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venerdì 31 gennaio 2014

Concorso letterario

Concorso letterario 2014



L’Etsi, l’associazione di promozione sociale, affiliata all’ANTEAS, che si occupa di cultura, ambiente e turismo sociale, ha deciso di istituire un premio letterario che ha come argomento il lavoro.

Il lavoro occupa un ruolo rilevante nella vita delle persone ed è parte di infinite possibili storie, racconti, spunti poetici laddove è coniugato con l’esistenza della persona, ovvero la passione, la solidarietà, la giustizia, la fatica, il cambiamento, il conflitto, il denaro, i consumi, la precarietà, l’incertezza, i progetti, l’amore, l’amicizia, la cultura, la religione, la dedizione…

Il lavoro cambia e ci cambia, è parte essenziale della nostra esistenza e con l’istituzione di questo concorso l’Etsi si propone di indagarlo ed esprimerlo attraverso la forma letteraria, offrendo a tutti la possibilità di presentare opere scritte in italiano  che negli idiomi sardi e che attengono al tema del lavoro.

Un modo efficace, piacevole ed utile per far conoscere ad un pubblico più vasto, i talenti letterari e narrativi che certamente risiedono in molti lavoratori. Un’opportunità che l’Etsi, vuole offrire per comprendere ancora meglio la galassia lavoro attraverso il racconto, il saggio letterario o la poesia.

Il tema della terza edizione-2014- del premio è:  “IL LAVORO INVISIBILE

  
REGOLAMENTO

  1. Il concorso è a carattere nazionale  ed è articolato nelle seguenti sezioni:
·       Narrativa   e poesia in lingua italiana
·       Narrativa e poesia in lingua sarda
E’ prevista una quota di partecipazione di 10 € per spese di segreteria ed organizzazione da versare sul c/c bancario intestato:Etsi – Ente Turismo Sociale Isolano- Cagliari-

IBAN: IT97 F033 5967 6845 1070 0164 895    BANCA PROSSIMA

2.     I racconti , inediti, non dovranno superare la lunghezza massima di 3 cartelle. Si intende per cartelle un foglio A4 riempito su un solo lato, interlinea singola, con una media di 30 righe con 60 battute. Ogni partecipante può presentare un solo racconto in italiano o in sardo.

  1. Il contenuto del concorso a tema della terza edizione è:” Il Lavoro invisibile

  1. I partecipanti di ogni sezione devono far pervenire all’Etsi, esclusivamente tramite mail , una copia della loro opera unitamente al modulo di partecipazione compilato in ogni sua parte e indicando chiaramente nome, cognome,  indirizzo postale, cellulare o mail e firma leggibile.
  1. Le opere dovranno pervenire all’etsi.cagliari@hotmail.it entro e non oltre il 30 ottobre 2014
  1. Le opere saranno valutate da una giuria esterna nominata dall’Etsi. La giuria è formata da: , Andrea Frailis, Presidente(giornalista Videolina), Antonello Giuntini (studioso di lingua sarda) e Pierluigi Montalbano (Scrittore). Il suo giudizio è insindacabile.
  1. L’Etsi si riserva il diritto di riprodurre, pubblicare le opere presentate per scopi non commerciali al fine di valorizzare autori emergenti con l’unico obbligo di citare il nome dell’autore.
  1. I partecipanti al premio accettano il trattamento dei propri dati personali ai sensi della legge 675/96 e successive modifiche
  1. Le spese di viaggio e di soggiorno sono a carico dei partecipanti.
  1. Verranno premiati i primi tre classificati di ogni sezione e i nomi dei vincitori saranno resi noti il giorno della premiazione.
  1. I premi dovranno essere ritirati personalmente dai vincitori, pena la decadenza. In tal caso subentrano gli altri classificati.
  1. La partecipazione al concorso implica la completa ed incondizionata accettazione del presente regolamento.
  1. Sarà cura dell’ETSI comunicare tempestivamente, stesso mezzo, a tutti i partecipanti il luogo, la data e l’orario della cerimonia di premiazione.


Per ulteriori informazioni :   Etsi.Cagliari@hotmail.it
Giuseppe Vargiu                    333 9319377


giovedì 30 gennaio 2014

Archeologia. La fine dell'Età del Bronzo è legata a misteriosi eventi del 1200 a.C.?

Gli eventi ‘misteriosi’ del 1200 a.C
di Maurizio Feo


Il Collasso della fine dell’Età del Bronzo; si passò dal Bronzo al Ferro; caddero città fortificate, Regni e Imperi apparentemente invincibili, fino ad allora padroni del Mondo Antico; si passò dal potere assoluto delle Aristocrazie Nobili a un ‘epoca rurale e modesta, in un grande e sincrono salto indietro nel tempo, ‘inspiegabile’ fino a qualche anno fa; alcune lingue e scritture si persero per sempre.

L'unica e romanzata spiegazione, talvolta solamente adombrata, talaltra chiaramente espressa, è quella dei fantomatici 'popoli del mare'.
Molti documentari presentano così, in modo sensazionalistico e misterioso quell’epoca.
Nessuno dei moderni era lì allora, per cui nessuno può oggi testimoniare in dettaglio ciò che successe allora. E' vero che si tratta di un lungo lasso di tempo, in cui molto accadde... Ma è altrettanto vero che tutti gli studi (multi-disciplinari, guarda un pò: talvolta insieme, talvolta separatamente, ma tutti sinergicamente), permettono -seppure per sommi capi- di ricostruire un quadro complesso, di lenta ed inesorabile evoluzione, che ormai è generalmente accettato e che è convincente oltre che realistico.
Credo si possa riassumerlo così:

1) Nei decenni precedenti al collasso: ripetuti episodi di siccità, anche prolungata, che hanno condotto alla desertificazione di molte aree prima produttive. La Paleo Climatologia lo ha dimostrato senza ombra di dubbio (ma ne esistono tracce negli annali di vari paesi, oltre che in scritti, cui prima non era stata data alcuna credibilità, sembrando essi solo scritti letterari: vedi "La Maledizione di Accad", ad esempio, oppure anche le "Storie" di Erodoto, riguardo al motivo per cui i 'Tirreni' avrebbero lasciato l'Anatolia).

2) L'aumento storicamente documentato del prezzo del grano: talvolta molto al disopra del triplo. Si parla anche di prezzi più che decuplicati (i paesi produttori 'facevano cartello' già allora: Hatti, Egitto e l'attuale Palestina, allora Egiziana).

3) Inizio del crollo definitivo di società che non erano produttrici di grano e che erano già in partenza società economicamente molto sbilanciate (es.: i Micenei, che scambiavano il loro metallo con il grano e che pertanto dipendevano completamente dai produttori, per la sopravvivenza delle loro popolazioni).

4) Terremoti e maremoti, negli anni immediatamente precedenti al Collasso della fine dell'Età del Bronzo: avvennero provatamente (Paleo Geologia, marina e terrestre) solamente nel Mediterraneo orientale (i maremoti del Mediterraneo occidentale sono fantarcheologia) e furono la causa di molti dei fenomeni che in molti casi sono ancora dati per sconosciuti e non spiegati. Le linee di faglia del Medio oriente sono tra le più attive ed intricate nel Mondo intero.

