ercole, perché potesse sottometterlo. Appena nato, mentre era in culla con il gemello Ificle, strozzò i due serpenti mandatigli contro da Era mostrando da allora la sua forza sovrumana. Crebbe a Tebe educato in ogni disciplina da uno specialista mitico: da Eurito nell’arco, da Autolico nella lotta, da Castore nelle armi. L’uccisione di Lino, che gli insegnava la scrittura e la musica, lascia intravedere l’aspetto selvaggio della sua natura. Mandato per punizione dal padre sul Citerone a custodire il gregge, diede a 18 anni la prova della sua forza uccidendo un leone. Tornando a Tebe, mutilò del naso e delle orecchie i messi di Ergino, re dei Mini in Orcomeno, che pretendevano un tributo da Tebe e li rimandò incatenati. Ne sorse una guerra in cui Ercole vinse. In ricompensa ottenne per moglie la figlia di Creonte, re di Tebe, Megara, dalla quale ebbe almeno tre figli.
Quando Euristeo, re di Tirinto e Micene, lo chiamò al suo servizio, uccise i propri figli e due di quelli di Ificle in un accesso di follia mandatagli da Era per costringerlo al servizio di Euristeo con una colpa tale che rendesse necessaria l’espiazione. Sceso negli inferi (nell’Ade) per ordine di Euristeo, al suo ritorno sposò Deianira, sorella di Meleagro, che fu causa della sua morte.
Al servizio di Euristeo compì le dodici fatiche, impostegli dall’oracolo di Delfi per la durata di dodici anni come prezzo per la sua immortalità e come espiazione per l’uccisione dei figli.
Il culto di Ercole si diffuse nelle province d’Italia e nelle regioni dell’Impero, e fu dato spesso il suo nome a divinità indigene analoghe. Gli imperatori Caligola e Commodo si fregiarono dei suoi attributi (pelle leonina e clava). Massimiano si chiamò Erculeo. Il culto dell’Ara massima fu in vigore fino al tempo di Costantino.
L’iconografia greca e romana insiste sugli attributi della clava e della pelle leonina e talvolta compaiono anche l’arco e la faretra. La muscolatura del corpo è sempre vigorosa, resa con grandiosa efficacia soprattutto nel tipo attribuito a Lisippo, noto dalla copia Farnese (Napoli). Particolari figurazioni sono l’Ercole banchettante, quello che suona la cetra, quello ebbro, quello in abiti di Onfale.

martedì 22 aprile 2014

Sardegna, l’isola delle grandi pietre, di Giovanni Lilliu.

Sardegna, l’isola delle grandi pietre
di Giovanni Lilliu.


La civiltà dei sardi antichi è impregnata di grandi costruttori. Di fronte all’architettura le altre esposizioni del gusto, per quanto non ne manchino di egregie, rappresentano un valore minore. Le vaste distese, le forme potenti e suggestive di roccia, la morfologia incisa nel paesaggio a bastioni e torri, le rupi bucate dalle forze elementari della natura, furono il sedimento spontaneo e l’incitamento istintivo di questa architettura di pietre accumulate e scavate con arte dall’uomo. Poi, sulla disposizione fisica agì lo stato economico e sociale dell’agricoltura che volle edifici stabili e duraturi, agirono gli ideali religiosi che vollero cose eterne per i morti e per gli dei, quali solo la pietra poteva dare, infine agirono artigiani naturali esterni, ossia le onde del Mare Mediterraneo. E poi il vento, il grande nemico, con la sua sfida demolitrice che fu accettata dai costruttori, dette l’ultimo slancio ai sardi per concludere la loro architettura che, come in tutte le isole flagellate dai venti,fu per conseguenza espressa a moduli giganteschi, con stile e spirito megalitici. Il gusto architettonico megalitico fu il sigillo primordiale della civiltà dei sardi, un’apparenza ciclopica che segnò per sempre l’isola, con miracoli di pietra che davano un sapore genuino e naturale all’arte del costruire. Fin dalla preistoria nacquero in Sardegna varie forme di architettura funeraria, religiosa e cultuale, e raggiunsero espressione e livello di autentici monumenti.

Foto di http://digilander.libero.it/

lunedì 21 aprile 2014

La Pasqua

La Pasqua.

Gli ebrei celebrano con questa festa la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Il nome viene dal verbo pāsaḥ, ossia passare oltre, a commemorazione del “passare oltre” del Dio d’Israele, che nella notte dell’uccisione dei primogeniti egiziani risparmiò quelli ebrei. I cristiani con la Pasqua commemorano, invece, la risurrezione di Cristo, massima solennità dell’anno liturgico.
L’istituzione della Pasqua ebraica è basata sulla narrazione biblica della liberazione degli Ebrei dall’Egitto (Esodo, 12). Il faraone impediva agli Ebrei di lasciare la terra d’Egitto, nonostante le prime 9 piaghe che Mosè fece scatenare sugli egiziani. Per ordine di Dio, Mosè dispose la 10° piaga: nel pomeriggio del 14 del mese di abīb ogni famiglia ebrea avrebbe dovuto immolare un agnello e spalmare il suo sangue negli stipiti e l’architrave della porta di casa. Ordinò, inoltre, che le carni fossero arrostite e mangiate, insieme con pane non fermentato (azimo) ed erbe amare. Quella notte, Dio passò dinanzi alle case egiziane e uccise tutti i primogeniti, risparmiando quelli israeliti, le cui abitazioni erano riconoscibili dal sangue sugli stipiti. Vinto da quest’ultima prova, il faraone acconsentì all’esodo degli ebrei.
La Pasqua cristiana è la più antica e la più solenne delle feste cristiane. Cade la prima domenica dopo il plenilunio di primavera secondo il computo di Dionigi il Piccolo (525 d.C.), che si basa su quello alessandrino (più antico), fra il 22 marzo e il 25 aprile. È quindi una festa mobile, che regola parte dell’anno liturgico (l’inizio della Quaresima e alcune solennità successive come l’Ascensione e la Pentecoste).
La Chiesa intese continuare la solennità giudaica, ma incise un suo significato proprio. Specialmente in Oriente, una errata etimologia della parola (sofferenza) accentuò il ricordo della passione e della morte (ancora oggi i Greci chiamano il venerdì santo Pasqua della Crocifissione). L’interpretazione paolina, che contrappose la festa cristiana a quella ebraica, nel 3° secolo d.C. originò una questione fra l’Oriente, che intendeva mantenere la data ebraica (14 nisān, qualunque fosse il giorno della settimana), e l’Occidente, ove il giorno si faceva cadere sempre di domenica. Nel Concilio di Nicea (325) si decise di celebrarla nella domenica che segue il plenilunio successivo all’equinozio di primavera (21 marzo). La controversia tra cristiani celti e romani circa la data si concluse in favore dell’uso romano nel sinodo di Whitby (664).
Alla sera del sabato santo, durante la veglia o vigilia notturna, gradatamente si passa dal lutto alla gioia della risurrezione, rievocata da letture, canti e preghiere, con la messa solenne all’alba della domenica, che intende celebrare con la massima solennità la risurrezione di Cristo, culmine della sua opera di redenzione.