5) Destabilizzazione dei poteri centrali di tutti gli stati del mondo allora conosciuto. I motivi sono già presenti 'in nuce' in quanto già detto: carestia, calo di ogni produttività, impossibilità dei vertici a pagare i vari livelli gerarchici della struttura statale, malattia (epidemie per inquinamento delle acque, bestiame morto, etc), fuga dalle coste, furti, violenze personali e razzie, disordini sociali, anarchia, pericoli a tutti i livelli. Paura ed abbandono dei campi e dei paesi di origine, fuggendo con ogni propria possibile proprietà trasportabile, specie gli animali. La via preferita? Quella marina, ovviamente: allora meno pericolosa di quella terreste, attraverso un'orografia spesso sconvolta e talvolta già difficile in partenza (si pensi all'attuale Turchia, alla catena del Tauro etc).

6) Fuga di molti gruppi piccoli e grandi, di svariata origine, via mare, ma anche via terra: verso dove? Verso la Terra Promessa (chiedo scusa se divento troppo poetico!) che sarebbe stata, poi, qualsiasi terra produttrice di grano: una di esse era l'Egitto. Un'altra, la Palestina. Non la Turchia, che era stata completamente sconvolta dalle Tempeste Sismiche (che non sono sciami sismici, si prega di controllare il significato geologico dei termini): i Kaska delle coste del Mar Nero ne approfittarono comunque, per dare il colpo mortale al loro tradizionale nemico da 600 anni (per molto tempo, furono ritenuti gli unici responsabili della distruzione di Hatti, esattamente come i fantomatici 'Popoli del Mare' furono ritenuti i responsabile del Collasso della fine dell'Età del Bronzo).

7) L'Egitto interpretò i molti arrivi (che noi chiamiamo oggi di volta in volta 'migrazione', richiesta di asilo', 'infiltrazione', soltanto occasionalmente 'invasione' e solo eccezionalmente 'conflitto armato' (ci furono certamente ANCHE di quelli) come le successive ondate di invasioni da parte di una confederazione di eserciti armati organizzati ed uniti contro lo stato Egizio.

8) La caduta di molti stati preparò il terreno per una nuova età (che noi chiamiamo del Ferro) che sarebbe stata meno rutilante di bronzo, meno affollata di luccicanti armature e molto più semplicemente rurale: era finita l'epoca degli eroi e delle aristocrazie nobili detentrici del potere (certamente: ci sarebbe voluto ancora molto tempo, ma i semi erano stati sparsi). Il cambio fu repentino e doloroso: per molti anni ancora - prima del primo acciaio - il ferro dette risultati inferiori all'ormai perfetto strumento di bronzo. Per molto tempo ci si era chiesto perché mai fosse stata abbandonata una lega (il Bronzo) nella quale si era raggiunta la perfezione, per abbracciare una tecnologia basata su un metallo (il Ferro) che permetteva risultati molto inferiori e che tali sarebbero rimasti ancora per molti anni.

9) Interruzione dei commerci via terra e specialmente via mare, che erano stati fino ad allora gestiti dalle grandi aristocrazie nobili, che non c'erano più. Interruzione conseguente dell'arrivo dello Stagno dai lontani paesi che ne avevano. Impossibilità di ottenere altro bronzo. Il ferro, invece, è ubiquitario.

10) Perdita di alcune lingue scritte e parlate.

11) L’Archeologia non trova nella maggioranza delle città ‘distrutte dai Popoli del Mare’ segni di distruzione ossidionale da parte dell’uomo (manca il ritrovamento di punte di lancia, di freccia e di altre armi; manca la spoliazione dei cadaveri; l’entità della distruzione è sovrumana, non umana; la qualità delle distruzione è mono direzionale, come quella sismica; le città distrutte si trovano presso le faglie più attive del mondo; allora si costruiva su strati alluvionali instabili, o su precedenti rovine; alcune città constano di più di 40 strati: è mai possibile che ogni volta fossero distrutte da assedi?). Il nome di alcune città è diventato – già in antico – sinonimo di distruzione: da Harm Megiddo deriva il vocabolo Biblico Armageddon.

Si potrebbe continuare, così: ma è richiesto troppo spazio. Credo però che questo già sia sufficiente per argomentare contro i troppo numerosi aggettivi negativi che alcuni documentaristi usano ancora oggi per ‘il misterioso Collasso della Fine dell’Età del Bronzo’. Certamente, l’uso di aggettivi come: ‘inspiegato’ 'sconosciuto', 'ancora ignoto', 'non ben compreso ancora oggi' etc etc, permette di aumentare la suspence.
Ma non si tratta di buona divulgazione: si tratta di cattiva informazione.

Come in quei documentari nei quali si parla ancora della bava batterica del varano di Komodo, che è un vecchio mito sfatato da molti anni, ormai.
Il varano non possiede una bava piena di batteri (almeno, non più di noi): il varano possiede vere e proprie ghiandole velenifere con le quali inietta un veleno potentemente anti coagulante, che infatti ha ragione in poche ore di vittime anche molto voluminose, per via delle vaste emorragie interne che provoca. Nessuna infezione da batteri potrebbe essere mai così rapida.

I cosiddetti 'popoli del mare' sono come la bava del varano: non sono mai esistiti davvero.
Non ce n'è traccia reale né prima, né dopo i famigerati fatti di cui sarebbero stati responsabili. E le distruzioni attribuite loro furono prodotte da terribili forze naturali.

Fonte: http://pasuco.blogspot.it

martedì 28 gennaio 2014

Occhi azzurri e pelle scura, ecco come eravamo 7 mila anni fa

Occhi azzurri e pelle scura, ecco come eravamo 7 mila anni fa
di: Elisabetta Intini


L'analisi del DNA di un antico cacciatore raccoglitore vissuto in Spagna svela un inaspettato identikit per i nostri antenati: un mix di tratti scandinavi e africani oggi quasi introvabile.
Una ricostruzione completa del volto dell'uomo di La Brana 1 (lo scheletro da cui è stato tratto il genoma sequenziato). Per vedere le varie tappe del completamento del suo identikit vai alla gallery qui sotto. Credit: Spanish National Research Council
Sguardo di ghiaccio come le popolazioni del Nord, pelle, barba e chioma d'ebano come le genti africane. L'analisi del genoma di un antico cacciatore-raccoglitore vissuto in Europa tra i 10 mila e i 5 mila anni fa, ha rivelato particolari curiosi sulle sue caratteristiche fisiche e immunologiche.
Questo nostro antenato aveva occhi azzurri, capelli castani e pelle scura (un insolito mix genetico); come alcuni di noi era intollerante al lattosio, nonché ancora incapace di digerire gli amidi; e aveva un sistema immunitario sorprendentemente simile a quello degli uomini moderni.
Il materiale genetico è stato estratto dal dente di uno dei due scheletri rinvenuti nel 2006 nel sito archeologico di La Braña - Arintero a Valdelugueros, nel Nord della Spagna: una grotta sufficientemente scura e fredda da preservare il DNA dei reperti. I risultati delle analisi condotte presso l'Istituto di Biologia Evolutiva di Barcellona (Spagna) sono stati pubblicati su Nature. Si tratta del primo sequenziamento genomico di un europeo appartenente a una popolazione pre-agricola.
Come apparivano gli Europei 7 mila anni fa
Scandinavi dalla pelle nera (o quasi)
Il team è rimasto di stucco nello scoprire che l'antico europeo avesse occhi azzurri come quelli delle popolazioni di Svezia e Finlandia, ma ancora la pelle scura e i capelli neri o castani, retaggio delle lontani origini africane. Precedenti teorie sostenevano che la pelle chiara si fosse evoluta poco dopo l'uscita dell'uomo dal continente africano 45 mila anni fa.
«Si pensava che passando dalle latidudini africane alle più alte latitudini europee, con la minore esposizione ai raggi UV, la pelle fosse diventata chiara fin da subito» ha detto Carles Lalueza-Fox, principale autore del paper. «Ma evidentemente ci sbagliavamo: l'uomo analizzato visse 40 mila anni dopo l'esodo dall'Africa e aveva ancora la pelle scura». Può darsi che il tratto genetico "pelle chiara" si sia evoluto solo successivamente, negli ultimi 7 mila anni. Mentre gli occhi azzurri potrebbero essersi evoluti per favorire la selezione sessuale, con entrambi i partner che per qualche motivo ricercavano nell'altro questa caratteristica.
Stomaco "delicato", difese forti
Lo studio ha inoltre evidenziato come l'avvento dell'agricoltura abbia modificato le caratteristiche genetiche dei nostri predecessori. Se in Europa il sistema agricolo si impose a partire da 7500 anni fa, in Spagna non arrivò che 1500 anni più tardi. L'uomo di La Braña, dunque, visse prima dell'introduzione di questa attività. E dunque aveva una dieta a base di proteine ed era incapace di digerire il lattosio e gli alimenti contenenti amidi, al contrario degli uomini del Neolitico.

In compenso, il suo sistema immunitario era "attrezzato" contro un'ampia gamma di infezioni batteriche: caratteristica che finora si associava alla comparsa della pastorizia e alla vicinanza con gli animali. Probabilmente furono dapprima altre infezioni, come il colera (non dipendente direttamente dalla prossimità del bestiame) a rafforzare le difese del suo organismo.

I Pelasgi e le prime civiltà in Italia

I Pelasgi e le prime civiltà in Italia
di Nicola Bizzi


Attraverso gli studi dello scrittore Guido Maria St. Mariani di Costa Sancti Severi, fondatore della rivista Aesyr, ricostruiamo le tappe della civilizzazione remota della nostra penisola
Da quanto emerge dagli studi del professore, la civiltà italica ha una storia antichissima e nobile, connessa con le ondate migratorie dei Pelasgi e di altri popoli di stirpe egeo-lelegica giunti nella nostra terra già nel terzo millennio avanti Cristo. Si tratta di una realtà storica poco conosciuta e affrontata in ambito accademico e sicuramente da rivalutare, perché ad essa si lega, come vedremo, l’origine della nostra Civiltà millenni prima della fondazione di Roma e l’origine stessa di molte delle nostre città, fra cui Ancona, Rimini, Cesena, Orvieto, Viterbo, Arezzo e Lucca.
Ecco una sintesi di quanto il Prof. Mariani ha raccontato per la redazione di Signoraggio.it.
Intorno al 2500 a.C., stando a quanto ci riferisce Ellanico di Mitilene (490-405 a.C.) nella sua opera Foronide, un mitico re dei Pelasgi di nome Nana, cacciato dai suoi sudditi, avrebbe risalito il mar Adriatico con le sue navi uniremi.
Il termine nana lo si ritrova nelle antiche culture lelegiche della Caria, regione costiera dell’Anatolia, tuttavia non si tratta certamente di un nome di persona, ma di un titolo che indicava i condottieri delle genti di mare. Il termine “condottiero” è però un’espressione più recente. Il significato esatto, che non sarebbe però pienamente comprensibile a noi moderni, sarebbe più propriamente “pastore del popolo del mare”, similmente alla forma egeo-minoica nanash e alla posteriore forma micenea wanash, quest’ultima traducibile come “pastore di popoli” (non necessariamente, in questo caso, collegati al mare).
Mentre un secondo Nana, secondo la tradizione, risaliva il Tirreno verso il 1900 a.C., spingendosi fino in Lunigiana, il Nana di cui ci parla Ellanico risalì la costa adriatica da Sud a Nord, facendo un primo scalo nelle attuali Marche, dove lasciò parte dei suoi uomini e fondò una città che oggi si chiama Pedaso, lo stesso nome della capitale dei Lelegi della Caria, e anche di una città dei Lelegi della Misia, siti a Sud di Troia, il cui re, Althe, diede la propria figlia Laothe in sposa a Priamo.
Risalendo la costa marchigiana verso Nord, troviamo Numana, dove secondo la tradizione Nana fece un altro scalo. Il nome di questa località corrisponde al lelegico Nu-Nanash, ossia “la città di mare di Nana”. Nana risalì ancora la costa, fondando la città di Ankh-Uni, l’odierna Ancona, il cui nome arcaico è composto dal termine Ankh(“chiave della vita”), parola di origine egizia che era già entrata negli idiomi pelasgico-lelegici di Mysia, Meonia-Lydia, Caria e Lycia, e da Uni, nome con cui gli Etruschi indicavano una loro massima Dea. Quindi Nana, sempre secondo la tradizione, passò a fondare Arimna, l’odierna Rimini. Da notare è il fatto che anche questo nome lo si ritrova nel sud della Lycia. Spintosi nell’entroterra, Nana avrebbe fondato Keisna, l’attuale Cesena, e, ripreso il mare e risalito verso Nord lungo la costa, fondò la città di Rasnash, l’odierna Ravanna. Gli etruscologi oggi concordano nel vedere in questo nome una similitudine con il termine Rasenna, nome con il quale gli Etruschi erano soliti chiamarsi, anche se la forma più esatta definente le popolazioni etrusche sarebbe stata Rasnakh. I Romani, d’altro canto, li chiamarono Tusci, i GreciThyrrenoi o Tyrsenoi (Tirreni, Tirseni) e gli Egizi Twrs.
Ellanico di Mitilene continua a narrarci le gesta di Nana, sostenendo che questi proseguì la sua opera colonizzatrice fondando la città di Spina e, nuovamente spingendosi nell’interno, fondò Khurythi, l’odierna Cortona (che però porta il nome di un suo discendente, Khuryth), Ar-Tynia (Arezzo), da Ar (“insediamento”) e Tynia, nome della massima Divinità degli Etruschi, e Fruntak (Ferento Veteres), archeologicamente risalente proprio al 2500 a.C. Giunto sulle sponde del lago di Bolsena, Nana fondò poi Velz-Nani (Volsinii Veteres), destinata a divenire la CaputEtruriae, la capitale sacra e militare di tutte le città etrusche, e, sulla sponda meridionale del lago, edificò Visenti, l’odierna Capodimonte.
Altri importanti centri fondati da Nana, sempre secondo Ellanico, furono Salpinii (Orvieto) e Surrina (Viterbo). Si sa che era consuetudine di questi popoli fondare delle dodecapoli, raggruppamenti di dodici città, e Nana ne avrebbe fondati ben due, costituiti da dodici città rivierasche e dodici nell’interno. Mi sono limitato in questo articolo a citare le più importanti, pur nutrendo dubbi sulla fondazione di Spina.
Essendo all’epoca queste spedizioni pelasgiche formate da volontari, provenienti da regioni diverse ma accumunati dallo stesso sangue e dallo stesso concetto di “stirpe”, onde formare un nucleo consistente di combattenti atti a conquistare nuove terre, la spedizione del 2500 a.C., stando ai nomi dei centri fondati nella nostra penisola, doveva probabilmente essere composta da Lelegi provenienti da Creta, dalle Cicladi, dalla Caria e dalla Mysia, e da Lyci Xanthy, Milii e Termili, Mysii di varie tribù, Meoni e Thyrri.
Una seconda importante ondata colonizzatrice avvenne circa cinque secoli dopo, verso il 2000 a.C., ed è da mettere in riferimento con la cultura di Rinaldone, come attestano ritrovamenti di scheletri di guerrieri alti circa due metri, detti di tipo “anatolico”, con armi di bronzo (del tutto sconosciute all’epoca agli aborigeni italioti, che erano del resto di statura piuttosto modesta). Questa seconda invasione, secondo la tradizione, sarebbe stata attuata da genti pelasgiche del tutto identiche a quelle della prima ondata (quella di Nana), guidate da un tal Tyrsen (da cui probabilmente trae origine il nome Tyrsenoi). Si sarebbe trattato in maggioranza di uomini provenienti dalla Mysia e dalla Caria, i quali avrebbero anch’essi fondato due dodecapoli comprendenti anche in questo caso dodici città marine e dodici nell’entroterra. Fra queste città ricordiamo Velx (Vulci), Sveama o Suana (Sovana), Surna (l’odierna Sorano, da Sur = Sole), Katetra (Pitigliano), Misma (Misa), Tusnak (Tuscania), Stetnes (Poggio Buco), Aurinia (Saturnia), Khaletra (Marsiliana sull’Albegna).
Una terza ondata è collocabile cronologicamente attorno al 1900 a.C. Condotta da un secondo Nana, pare che fosse formata solo da genti provenienti dalla Lycia e da Lyci cretesi (Xanthy, Milii, Termili e Termii). Il vero nome originario dei Lyci, in lingua pelasgica, era Luqqu o Luqqa (poi mutato in Lukku o Lukka), e sarebbero stati proprio loro, nel contesto di questa terza ondata, a fondare la città di Luqqa (l’odierna Lucca), sorta su un’isola nel messo del fiume Serchio, dopo aver annientato i Liguri che popolavano quella zona. Fondarono poi Luni, in Lunigiana, dopo aver sterminato i Liguri Apuani che lì erano precedentemente stanziati.
Intorno al 1800 a.C. avvenne quella che possiamo considerare come una quarta ondata migratoria pelasgica. Un tale Khurythi (Corito) dà il suo nome, ampliandolo, ad uno dei centri fondati da Nana nel 2500 a.C., l’odierna Cortona. Suo figlio Drdny (Dardano), sceso verso Sud, fondò Kora (Cori). Il nome Corito trae origine dalle tribù dei Kurethi di Creta e di Caria.
Secondo la tradizione, Dardano, fede poi ritorno verso Creta, dove conobbe Teukr (Teucro). Insieme i due presero il mare approdando in Mysia, nella Troade, dove rifondarono la città di Tarua (Troia), divenendo capostipiti di due popoli, i Teucri e i Dardani.
Una quinta ondata migratoria pelasgica la si segnala intorno al 1600-1500 a.C. Questa vide la fondazione di altri importanti centri, tra cui Luna (Luni sul Mignone), situata su una collina a forma di falce di luna, lunga circa 1000 metri e larga 300, e la più piccola Kurthenevra (Contenebra), l’odierna S. Giovenale, a cinque chilometri da Luni.
Altre importanti spedizioni, sicuramente più numerose in quanto a numero di uomini, avvennero dal 1400 fino al 1075 a.C., condotte secondo la tradizione da personaggi celebri quali Thyrrhrno e Tarkan di Meonia, Ainea (Enea) dei Dardani di Mysia, e Antenore, con gli Eneti e i Paflagoni.
Roma ancora non esisteva e dovevano passare ancora diversi secoli prima di vederla sorgere come piccolo villaggio sulle sponde del Tevere.