domenica 20 aprile 2014

I marinai Shardana e le unità di misure sarde dell'età del Bronzo.

I marinai Shardana e le unità di misure sarde dell'età del Bronzo
di Giovanni Ugas


Tra gli studi di Giovanni Ugas vanno segnalati, i sistemi ponderali e metrico lineari in uso nella Sardegna dell’antichità, basati sulla ricorrenza del 5,5 (grammi e centimetri) come parametro ricorrente. Nel contributo che pubblichiamo il professore presenta una breve sintesi dell’articolo “I segni numerali e di scrittura in Sardegna tra l’età del Bronzo e il I Ferro” nel quale affronta la problematica dei codici numerali e di scrittura al tempo dei nuraghi. Questo studio è edito nella collana di Studi Archeologici “Tharros felix” (V) per conto della casa editrice Carocci di Roma.


È noto che per circa sette secoli, tra l’età del Bronzo medio e finale (dal 1600 al 900 a.C.), le popolazioni sarde furono governate dai capi tribù che risiedevano nei nuraghi mentre il resto della popolazione dimorava nelle modeste abitazioni dei villaggi. Il commercio intertribale era aperto alle transazioni con regioni d’oltre mare e almeno dal XIV a.C. la Sardegna fu raggiunta da contenitori in ceramica dipinta, grandi lingotti ox-hide in rame, manufatti in avorio e vetro del bacino orientale del Mediterraneo, mentre i Sardi navigavano con le loro merci in Sicilia, Grecia e Creta. É chiaro che, allora, i Sardi frequentavano popolazioni che adoperavano la scrittura e non a caso in 8 lingotti in rame importati (forse tramite Creta) sono stati rilevati contrassegni di scrittura lineare egea. Tuttavia, a parte l’esiguo numero e l’origine incerta di questi marchi, non è attestata nell’isola alcuna iscrizione avente almeno due caratteri sillabici insieme e allo stato attuale delle ricerche non esistono ragioni valide per sostenere che nella Sardegna del Tardo Bronzo fosse stato adottato un sistema di scrittura lineare affine a quello egeo, né di altra natura. A partire dal IX a.C., abbattuti i nuraghi, le comunità dei villaggi compirono un passo fondamentale verso una società urbana, sostituendo le residenze dei capi tribali con organismi collegiali e costruendo maestosi edifici pubblici, in particolare sale del consiglio, palestre per i giovani, terme, templi destinati a divinità celesti e dell’acqua. Le condizioni economiche e sociali migliorarono e ben presto i villaggi santuariali accumularono notevoli ricchezze. Allora la Sardegna fu raggiunta da mercanti fenici (che in parte vi si stabilirono), greci ed etruschi, ma non di meno i Sardi lasciarono le tracce dei loro movimenti (ceramiche e artistici bronzi) in Etruria e altre regioni peninsulari, Creta, Africa del Nord e Penisola iberica, mentre qualche Nivola o Sciola protosardo scolpiva le grandiose statue di Mont’e Prama. Non c’è da stupirsi se in questo clima di benessere e di apertura culturale del I Ferro anche in Sardegna maturarono le condizioni per la nascita della scrittura. Oggi si può contare su un complesso di 32 manufatti del I Ferro (IX-VI a.C.), in particolare vasi, pesi da bilancia e lingotti provvisti di 55 segni di scrittura alfabetica. Spesso i grafemi si presentano isolati per registrare misure di peso o di capacità, ma talora possono aver segnalato la proprietà o la fabbrica. Le iscrizioni con due e più grafemi finora individuate sono appena sei, ma le stesse e i segni isolati consentono di definire un omogeneo e originale sistema di scrittura alfabetica connesso con un codice numerale. Le iscrizioni fanno pensare ad un fenomeno d’élite, ma l’articolata distribuzione dei segni in ambito regionale porta a ipotizzare un’ampia diffusione; d’altronde, a oggi, sono assai poco indagati i templi e le sepolture del I Ferro (in particolare del VII-VI a.C.) da cui attendiamo nuove iscrizioni.

sabato 19 aprile 2014

Conferenza a Cagliari sulla origine della civiltà nuragica.

Conferenza a Cagliari sulla origine della civiltà nuragica.

Archeologia a Cagliari. Si svolgerà Giovedì 24 Aprile 2014, alle ore 19, nella sala dell'Associazione Itzokor, in Via Lamarmora 123, una serata dedicata all'approfondimento delle origine delle genti nuragiche. Con l'ausilio di immagini, il relatore Pierluigi Montalbano esporrà una relazione che evidenzia l'apporto culturale delle genti eneolitiche del Vaso Campaniforme e di Monte Claro nella formazione del substrato sul quale prenderà forma, nella prima metà del II Millennio a.C., l'età del Bronzo in Sardegna.
Saranno esaminati gli spostamenti in Europa dei primi cercatori di metalli, il loro modo di vivere, l'evoluzione degli edifici funerari fino alle Tombe di Giganti, i sistemi di antropizzazione del territorio. Un viaggio nella storia che aprirà un punto di vista nuovo nella comprensione delle vicende che caratterizzarono il passaggio dal Rame al Bronzo nella Sardegna preistorica.