Fonte: http://www.signoraggio.it/i-pelasgi-e-le-origini-remote-della-civilta-in-italia/

Nell'immagine: alcune statuette della Dea Madre Neolitica

lunedì 27 gennaio 2014

Pyrgi, Lamina d’oro con iscrizione punica

Pyrgi, Lamina d’oro con iscrizione punica
di Roberto Casti


Scrittura con dediche alla divinità.
Questa lamina d'oro (dim. 9,2 x 19,3 cm.; sp. 0,5 mm.) con iscrizione votiva in caratteri punici fu scoperta l’8 luglio del 1964 a Santa Severa (antica Pyrgi) nel porto di Caere (Cerveteri), uno dei più importanti scali commerciali del bacino del Mediterraneo tra il VI e il IV secolo a.C.
La lamina, provvista di n. 10 fori per l’infissione a parete o sulla porta del tempio, fu rinvenuta assieme ad altre due lamine in oro con iscrizioni etrusche, rispettivamente di 16 e 9 linee di scrittura.
La presenza di un culto fenicio-punico a Pyrgi e le dediche bilingui alla divinità (Ashtarte – Unial) testimoniano gli stretti rapporti fra Cartaginesi ed Etruschi.

Cronologia: fine VI - inizi V sec. a.C..
Conservata a Roma, Museo Archeologico di Villa Giulia.

Trascrizione:
L1. lrbt l‘štrt ’šr qdš
L2. ’z ’š p‘l w’š ytn
L3. tbry’ wlnš mlk ‘l
L4 kyšry’ byrḥ zbḥ
L5 šmš bmtn’ bbt wbn
L6 tw k ‘štrt ’rš bdy
L7 lmlky šnt šlš 3 by
L8 rḥ krr bym qbr
L9 ’lm wšnt lm’š ’lm
L10 bbty šnt km hkkbm
L11 ’l

Traduzione:
L1 Alla Signora, ad Astarte ( questa/o é) la cella / il santuario / il luogo santo
L2 che ha fatto e che ha offerto
L3 TBRY’ WLNŠ (Tiberio / Thefarie Velianas) re su
L4 KYŠRY’ (Caere), nel mese di ZBḤ ( Zebah / del sacrificio)
L5 ŠMŠ (al Sole) in / come dono nel santuario. E ha costruito
L6 un sacello perché Astarte glielo ha richiesto per sua mano / sua volontà
L7 nell’anno terzo 3 del suo regno nel
L8 mese di KRR ( Kirari), nel giorno del seppellimento
L9 della divinità. E gli anni della statua della divinità
L10 nel suo tempio (siano tanti) anni come le stelle,
L11 queste.