Ingresso libero.

venerdì 18 aprile 2014

Antichi relitti, lingotti in rame e stagno e Porto Ferro


Il lingotto di stagno di Porto Ferro (Sassari), notizia preliminare
di Mario Galasso

La Nuova Sardegna ha riportato il 23 giugno 2010 la notizia del ritrovamento di un lingotto di stagno di circa 10 kg, dal fondale di Porto Ferro (Nurra, NO. Sardegna), da parte di un gruppo di subacquei dell’ass. sportiva Corallo sub di Alghero. Il loro istruttore Alberto Sechi fortunatamente non ha confuso il lingotto con uno zinco di quelli che si usano contro le correnti galvaniche sotto le chiglie delle barche e dopo averlo fotografato sia in situ, sia durante il recupero che fuori dall’acqua lo ha consegnato ai CC di S. Maria La Palma, per il successivo inoltro alla Soprintendenza Archeologica di Sassari. In un primo momento il fortunato rinvenitore si è convinto di aver trovato un lingotto di epoca punica per la somiglianza della forma dello stesso con quello a tutti familiare del simbolo della dea punica Tanit. Lo scrivente, che ha avuto la possibilità di esaminare il reperto nel brevissimo tempo anteriore alla consegna alle autorità competenti ne ha desunto un’altra cronologia che qui di seguito si documenta.
Il lingotto
Lo stesso ha forma tronco piramidale con un anello di sospensione e due corte e tozze
appendici all’altezza del raccordo fra anello a sezione vagamente semicircolare e corpo tronco piramidale. La lunghezza massima è di circa 34 cm, lo spessore massimo del corpo di circa 8 cm, la larghezza massima di circa 18 cm alla base, il peso di kg.10,300. L’oggetto è stato ottenuto colando il metallo fuso in una forma presumibilmente preparata nel terreno utilizzando un modello a tronco di piramide per il corpo e le dita per la forma dell’anello. I due cornetti che escono sui due lati sono con certezza i raccordi di questa forma con altre similari e vicine approntate per produrne una serie. A raffreddamento avvenuto le due appendici sono state sezionate e distaccate dai due lingotti limitrofi che qui si ipotizzano
non essendone stati trovati altri nelle vicinanze.
Non sono state effettuate analisi del materiale non essendo possibile asportarne dal lingotto per non incorrere in sanzioni, ma è certo trattarsi di stagno, probabilmente con inclusione di vari elementi come impurità. La superficie del lingotto è tutta erosa e bucherellata da vacuoli a causa della lunga permanenza in ambiente marino e dell’azione del sale che aggredendo le superfici ne ha
determinato distacchi sotto forma di cloruri e clorati di stagno. Utilizzando una fonte di luce radente sul lato più largo è stato possibile rilevare i resti di un
cartiglio rettangolare nel quale si leggono a fatica le lettere L V A.
Considerazioni
Il lingotto è stato avvistato a circa 10 metri di profondità nella parte sud della baia di Porto Ferro, in una zona ricca di frammenti di terracotta assegnabili tout-court all’epoca romana. Dalle foto effettuate dai partecipanti all’immersione si evincono frammenti di anfore e di altro materiale inquadrabile nel I secolo d.C., ma dato che nulla è stato prelevato dal fondale questa datazione è da considerare per lo meno sub judicio in quanto chi scrive non ha potuto esaminare fisicamente i frammenti fotografati. Nella zona non sono stati avvistati altri lingotti di stagno ma sempre a parere dello scrivente è plausibile che un oggetto di tal genere
non sia solo ed adespota ma faccia parte di un insieme da trovare, vuoi che si tratti di un relitto vuoi che ci siano altri lingotti similari. Tuttavia il fondale nel punto di ritrovamento è coperto da rocce e sassi sparsi, con poche zone sabbiose. Il sig. Sechi riferisce della presenza di molte lastre di scisto, di varia pezzatura, una presenza tutta da indagare. Attualmente salvo possibili omissioni sono conosciuti lingotti di stagno provenienti dai seguenti siti:
Età romana
- Relitto di Capo Bellavista, est Sardegna, datato verso la metà del I secolo dopo Cristo per confronto col relitto seguente.
- Relitto di Port Vendres II, Francia, datato a subito dopo il 42-43 d.C.
- Ischia (zona di mare Carta romana, fra Castello e spiaggia), recuperi isolati, età
romana non meglio precisata.
- Relitto Lavezzi II (detto anche Sud-Lavezzi 2 o Lavezzi B o Gilot) datato fra il 40 e 70 d.C.
- Relitto di Cala Rossano (Ventotene), datato fra il 30 ed il 60 d.C. in base al materiale anforaceo e ceramico.
- Relitto di Cap de Mèdes (Porquerolles) datato dubitativamente al 1° secolo a.C.
- Relitti di Cabrera, Redona e Conellera (Baleari, Spagna) databili genericamente ad età romana.
- Ritrovamento di Lipari, notizia orale da P. Gianfrotta a F.P. Arata. Non supportata da studi e pubblicazioni a conoscenza dello scrivente.
- Ritrovamenti inglesi isolati databili fra primo impero e IV secolo.
Età “preromana”
- Relitto di Rochelongue, Cap d’Agde, Herault (Francia), datato fra fine VII-inizi VI
secolo a.C.
- Relitto di Sa Domu e s’Orku, Arbus, ovest Sardegna, età del ferro, lingotti di stagno da cassiterite sarda.
- Haifa, recuperi isolati di lingotti con iscrizioni ciprominoiche o anteriori nel porto di Haifa e da probabile relitto dell’età del bronzo (max. fine XVI secolo a.C.) presso Hofha Carmel (Haifa).
- Relitto di Uluburun (Turchia),
- Relitto di Capo Gelidonya, fine XIII-inizi XII secolo a.C., lingotti di stagno in barre
- Ritrovamenti svizzeri ottocenteschi.
Età romana, confronti
Dalla forma dell’oggetto salta subito all’occhio la sua somiglianza con i materiali restituiti dai due relitti di Capo Bellavista e di Port Vendres (Port Vendres II) nonché da i lingotti del Museo di Lacco ameno (Ischia).

La forma del corpo è molto simile, la presenza di un anello di sospensione e le appendici residue sono riscontrate anche in alcuni dei lingotti francesi e sardi.
Il relitto di Capo Bellavista (Arbatax, fraz. Tortolì, Nuoro) fu segnalato il 13-10-1954 dalla Capitaneria di Porto di Cagliari all’allora unica Soprintendenza; i pescatori nelle cui reti erano rimasti impigliati i resti del relitto recuperarono e consegnarono 32 lingotti di stagno per kg 119,1, oltre a ferro e rame e 110 chili di “agglomerati marini” (sic). Nel dicembre 1954 la polizia tributaria (Guardia di Finanza di ?) segnalò di aver sequestrato a clandestini 584 chili di rame e 208 chili di stagno. Probabilmente in origine vi erano varie tonnellate di metallo, la gran parte delle quali andò rifusa clandestinamente. Anche la Soprintendenza non
è esente da colpe: quando nel 1960 le fu inviato un carico di lingotti non ne fu fatto elenco dettagliato né fu inventariato quando fu preso in carico; in conclusione gran parte del materiale andò disperso “dopo” essere stato consegnato alla Soprintendenza ed oggi restano solo 6 lingotti di stagno per un totale di 28,3 chili. A detta della stessa Fulvia Lo Schiavo, che nel 1986 ne scrisse sul Bollettino d’arte del Ministero, questa è una storia fra le meno gloriose
della storia dell’archeologia subacquea italiana. Chi scrive questa triste storia di cattiva amministrazione del bene pubblico in appendice dà un po’ di datazioni e dati sui 6 lingotti residuali esposti nel Museo A. Sanna di Sassari, facendoli coevi a quelli di Port Vendres II per la loro forma e assegnando provenienza simile ai due carichi (genericamente Spagna).
Il relitto di Port Vendres (P.V. II) ebbe invece sorte migliore: fu studiato da Dali Colls, Claude Domergue , Fanette Laubenheimer e Bernard Liou che nel 1975 pubblicarono i risultati delle loro ricerche su Gallia, quindi uscì un numero monograficodi Archeonauta che ne inaugurava la serie (1/1977) e ancora su Archeologia Classica XXXI del 1979 che ne pubblicò una recensione approfondita stante l’importanza del rinvenimento. Gli autori furono in grado di ricostruire sia cronologia che provenienza e riuscirono a dare un nome al funzionario imperiale al quale si riferivano le sigle dei cartigli di 12 su 14 lingotti di stagno. Su questi lingotti comparivano le lettere L. VALE AUG L A.COM che stanno per Lucius Valerius Augustae Libertus a commentariis. Riprendendo da Archeonautica 1/1977 p. 11 e segg. si trattava di un funzionario imperiale, aggiunto di un procuratore provinciale, affrancato da Valeria Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. A causa della nascita di Britannico, prima della quale Messalina non avrebbe potuto avere il titolo di Augusta, emerge il terminus a quo, e cioè 41/42 d.C.. In nota gli autori precisano che si potrebbe slittare all’indietro di un anno (cioè alla data del matrimonio di Claudio) se si ammettesse che L. Valerius fosse stato un Aug(usti) l(ibertus) al quale, affrancandolo, Claudio avrebbe conferito il nome della sua sposa. Ma questo non cambia di molto la cronologia. I lingotti quindi sono stati marcati dopo che L. Valerius, affrancato, è stato incaricato delle funzioni di controllo, e cioè dopo il 42 d.C. Si può quindi ipotizzare un periodo di attività di Valerius come funzionario imperiale che va da tale data al terzo quarto del I secolo d.C., più o meno. La cronologia viene migliorata dallo studio del materiale ritrovato nel relitto che risale tutt’al più un decennio dopo tale data, cioè verso il 52 d.C. come scritto nell’introduzione del testo in Archeonautica 1/1977. In seguito Dali Colls restringerà ulteriormente al 48 d.C. il termine ante quem per la datazione del relitto e quindi dei lingotti. Gli autori, esaminando il carico nel suo complesso, lo attribuirono ad un luogo unitario del sud della Spagna, probabilmente l’Estremadura, vicina alla Betica ed alla stessa economicamente legata. Si spinsero ad ipotizzare che L. Valerius avrebbe potuto essere l’acommentarius del procuratore della provincia di Lusitania e residente nella sua capitale Emerita (Merida), che sarebbe stata il centro di controllo amministrativo della produzione dello stagno, (estratto e preparato in lingotti non in città ma nella regione circostante). Per via terrestre sarebbe stato trasportato da Albuquerque a Merida e da qui dopo la marcaturaal Guadalquivir per l’imbarco verso la destinazione finale. Per quanto riguarda i ritrovamenti di Ischia il discorso si fa più complicato. Dal web si ha la seguente notizia sul luogo di provenienza del materiale custodito nella sala 51 del Museo Archeologico di Pithecusae, Lacco Ameno:
Nel 1971, nello specchio d'acqua tra il Castello d'Ischia e la spiaggia di Cartaromana (plage romana), vennero alla luce dal fondo del mare materiali
archeologici riferentisi ad un villaggio di età romana. Si tratta di un centro industriale attivissimo con fabbriche di terrecotte e di fonderie di piombo, argento, stagno e rame, intestate a GN. Atellio e al figlio Miserino, come si legge su di un lingotto di piombo di Kg. 46. Dall'industria di questa variegata produzione
di metalli (Aenum=Aena) dovette originarsi il toponimo Aenaria che si estese a tutta l'isola: infatti, esso appare già nell'82 a.C. in sostituzione dell'antico toponimo greco Pithekoussai. Tra i materiali di piombo spiccano le frecce che gli arcieri romani usavano nelle guerre. Il villaggio "Aenaria" scomparve bruscamente nel fondo marino, per un assestamento tettonico che staccò l'isolotto Castello dall'isola maggiore, verso la fine del I se. a.C. e da questa catastrofe morfologica dell'isola prese origine un terzo toponimo distinto in "Insula Major" e "Insula Minor" detta"Castrum Gironis"… …lingotti in piombo e stagno della fonderia sommersa di Carta Romana (Ischia), dove si lavorava il piombo importato dalle miniere spagnole di Cartagena grazie alle capacità imprenditoriali degli Atellii, una gens campana nota da bolli presenti su lingotti databili tra la fine della Repubblica e la prima metà del I secolo a.C.
Dal sito istituzionale del Museo http://www.pithecusae.it/sala8a.htm invece si legge:
Nella vetrina 51 sono esposti i materiali archeologici recuperati con uno scavo subacqueo effettuato agli inizi degli anni '70 nella zona nord-orientale dell'isola, sui fondali antistanti gli scogli di S. Anna, che si trovano tra la spiaggia di Cartaromana e l'isolotto del Castello di Ischia. Qui si sono scoperti i resti di una fonderia di piombo e stagno, oggi sommersa ad una profondità tra i 5 ed i 7 metri sotto il livello del mare. Tra gli scarsi resti di strutture murarie in opera
reticolata, si sono rinvenuti blocchi di galena - il minerale dal quale si ricava il piombo, forse importato dalla Sardegna - scorie residuate dalla fusione, ghiande missili ed altri manufatti in piombo tra i quali un buon numero di lingotti del peso di oltre trenta chili ciascuno, e di stagno, tutti con i loro marchi di fabbrica impressi. La ceramica recuperata con lo scavo è per lo più grezza. I frammenti più antichi sono quelli di ceramica a vernice nera del III - II sec. a.C., mentre quelli più recenti sono di ceramica aretina. Sono esposti, insieme con un lingotto in piombo col bollo CN. ATELLI. C N. F. MISERINI (inv. 227925), alcuni lingotti in zinco, di forma trapezoidale (inv. 227926 e 227927), un frammento di galena (inv. 227928) e ghiande missili e grappe, sempre in piombo. Tra il materiale ceramico si segnalano un'anfora frammentaria, riferibile alla forma Dressel 1 (inv. 227945), ed un piccolo alabastron a vernice nera (inv. 227942). Non si posseggono i dati fisici dei 4 lingotti di stagno qui sopra riportati, che possono essere accostati al lingotto di Porto Ferro anche se le dimensioni e la forma divergono in parte. Infatti il loro peso è inferiore a 5 kg, mediamente più della metà del nostro in esame, ma la forma a tronco di piramide quadra con anello di sospensione è identica, mentre è presente in due lingotti una sola appendice di collegamento a fronte delle due dell’esemplare di Porto Ferro. Sulla faccia piana dei lingotti ischitani nei cartigli presenti si leggono le lettere ACA e sotto le stesse HLVIO, che in ipotesi riportano secondo chi li ha studiati ad una provenienza dalla Spagna meridionale come per quelli di Port-Vendres IIe di Capo Bellavista (Galizia o Lusitania). Ma non a Lucius Valerius a quanto pare. I lingotti ischitani sono stati datati sulla base della loro somiglianza con quelli di Port Vendres a circa la metà del I secolo d.C. Manca quindi una datazione assoluta per l’assenza di materiale sicuramente accompagnante. Tuttavia per la forma standardizzata si propende per l’accoglimento di questa datazione. Tutti i materiali di stagno qui sopra ricordati hanno forma e spesso dimensioni simili o più piccole di quelle del lingotto di Porto Ferro e pertanto si propende per una analoga origine e datazione con forchetta cronologica abbastanza coerente.
Il primo a parlare di metalli per il relitto di Lavezzi B (o Gilot) fu W. Bebko nel 1971 mentre Tchernia nel 1969 ne aveva dato solo informazioni relative ad anfore e ceramica. Bebko nel suo lavoro a p.30, Planche XXIV n.157 pubblicò il disegno di un Poids ou sonde (?) en plomb che nulla aveva a che fare con quelli conosciuti in letteratura mentre era identico nella forma ai lingotti di stagno troncoconici con anello di sospensione. L’altezza stimata dalla scala allegata è sui 25 cm, lo spessore fra 2,5 e 3 cm. Di questa anomalia fece riferimento A.J. Parker che a pag.240 della sua pubblicazione del 1992 (vedi bibliografia) scrisse testualmente:
An object illustrated by Bebko resembles the tin ingots from Port-Vendres B, though it is said to be of lead; it, too, may be a tin ingot (Beagrie 1985). Parker dà riferimenti per questa notizia in Bebko 1971: 2, 4-5 & 29-34. Il relitto fu studiato a fondo negli anni seguenti (vedi bibliografia) e venne datato fra il 40 ed il
70 d.C. a causa delle anfore Dressel 7-11, Camulodunum 186a con qualche Dressel 9, in
sintonia con lo stagno dei siti sopraindicati di epoca romana. Anche la sagoma del peso o sonda in piombo è simile a quella dei lingotti qui sopracitati.
Il relitto di Cala Rossano a Ventotene, scavato nel 1990, ha restituito 15 lingotti di stagno di provenienza spagnola, associati ad anfore prevalentemente del tipo Dressel 8 e Dressel 9 che hanno restituito 24 tituli picti dei mercatores. I lingotti sono di tipo diverso da quelli descritti qui sopra: quattordici si presentano in una forma definita da Arata “a pan di zucchero”, troncoconica, con una sorta di presa semilunata derivata dalla fusione. Il loro peso medio è di
kg 6,570 (poco più di 20 libbre romane di gr. 327,45), per 25 cm di lunghezza, 15 cm di larghezza, 9 cm di altezza. Presente un bollo (IVN) impresso tre volte sulla base piatta di uno di questi lingotti. Uno solo è conformato a pane rettangolare rigonfio nella parte superiore, per kg 8,840 di peso (circa 27 libbre romane), lungo cm 31, largo cm 13 e alto cm 7,5, Il relitto è stato studiato da Francesco Paolo Arata, che attribuisce ad una origine spagnola questi manufatti, anzi la identifica con quella dello stagno del relitto di Port-Vendres II. Il materiale è nel Museo dell’isola di Ventotene. Arata colloca il relitto “con buona sicurezza al secondo trentennio del I sec. d.C.” I lingotti di stagno sono di tipologia differente da quella finora descritta, anche se forse coeva, e di stesso areale di origine secondo quanto scritto da Arata.
Il relitto di Cap de Mèdes (Porquerolles, Francia) scoperto nel 1964 ha restituito due pani di stagno allungati e ne è stata data notizia nel 1969 da Tchernia (vedi bibliografia) in questi termini:
Il relitto è stato datato dubitativamente al 1° secolo a.C. per la presenza forse sporadica di un frammento di Dressel 1. Il giacimento è infatti un blocco omogeneo di concrezioni ferrose lungo circa 18,20 metri e largo 6, a 29 metri di profondità. La cronologia dovrebbe essere riveduta con uno scavo se è rimasto ancora qualcosa del relitto. La tipologia e la cronologia dunque sono differenti dai primi confronti esaminati come dal lingotto di Porto Ferro.
I lingotti “provenienti dall’isola di Redona” (Baleari)” sono mal citati da Colls, Domergue et alii in Gallia 33, nota 75, p. 83 e segg. (si cita Redona come luogo), nonché da Arata in Un relitto da Cala Rossano (Ventotene) ecc, p.147 (ne cita uno solo a Redona, mentre i sicuramente noti sono 2 ad Alcudia). In effetti la loro fonte è Mascarò Pasarius che a p. 84 del suo articolo (vedi bibliografia) parla di 3 ritrovamenti distinti nel mare che circonda gli isolotti di Conillera, Redona e Cabrera, nelle Baleari (Spagna) negli anni precedenti il 1961, data della sua relazione.
-ad est dell’isola Conillera, a 20 metri di profondità furono recuperati “pani” di stagno assieme a lingotti di piombo ed anfore di vari tipi non precisati. Non precisato il numero dei “pani”. Tutto fu trafugato. Sembra di capire che i cd. pani fossero di forma differente da quella del lingotto di Porto Ferro.
-a N.E. dell’isola Redona, a -33 m furono recuperati “pani” di stagno a forma di mezza arancia ed uno di 60 kg di peso, oltre a anfore e lingotti piani di bronzo (?). Tutto fu trafugato. In ogni caso forma e peso differiscono da quelli del lingotto di Porto Ferro. -Nella baia di Alcudia all’altezza del Can Picafort (Cabrera) furono recuperati 2 lingotti di stagno con tracce di argento in lega, di forma trapezoidale in pianta e a sezione trapezia in sezione. Nell’estremità più stretta è presente un foro per il trasporto. Peso 10,5 e 11,5 kg., Lunghezza 28 e 35 cm, larghezza massima 20 e 13 cm, minima 12 e 10 cm, spessore 7 cm, diametro dei fori 5 cm. Vedi foto più avanti, nella cui didascalia si legge parece habia un
cargamento bastante importante. Quindi non lingotti isolati ma provenienti da un relitto. La forma di questi lingotti si avvicina molto a quella del nostro, differendone per la semplificazione dell’anello di sospensione sostituito da un foro passante. Per azzardare una datazione occorre attendere qualche altro ritrovamento simile, anche se questi lingotti sono già diversi dai pani oblunghi non forati del I secolo a.C. Il lingotto proveniente da Lipari è citato da Arata in Archeologia subacquea, p.147 e nota 79 come inedito e come notizia fornita ad Arata da Piero A. Gianfrotta. Non se ne ha altra notizia e quindi non può essere preso ancora in considerazione. Da citare inoltre i vecchi ritrovamenti di lingotti provenienti “sans aucun doute des mines de Cornouaille” come dicono gli autori Colls, Domergue et alii in Gallia 33, 1975, p.83 e segg.: -un lingotto di 79 chili dragato nel porto di Falmouth (Regno Unito), anepigrafe, a forma d’astragalo che è la forma (secondo Diodoro,V, 22) con la quale i Britanni commercializzano il loro stagno.
-un lingotto da Newquay (Cornovaglia) a forma di Pinna nobilis, lungo 52,5 cm, largo max 20 cm, peso 17,5 kg, con marchi: testa con elmo che ricorda imperatori romani del IV secolo e DD NN (Dominorum nostrorum).
-due lingotti (1,250 e 3,100 kg) trovati nel Tamigi con un krismon costantiniano ed un marchio a nome Syagrius.
I ritrovamenti inglesi non mostrano alcuna somiglianza col lingotto di Porto Ferro né con gli altri ritrovati nel Mediterraneo. Anche se a questo punto si potrebbe fermare la ricerca di confronti, è tuttavia utile ad escludendum, un rapido excursus sui ritrovamenti più antichi.
Età “preromana”, confronti
Il relitto di Rochelongue ad Agde (Francia), scoperto negli anni sessanta dello scorso secolo non ha lasciato traccia dello scafo ma il solo carico: lingotti di rame, piombo, un ingente quantità di bronzo lavorato (asce, bracciali, fibule) e 32 fogli di stagno, di cui il più pesante è di 46 kg ed un lingotto discoide piano convesso di 14 cm di diametro. Con tutta probabilità si trattava di un carico di metalli semilavorati o di scarto da avviare forse verso l’Etruria e le officine specializzate locali. E’ stato datato fra fine VII-inizi VI secolo a.C. ed è finora l’unico relitto di tale epoca e carico ad essere stato trovato.
Non ci sono parametri di forma e peso confrontabili col nostro lingotto.
Il fantomatico (finora) relitto di Domu e s’Orku a sud di Arbus sulla costa occidentale sarda non ha ancora restituito nulla dell’imbarcazione ma solo alcuni materiali in parte esposti nel museo di Sardara ed in parte trasportati fuori Sardegna per le analisi (non sappiamo se rientrati).