Alcuni riferimenti Bibliografici:

AA.VV., Le lamine di Pyrgi: Tavola rotonda internazionale sulla interpretazione dei testi fenicio ed etrusco di contenuto analogo inscritti su due delle lamine d'oro scoperte nel santuario etrusco di Pyrgi. Roma, 19 Aprile 1968, in Accademia Nazionale dei Lincei, 1970.

M.G. Amadasi Guzzo, Le iscrizioni fenicie e puniche delle colonie in Occidente, Studi Semitici 28, Istituto di Studi del Vicino Oriente, Roma (1967) pp. 158-169.

F. Altheim - R. Stiehl, Die phӧnizische Inschrift aus Pyrgoi, Anatolica I (1967) pp. 87-92.

F. Altheim - R. Stiehl, Die phӧnizische Inschrift aus Pyrgoi, in Die Araber in der alten Welt: Neue Funde Vol. IV, Berlin (1967) pp. 224-233.

S. Battaglini, Le lamine di Pyrgi e le origini etrusche: saggio su la lingua e la preistoria degli Etruschi, Roma (1991).

S. Battaglini, Le lamine di Pyrgi: la bilingue etrusco-fenicia e il problema delle origini etrusche, Roma Il Calamo (2001).

A.I. Charsekin - M.L. Heltzer, Novye nadpisi iz Pyrgi na finikijschom i etrusskom jazykach, in Vestnik Drevnej Istorii, (1965) 3, pp. 108-131.

G. Colonna - M. Pallottino - L. Vlad Borrelli - G. Garbini, Scavi nel Santuario di Pyrgi, in Archeologia Classica 16 (1964) pp. 49-117.

G. Colonna, Il santuario di Pyrgi alla luce delle recenti scoperte in Studi Etruschi 33 (1965) pp. 201-209.

G. Colonna, La donazione Pyrgense di Thefarie Velianas in Archeologia Classica 17 (1965) pp. 286-293.

G. Colonna, Nuovi elementi per la storia del santuario di Pyrgi in Archeologia Classica 18 (1966) pp. 94-95.

G. Colonna - M.Cristofani - G.Garbini, Bibliografia delle pubblicazioni più recenti sulle scoperte di Pyrgi, in Archeologia Classica 18 (1966) pp. 279-282.

G. Colonna, A proposito del primo trattato romano-cartaginese (e della donazione Pyrgense ad Astarte), in G.M. Della Fina (a cura di) La Grande Roma dei Tarquini (2010) pp. 275-303.

M. Cristofani, Sulla paleografia delle iscrizioni etrusche di Pyrgi, «Archeologia Classica» 18, (1966) pp. 85-102.

M. Dahood, Punic hkkbm ’l and Isa. 14, 13, in Or, n.s. 34 (1965) pp. 170-172.

G. Devoto, Considerazioni sulle lamine auree di Pyrgi, in Studi Etruschi 34 (1966) pp. 211-220.

Dupont-Sommer, L’inscription punique récemment découverte à Pyrgi, in Journal Asiatique 252 (1964) pp. 289-302.

J. Ferron, Quelques remarques à propos de l’inscription phénicienne de Pyrgi, in Oriens Antiquus Volume IV (1965) pp. 181-198 e Tav. XXIV.

J. Ferron, Précision supplémentaire relative à la datation contenue dans le texte phénicien de Pyrgi, in OA 5 (1966) pp. 203-206.

J. Ferron, La dédicace à Astarté du roi de Caere, Tibérie Velianas, in Le Muséon, Revue d’études orientales 81 (1968) pp. 523 -546.

J.Ferron, Un traité d’alliance entre Caere et Carthage contemporain des derniers temps de la royauté étrusque à Rome ou l’evenement commémoré par la quasi-bilingue di Pyrgi , in Aufstieg und Nieder gang der rӧmischen Welt, I. Von den Anfӓngen Roms bis zum Ausgang der Republik, 1 ( 1972) pp. 189-216.

J.G. Février, L’inscription punique de Pyrgi in CRAI (con un contributo di Dupont-Sommer) (1965) pp. 9-18.

J.G. Février, Remarques sur l’inscription Punique de Pyrgi, in Oriens Antiquus Volume IV (1965) pp. 175-180.

J.G. Février, A propos du “hieros gamos” de Pyrgi in Journal Asiatique n. 253 (1965) pp. 11-13.

J.A. Fitzmyer, The Phoenician inscription from Pyrgi JAOS 86 (1966) pp. 285-297.

G. Garbini, L’iscrizione punica. Scavi nel Santuario etrusco di Pyrgi. Relazione preliminare della settima campagna, 1964, e scoperta di tre lamine d’oro iscritte in etrusco e punico : Archeologia Classica n. 16 Roma (1964) pp. 66-76 Tav XXXVII.

G. Garbini, Considerazioni sull’iscrizione punica di Pyrgi ( con un contributo di G. Levi Della Vida ), in Oriens Antiquus Volume IV (1965) pp. 35-52.

G. Garbini, Riconsiderando l’iscrizione di Pyrgi, in AION 28 (1968) pp. 220-246.

G. Garbini, Le parole iniziali dell’iscrizione etrusca “A” di Pyrgi, in La Parola del Passato, Rivista di Studi Antichi, 24 (1969) pp. 378-383.

G. Garbini, L'iscrizione di Pyrgi, in Rivista di Studi Fenici 17 (1989) pp. 179-187.

J. Heurgon, The Inscriptions of Pyrgi, in JRS 56 (1966) pp. 1-15. E. Koffmahn, Biblische Zeitschrift 19 (1966) pp. 203-204.

M. Kropp, Versioni indipendenti o traduzioni? Rilettura delle lamine d’oro di Pyrgi, in Paolo Filigheddu (a cura di) Circolazioni Culturali nel Mediterraneo Antico, Atti della sesta giornata Camito-Semitica e Indoeuropea I Convegno internazionale di Linguistica dell’area mediterranea Sassari , 24-27 aprile 1991 Cagliari (1994) pp. 189-196.

A. Morandi, Epigrafia Italica, Italia Centro-Meridionale, S. Severa « L’Erma » di Bretschneider Roma 1982 pp. 30-35. S. Moscati, Italia Punica, Rusconi Milano (1995) pp. 346-351.

S. Moscati, Osservazioni sull’iscrizione fenicio-punica di Pyrgi, in RSO N. 39 (1964) pp. 257-260.

J. Naveh, Lešonenu 30 (1966) pp. 235-236.

A. Neppi Modona, Le lamine auree di Pyrgi, “ Helikon” 7, 1967 pp. 3-26.

A. Neppi Modona, “Queste stelle” o “ stelle di El” nella lamina punica di Pyrgi? in Studi Etruschi 36 pp. 65-66.

P. Nober, Scavi nel santuario etrusco di Pyrgi, in Verbum Domini 43 (1965) pp. 198-210.

K. Olzscha, Die punisch-etruskischen Inschriften von Pyrgi, in Glotta 44, (1966) pp. 60-108.

M. Pallottino, Nuova luce sulla Storia di Roma Dalle Lamine d’oro di Pyrgi, in Studi Romani 13 (1965) pp. 1-13.

M. Pallottino, I frammenti di lamina di bronzo con iscrizione etrusca scoperta a Pyrgi, in Studi Etruschi 34 (1966) pp. 206-209.