Alfonso Stiglitz commenta a tale proposito su
(http://www.gentedisardegna.it/topic.asp?TOPIC_ID=2629&whichpage=16) :
Sul relitto di Arbus purtroppo non sappiamo ancora niente, salvo che per il carico. Sarebbe interessante operare degli scavi subacquei e verificare, una volta per tutte, se si tratta di un effettivo relitto. Il materiale invece è stato studiato ed è molto interessante, intanto perché ci porta a datare il contesto all’età del Ferro (IX-VIII sec. a.C.), ad attribuirlo ad ambito nuragico e a fare alcune osservazioni, in particolare sui lingotti di stagno che trasportava. Sono stati analizzati
e danno una compatibilità con i giacimenti stanniferi dell’aree tra Gonnosfanadiga e Villacidro;
il dato non è però condiviso da Valera, che è uno dei nostri maggiori studiosi di
archeometallurgia. Non si è in grado di dare dimensioni e forma dello stagno di questo giacimento in questo lavoro. Tuttavia essendo il materiale attribuito all’età del ferro si suppone che i lingotti siano di tipologia differente da quelli di età romana, come negli altri esempi qui sotto.
I ritrovamenti di stagno presenti nel Museo di Haifa
Come già scritto si tratta di recuperi isolati di 2 lingotti (1976) con iscrizioni già definite da De Palma ciprominoiche ed ora decifrate come geroglifi indu da S. Kalyanaraman (2008) presso il porto di Dor a sud di Haifa4 e nel 1970 di vari lingotti da un relitto dell’età del bronzo (finora datati a fine XVI secolo a.C.) presso Hof ha Carmel (Haifa) con marchi Harappa e Indu.
Kinglsdey e Ravey nel 1990 scrivono che le forme dei materiali metallici ritrovati (piombo, rame e stagno) sono totalmente differenti dalle forme romane (Amongst a relatively extensive collection of lead, copper and tin ingots gathered from various points along the Israeli coast, the Roman forms so clearly defined archaeologically in the western Mediterranean is almost entirely absent, p. 119). In effetti (vedi foto in basso) sono differenti dagli esemplari di epoca romana e dal nostro sotto esame. In ogni caso la ricerca su questi materiali è sempre in itinere. Non ci sono parametri di forma e peso confrontabili col nostro lingotto.
Il relitto di Uluburun (costa sud dellaTurchia), scoperto nel 1982, è datato al XIV secolo a.C. e forse il suo ultimo viaggio è collocabile fra il 1316 ed il 1305 a.C., nella tarda età del Bronzo; fra le molte merci recuperate ha restituito 40 lingotti di stagno contenenti pochissimo piombo, oltre ad a lot of tin cups e molto stagno pulverulento, assai difficile da recuperare, residuo di preesistenti lingotti o altro materiale dello stesso metallo. La provenienza dello stagno è ancora oggetto di discussione: Spagna (Tarshish) o Afganistan.

Il relitto turco di Capo Gelidonya, studiato da Peter Trockmorton e George Bass, ha restituito materiale straordinario datato per due vasi in stile Miceneo III B al tardo XIII al primo XII secolo a.C. La nave era fenicia o cananea. Oltre a 40 lingotti d’oro da 20 kg l’uno, 30 di bronzo a forma di disco e 20 in barre, l’imbarcazione trasportava anche stagno: 19 lingotti in barre oltre a tre masse informi relative forse a lingotti corrosi. Quindi di tipologia differente da quello recuperato a Porto Ferro.
Dal website del Darthmout College
http://projectsx.dartmouth.edu/classics/history/bronze_age/lessons/les/22.html#6 del 18-3-2000 si legge che
Under the copper ingots in Areas G and P were found three piles of powdery, white tin oxide, seemingly all that remained of the tin which the ship was also carrying as part of its cargo. The source of tin for the Bronze Age cultures of the Aegean is a very hotly disputed question. Although the ultimate source of the Gelidonya tin is unknown, specialists are quite sure that it did not come from Cyprus. The tin from this wreck is significant in a larger sense as the earliest known, purely industrial tin after that recently found in much greater quantities and in the form of oxhide ingots of metallic tin at the Ulu Burun wreck, which dates some 100-150 years earlier.
Non ci sono parametri di forma e peso confrontabili col nostro lingotto.
Inoltre altri vecchi ritrovamenti per l’età del Bronzo e del Ferro:
Ritrovamenti ottocenteschi in siti lacustri della Svizzera: piccole barre a sezione triangolare e lingotto discoide (1800 gr.) munito di anello di bronzo; da Genève Eaux-Vives un lingotto di forma ovale (asse maggiore 7 cm).
Un lingotto lenticolare dalla grotta Roc de Buffens (Caune-Minervois, Aude, Francia).
Per la relativa bibliografia vedere Colls, Domergue et alii in Gallia 33, 1975, p. 83 e segg.
Conclusioni