A.J. Pfiffig, Uni-Hera-Astarte. Studien zu den Goldblechen von S.Severa/Pyrgi mit etruskischer und punischer inschrift (Osterreichische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Klasse, Denkschriften, 88, 2), Wien (1965) A.J. Pfiffig, Zur interpretation von Zeige 6-9 des punischen Textes von Pyrgi, in Anzeiger der Philosophisch-Historische Klasse, Denkschriften Wissenschaften 102 (1965) pp. 313-328.

A.J. Pfiffig, Weitere Bemerkungen zur interpretation des punisches Textes von Pyrgi, in OA 5 (1966) pp. 207-221.

G. Pugliese Carratelli, Le stelle di Pyrgi, in La Parola del Passato, Rivista di Studi Antichi 20 (1965) pp. 303-305.

S. Ribichini, Melqart nell’iscrizione di Pyrgi?, in Saggi Fenici I, Consiglio Nazionale delle Ricerche. Centro di Studio per la Civiltà Fenicia e Punica, Roma 1975 pp. 41-47.

P.C. Schmitz, The Phoenician Text from the Etruscan Sanctuary at Pyrgi, in JAOS 115 (1995) 559-575.

O. Szemerényi, Linguistic Comments on the Pyrgi Tablets in Studi Micenei ed Egeo-Anatolici 1, (1966) pp. 121-127.

F. Vattioni, L’iscrizione semitica di Pyrgi, in AIUON 15 (1965) pp. 289-297.

K. Wylin, L’iscrizione etrusca A di Pyrgi (Cr 4.4) in Il verbo etrusco. Ricerca morfosintattica delle forme usate in funzione verbale, in Studia Philologica 20 « L’Erma » di Bretschneider, Roma (2000) pp. 265-278.

domenica 26 gennaio 2014

Chi costruì i Nuraghi? Quale era la loro funzione?

Chi costruì i Nuraghi? Quale era la loro funzione?
di Pierluigi Montalbano


Università della terza età di Quartu.
Nell'ambito del corso di archeologia, nell'aula magna al secondo piano, Martedì 28 Gennaio e Giovedì 30 Gennaio, a Quartu, alle ore 17.00, si svolgeranno due lezioni dedicate all'approfondimento sulle motivazioni che spinsero i nuragici a edificare, nella prima metà del II Millennio a.C., una serie di imponenti strutture in pietra che ancora oggi presidiano il paesaggio sardo. Gli appuntamenti rientrano fra le 23 lezioni del corso di Pierluigi Montalbano dedicato alle vicende economiche e sociali che interessarono l'isola nella preistoria. Le argomentazioni saranno accompagnate da immagini proiettate nel maxi-schermo della sala. Il linguaggio discorsivo utilizzato dal docente agevolerà la comprensione di chi si avvicina per la prima volta a questa disciplina umanistica.

sabato 25 gennaio 2014

La fine dell'Età del Bronzo: le cause della caduta dei grandi imperi nel Vicino Oriente.

Le cause della caduta dei grandi imperi in oriente
di Pierluigi Montalbano


Le fonti ufficiali sono scarne sugli avvenimenti riguardanti i popoli del mare, pertanto abbiamo pensato di analizzare un recente documentario realizzato dalla rete televisiva BBC, e diffuso attraverso History Channel, per cercare di fare chiarezza su quel periodo.
I catastrofici avvenimenti negli anni a cavallo del 1200 a.C. causarono una sorta di fine del mondo imperiale. Scomparvero le più grandi civiltà del tempo e migliaia di persone morirono o furono costrette ad abbandonare città e villaggi. Il sistema crollò nel giro di due generazioni, ma ancora non c’è chiarezza sugli eventi che provocarono quel disastro.
Il mondo civilizzato del Bronzo Medio si estendeva dall’Egitto al Mar Nero, con popolazioni dominate da re. Minoici e Micenei costruivano palazzi nelle isole egee, in Grecia e a Creta. Il faraone Ramesse II edificava i suoi templi trasformando il paesaggio egizio. I bellicosi ittiti dominavano l’odierna Turchia e il nord della Siria, mentre i Cananei, antenati dei futuri mercanti delle rotte commerciali navali, controllavano quella che, successivamente, sarà chiamata Terra Santa.
Era un mosaico di regni diversi tra loro per cultura e per struttura sociale. Quando gli archeologi, intorno al 1930, iniziano gli scavi in quest’area, scoprono evidenti tracce di una serie di eventi catastrofici che causarono la distruzione di gran parte delle città e dei palazzi. La devastazione si estende in ogni angolo dell’area, e il periodo del crollo è cronologicamente attestato nei decenni a cavallo del 1200 a.C.
Spariscono i micenei, i minoici, gli ittiti e i cananei, e l’Egitto esce da quel periodo fortemente indebolito. L’epoca di Ramesse II, all’inizio del XIII a.C., è prospera e vengono innalzati edifici fra più belli della storia. Successivamente l’economia, la struttura sociale e la religione si avviano verso il declino. Dopo poche generazioni, durante il regno di Ramesse III e fino all’inizio del XII a.C. si riscontra una forte inflazione, i monumenti diventano più piccoli, e si registrano gravi problemi economici in relazione alla base imponibile perché ampi lembi di terra tassabile sono stati eliminati dai registri catastali.
Dopo un secolo di progresso che vede lo sviluppo della prima scrittura alfabetica a Ugarit poco prima del 1300 a.C. i documenti scritti si interrompono e inizia un’età oscura. Gli egiziani si rivolgono agli Dei con preghiere di supplica alle divinità, mentre in Grecia abbandonano la scrittura. Gli architetti dimenticano come si costruiscono i grandi edifici e le genti che popolano il Vicino Oriente impiegano quasi 4 secoli per uscire da questo blocco culturale. Solo intorno all’800 a.C. gli euboici risollevano la testa dal baratro inaugurando una nuova epoca di navigazioni.
Senza testimonianze scritte gli archeologi non riescono a spiegare le migrazioni di massa risalenti al 1200 a.C. Sull’isola di Creta i mercanti e gli artigiani abbandonano la costa per spostarsi nell’entroterra, fino alle regioni montagnose del centro dell’isola, popolate da contadini e pastori. Nell’istmo settentrionale, pare che nel periodo miceneo non ci fossero insediamenti importanti, ma solo un ridotto numero di piccoli villaggi poco popolati. Nel XII a.C. si assiste a un incremento demografico, ma non è chiara l’origine di queste genti. Le città devastate che si lasciano alle spalle testimoniano che il loro esodo non è stato pacifico.