I lingotti “preromani” sopracitati non sono confrontabili con quello di Porto Ferro, essendone molto diversi. La forma e la stazza del nostro lingotto trova invece confronto in modo stringente con Port Vendres II, ma anche con Capo Bellavista, mentre per Ischia il peso dei lingotti è notevolmente inferiore, restando simile la forma; per il relitto di Cala Rossano (Ventotene) si può dire che la forchetta cronologia è leggermente più bassa per l’età post quem, mentre per la forma ci sono sostanziali differenze. I 2 lingotti da Cabrera hanno molta somiglianza ma
l’anello di sospensione è sotituito da un foro passante, mentre il peso è similare.
La definitiva conferma ci viene dal cartiglio che a malapena e parzialmente si legge nelle lettere VA precedute da una L poco facilmente leggibile, quanto basta però a supporre si tratti di una parte del cartiglio di L. Valerio di cui sopra.
A questo punto si può ipotizzare che anche per lo stagno di epoca romana vi sia stata una rotta “sarda” verso Ostia come per altri materiali che viaggiavano in lungo e largo dai confini dell’impero verso Ostia o ne partivano verso le provincie. Abbiamo quindi di stessa probabile provenienza 2 relitti e questo lingotto, stesso plausibile controllore (L. Valerius) per Port-Vendres II e Porto Ferro, mentre per C. Bellavista non abbiamo dati sufficienti ed affidabili dalla letteratura. Le onerariae che partivano dalla zona del Guadalquivir risalivano la Spagna e poi, verso la zona dell’attuale confine con la Francia, facevano rotta ad est per il
Fretum gallicum col vento di maestrale al gran lasco.
Ovviamente queste sono solo note preliminari, la ricerca dovrà essere approfondita, sperando in ulteriori ritrovamenti nella zona di mare da cui il lingotto è stato prelevato. Da questa breve nota si evince però la necessità di procedere ad una catalogazione per la compilazione di un database contenente tutti i lingotti di stagno conosciuti, onde tentare di approntare una tavola tipologica e cronologica delle varie forme e tipologie utilizzate nel tempo. Già con queste sole notizie si intravede l’evoluzione cronologica e le differenze geografiche, pur con grandi vuoti relativi ad esempio al periodo fra fine dell’età del ferro e primo secolo d.C. con l’eccezione del relitto di Rochelongue, un unicum fra fine VIII e inizi VII secolo a.C.

giovedì 17 aprile 2014

Straordinaria scoperta archeologica a Roma: Il Tevere divideva in due la città, scoperto un quartiere più grande di Pompei.

Ostia Antica segreta: era più grande di Pompei

La scoperta della Soprintendenza archeologica di Roma: una parte di Ostia Antica, fino ad oggi segreta, era più grande di Pompei. Recenti indagini archeologiche svelano, infatti, che l'area era molto più vasta di quanto ritenuto. La Soprintendenza parla di risultati eccezionali perché nel I secolo a.C, il Tevere non chiudeva la città a nord, ma la divideva in due parti.
Torri, magazzini, nuove mura di cinta e tracciati stradali finora sconosciuti. Ostia antica diventa ora una vera e propria città, e rivela tutta la sua grandezza, come nessuno l'aveva mai immaginata fino a oggi.
Per la prima volta, la sua pianta integrale scavalca le sponde del Tevere e arriva fino a Isola Sacra, nella zona settentrionale del fiume. Una scoperta archeologica eccezionale partita nel 2007, a pochi chilometri dall'aeroporto internazionale Leonardo da Vinci, quando una squadra di archeologi italiani e inglesi ha intrapreso indagini geofisiche nell'area che si estende fra gli antichi scali marittimi di Portus e di Ostia. Un impegno che ha visto lavorare insieme Angelo Pellegrino e Paola Germoni della soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma e i professori Simon Keay della University of Southampton-British school at roma e Martin Millett della university of cambridge che hanno diretto archeologi e geofisici nell'ambito del Portus project.
I risultati della ricerca sono stati presentati oggi a palazzo Massimo dalla soprintendente ai beni archeologici di roma, Mariarosaria Barbera, Paola Germoni, Simon Keay e dall'archeologo Fausto Zevi. "E' una sorpresa - ha detto Barbera - ma anche il risultato di una progettazione comune che ha trovato terreno fertile non solo con gli accordi con gli istituti stranieri, ma che affonda le sue radici nella politica di tutela degli anni sessanta. Il vincolo apposto nel '62 - ha specificato Barbera - ha consentito la conservazione e il successivo varo di questo progetto a cui la soprintendenza pensava da molto tempo. I risultati sono strepitosi e ci inducono a ben sperare nel futuro", anche se "non sara' più sotto forma di campagne di scavi, che non ci possiamo più permettere, ma sarà con scavi mirati sulla base dei risultati della ricerca geofisica".
I resti dell’antica Ostia si inseriscono in un contesto geografico e territoriale molto diverso da quello antico: infatti in età romana il Tevere costeggiava il lato settentrionale dell’abitato, mentre ora ne tocca solo in minima parte un tratto del settore occidentale, essendo stato il suo letto trascinato a valle da una rovinosa e famosa alluvione, nel 1557; inoltre la linea di costa, in origine vicina alla città, risulta attualmente distante di circa 4 km, per l’avanzata della terraferma dovuta ai detriti lasciati dal fiume negli ultimi 2.000 anni. Ostia era quindi una città sorta, con un suo porto fluviale, sul mare e sul fiume, e questa sua particolare posizione ne determinò l’importanza attraverso i secoli sotto il profilo strategico-militare e sotto quello economico.
Un’antica tradizione ne attribuiva la fondazione al quarto re di Roma, Anco Marzio, intorno al 620 a.C., per lo sfruttamento delle saline alla foce del Tevere (da cui il nome Ostia, da ostium = imboccatura). Comunque, i resti più antichi sono rappresentati da un fortilizio (castrum) in blocchi di tufo costruito dai coloni romani nella seconda metà del IV a.C., con scopi esclusivamente militari, per il controllo della foce del Tevere e della costa laziale. Successivamente, soprattutto dopo il II a.C., (quando Roma aveva ormai il predominio su tutto il Mediterraneo), cominciò a venir meno la funzione militare della città, destinata a diventare in poco tempo il principale emporio commerciale della capitale.
Fonte: http://roma.repubblica.it/