È difficile determinare le cause degli eventi. Negli scavi si cerca ciò che è andato distrutto: tracce di incendi, cenere, legno bruciato e ossa, ma ancora non si è capito il motivo di questa catastrofe. Forse le cause non vanno cercate fra le macerie dei palazzi, ma nelle montagne che li sovrastano. Alcuni archeologi hanno ripercorso i sentieri che portano sulle vette dell’Egeo, seguendo le tracce lasciate dai sopravvissuti. In precedenza, nelle montagne e valli dell’Egeo pastori e contadini coltivavano orzo, lenticchie e ulivi.

venerdì 24 gennaio 2014

Archeologia. Scrittura neopunica su Meridiana sferica dalla Tripolitania

Esempio di scrittura neopunica su Meridiana sferica dalla Tripolitania
di Roberto Casti


Oggi presentiamo questa bellissima meridiana sferica in pietra calcarea (dim. cm. 35x39x30) con incavo e quadrante solare nella parte superiore su cui sono incisi dodici solchi radiali e iscrizione neopunica incisa nella parte inferiore tra listello e meridiana.
I sec. d.C. Museo di Lepcis (Leptis Magna) Libia.

Trascrizione:
L1 ’YDḤ ’RŠM BN B’LŠLK
L2 HBN’ BTṢ’TM BTM T HPN/T(?) ST

Traduzione:
Arisham figlio di Baalshilek il costruttore ha fatto (installare?) questa (meridiana?) completamente a sue spese.

Bibliografia di riferimento e approfondimenti:

G. Levi della Vida - M. G. Amadasi Guzzo, Iscrizioni puniche della Tripolitania (1927-1967), Monografie di Archeologia Libica - XXII; cat. n. 67, “l’Erma” di Bretschneider, Roma 1987 pp. 100-102 e Tav. XXVIII; cfr. nello stesso volume altra iscrizione incisa su meridiana, anche questa proveniente da Lepcis conservata (forse perduta) al Museo Nazionale di Napoli, N. 11 pp. 36-37.

G.Levi della Vida, Studia oientalia in memoriam Caroli Brockelmann (Wissenschaftliche Zeitschrift der Martin -Luther Universitat, 17), Halle-Wittenberg, 1968, pp. 127-132).

M. Dunand - R. Duru, Oumm el 'Amed , une ville de l'epoque hellénistique aux échelles de Tyr. Paris 1962, p. 79, 110, 185 Tav XXXIX, 1.

J. Fresnel, Journal Asiatique serie IV - 8 1846 pp. 353-354.

A. C. Judas, Lettre relative aux inscriptions phéniciennes de M. Fresnel, in Journal Asiatique serie IV - 8 1846 pp. 568-569.

A. C. Judas, Etude Démonstrative de la Langue Phénicienne et de la Langue Libyque, Friedrich Klincksieck, Tav. 7, Paris 1847.

G. Levi dela Vida, Libya ( già rivista della Tripolitania ) 1 (3) 1927 p. 95.

P. Magnanini, Le iscrizioni fenicie dell'Oriente Testi, Traduzioni, Glossari. - Istituto di Studi del Vicino Oriente, Roma 1973 N. 3 p. 17. Magnanini presenta una terza iscrizione su meridiana del II sec. a.C. spezzata in due frammenti rinvenuti a Oumm el-'Awamid in due momenti diversi; il primo ritrovato da Renan nel 1861 é custodito a Parigi al Museo del Louvre; l'altro ritrovato successivamente da M. Dunand e R. Duru si trova al Museo di Beirut.

E. Renan, Trois inscriptions phéniciennes trouvée à Oumm al - Awamid in Journal Asiatique 1862, Paris pp. 355-380 spec. pp. 378-380.

E. Renan - Ph Berger, Corpus inscriptionum Semiticarum CIS I 9, Paris 1881 sgg.

Paul Schröder, Die phönizische Sprache Entuwurf Eine Grammatik nebst Sprach-und Schriftproben, II Neupunische Inschriften aus Nordafrika (Lept. 3) Halle 1869 p. 64 (ivi ulteriore bibliografia).

giovedì 23 gennaio 2014

Le più antiche architetture di pietra

Le più antiche architetture di pietra
di Pierluigi Montalbano


I monumenti megalitici, realizzati con enormi blocchi di pietra, sono diffusi in tutto il mondo e hanno diverse forme. Hanno in comune la spiccata funzione di segnalazione: verosimilmente gli uomini che li costruirono volevano sottolineare la loro presenza sul territorio, legittimandone così i loro diritti.
Il termine megaliti (dal greco mègas «grande» e lìthos «pietra») è usato dagli archeologi per indicare antiche costruzioni di pietra con forme assai variate: dalle statue di pietra (moai) dell’Isola di Pasqua, il cui peso può superare le 80 tonnellate, alle torri circolari di pietra della Sardegna (nuraghi), fino alla fortezza inca di Sacsahuaman, vicino a Cuzco (Perù), anche essa costruita con enormi massi.
Gli archeologi parlano di monumenti megalitici in senso più stretto per indicare un tipo di struttura architettonica apparso in varie regioni dell’Europa occidentale nel Neolitico, tra il 5000 e il 2500 a.C. Queste costruzioni megalitiche sono generalmente rappresentate da sepolture collettive con una camera a pianta poligonale o rettangolare, a volte con corridoio, note come dolmens e diffuse soprattutto in Francia e nella Penisola Iberica. Abbiamo anche i cosiddetti henges, caratteristici delle Isole Britanniche e costituiti da circoli di pietre erette delimitati da fossati o terrapieni. La funzione di questi monumenti potrebbe essere legata all’osservazione astronomica, che presso le prime comunità di agricoltori aveva grande importanza perché connessa con i cicli agrari.

Veri e propri marcatori territoriali, i monumenti megalitici attestano la volontà di un gruppo etnico di collegarsi con il proprio spazio fisico. L loro costruzione fu possibile solo all’interno di comunità con efficienti strutture socioeconomiche, rette da un’autorità politica in grado di coordinare gli imponenti lavori necessari. Partecipavano alla realizzazione un numero considerevole di individui, che attraverso la cooperazione saldavano i vincoli reciproci e affermavano i valori sociali condivisi. Questo processo deve comunque essere stato lento e graduale: i semplici tumuli con strutture di legno dedicati agli antenati divennero nel tempo ricche sepolture di capi e sacerdoti, depositari di sempre maggiore potere e ricchezza.
Gli archeologi si sono chiesti come gruppi dotati di una tecnologia relativamente semplice siano riusciti a trasportare blocchi di pietra pesanti spesso decine di tonnellate. Gli studi hanno chiarito che i massi venivano trainati con l’ausilio di corde e fatti scivolare su grandi rulli di tronchi di legno che fungevano da ruote. La trazione animale può avere avuto un suo ruolo, tuttavia occorre segnalare che nelle Americhe non c’erano animali di grande taglia e che l’uso della ruota era sconosciuto.
A 24 km dal sito di Teotihuacan (Messico) è stata rinvenuta, nel letto di un torrente, una colossale statua alta 7,1 metri e pesante 130 tonnellate. L’opera, scolpita solo sul lato frontale (quello posteriore era ancorato al masso originario) non fu mai ultimata: i suoi realizzatori si rendettero conto dell’impossibilità di trasportarla e la abbandonarono nella cava.
Stonehenge è forse il più celebre esempio di architettura megalitica. Questo complesso rituale si trova nella pianura di Salisbury (Wiltshire, Gran Bretagna) e fu in uso tra il 3000 e il 1000 a.C. circa. Dei 30 monoliti originariamente presenti se ne sono conservati 17, eretti in un cerchio del diametro di circa 30 m. Per il suo orientamento verso il punto in cui sorge il Sole nel solstizio d’estate, il luogo è stato interpretato come un tempio al culto solare.


mercoledì 22 gennaio 2014

Il battesimo dell'archeologo: il primo scavo

Archeodomani. Il battesimo dell'archeologo: il primo scavo.
Intervista al Dott. Alfredo Guarino
di Elena Calafato.


Nella vita di ogni (futuro) archeologo arriva un momento che amo definire il battesimo della terra, il primo vero scavo dopo anni dedicati alla sola teoria.
Di solito, quel battesimo avviene all'interno degli scavi didattici, organizzati e finanziati dalle varie università al fine, appunto, di consentire agli studenti la messa in pratica delle nozioni apprese, e teoricamente di prepararsi al mondo del lavoro. Nel mio caso, un poco per scelta, un poco per obbligo (il monstrum della burocrazia incide pesantemente sulla carriera universitaria degli studenti italiani), il battesimo è avvenuto al di fuori dell'ambito accademico, e precisamente nello scavo archeologico di Domo, una frazione di Bibbiena, in provincia di Arezzo, organizzato dall'associazione Archeodomani e diretto dal Dottor Alfredo Guarino.
Archeodomani promuove «la valorizzazione del patrimonio culturale nazionale e internazionale», e fra le varie attività portate avanti dal Dottor Lorenzo Dell'Aquila, direttore dell'associazione, e dai suoi collaboratori, figura anche lo scavo di Bibbiena, che ha luogo durante l'estate su quattro turni da una settimana ciascuno.
L'attività di scavo è svolta da volontari, non necessariamente studenti di archeologia, provenienti da ogni parte d'Italia e animati dalla passione e dalla curiosità per il passato.
Ho riflettuto a lungo su quale sarebbe stato il modo migliore per illustrare l'esperienza e comunicare al maggior numero di persone possibile l'entusiasmo e la gioia che in me ha suscitato, e ho scelto di andare direttamente alla fonte, rivolgendo qualche domanda al Dottor Guarino.
Come per ogni bella storia, bisogna cominciare dall'inizio. Quando e come nasce la campagna archeologica di Domo, frazione di Bibbiena?
Un tuffo nel passato. Più o meno nel 2004/2005. Occorre una premessa: sia Lorenzo che io abbiamo un lungo passato di volontariato negli scavi archeologici. Attività svolte in un contesto particolarmente positivo anche per l'associazione che le organizzava. Le caratteristiche fondanti erano la precisione, l'attenzione alla didattica ed alla trasmissione del sapere, nonché il piacere del lavoro condiviso e la vita comune di campo. Personalmente, questo tipo di attività è durata dal 1988 al 2003 (da partecipante a direttore scientifico del cantiere di scavo), anno in cui l'associazione decise di sospendere le attività. Fu a quel punto che, con Lorenzo, cominciammo a progettare lo scavo di Bibbiena. Confluivano varie motivazioni: la volontà di non far dissolvere un'esperienza per noi così bella; la consapevolezza di essere in una fascia di età nella quale era ormai difficile dedicare un mese continuato ad attività di volontariato, unita alla volontà di Archeodomani di strutturare un progetto centrato sulle attività di scavo archeologico. Aggiungerei, a livello personale, che, avendo a lungo praticato i cantieri archeologici da studioso (scavi universitari e del CNR), da libero professionista e da volontario, considero senza dubbio l'esperienza toscana di Bibbiena come una delle più belle e soddisfacenti, essendo centrata sulla ricerca pura, su un solido impianto didattico e sul desiderio di una ricaduta positiva per il territorio; priva, quindi, da un lato delle distorsioni e della fretta dei cantieri strettamente "lavorativi" (limitati e pressati dalle esigenze dei lavori pubblici che li generano) e, dall'altro, da una certa "astrattezza" e da una certa difficoltà di trasmissione del sapere che, spesso, caratterizzano i cantieri universitari.
Sotto l'egida di quali enti e associazioni si è sviluppata la campagna?
La strutturazione del progetto e lo spirito che lo anima è esclusivamente di Archeodomani. Abbiamo esaminato varie possibilità di localizzazione, cercando un distretto in cui la nostra ricerca archeologica potesse costituire un sensibile valore aggiunto per il territorio. Deciso alla fine per la provincia di Arezzo e per il Casentino, l'abbiamo proposto alla Soprintendenza competente. L'apprezzamento e l'appoggio ricevuto, dopo - giustamente - una prima fase di osservazione, è stato pieno e convinto, così come lo è stato quello del Comune di Bibbiena, nel cui territorio ricade lo scavo. Paradossalmente, non abbiamo mai fatto richiesta specifica per la villa romana di Domo, ma ponemmo due punti fermi. In primo luogo, un sito la cui indagine fosse un'acquisizione significativa per la comunità e il territorio e, soprattutto, una diversificazione della ricerca in favore di settori meno battuti. Conseguentemente, appurato che il Casentino ha una potente vocazione medioevale (la Verna di San Francesco, i conti Guidi, Dante, pievi, castelli, ecc.), abbiamo chiesto di potere indagare un sito di età classica, romano o preromano.
In secondo luogo, abbiamo chiesto di poter svolgere le indagini in un'area le cui caratteristiche topografiche e morfologiche consentissero una possibile futura musealizzazione e creazione di un parco archeologico di più o meno facile raggiungibilità, tale da poter essere inserito nei circuiti già esistenti.
Ed ora la fatidica domanda che fa sussultare ogni archeologo: cosa cercate esattamente a Bibbiena?
Per quanto si conosce dell'età romana in Casentino, la villa di Domo è considerata tra i siti principali – se non il maggiore – di quell'intero periodo. La stima che presuppone questo affido non può che farci piacere ed essere di ulteriore stimolo ad un'indagine corretta e approfondita. Dal punto di vista archeologico, l'ipotesi di lavoro è quella della villa romana, che avrebbe quindi una parte residenziale ed una produttiva. Attualmente abbiamo indagato il complesso termale, che è una sezione della parte residenziale. Gli ambienti noti arrivano ad una estensione di 30 m., ciò dà un'idea del calibro di questo grande insediamento. Le indagini future mirano alla definizione dei quartieri residenziali e all'individuazione della parte produttiva e della presumibilmente vicina necropoli. Sono da chiarire anche le vicissitudini costruttive e funzionali, vista l'ormai certezza che, nella lunga vita del sito, le terme siano diventate alla fine parte del quartiere produttivo grazie all'impianto di fornaci.
Aggiungerei che scarsi ma ricorrenti frammenti ceramici dall'area appartengono ad un periodo precedente a quello romano, e ciò testimonierebbe la presenza di una qualche struttura etrusca nelle immediate vicinanze, al momento attuale del tutto sconosciuta. Ma l'aspettativa principale, che viene soddisfatta ed integrata di anno in anno, è la progressiva scoperta e conoscenza di un'importante e monumentale struttura antica che, vicinissima al centro abitato attuale e collegata abbastanza bene ad esso, potrebbe facilmente diventare un sito visitabile, ulteriore risorsa culturale del territorio.
Come si svolge la vita nello scavo? E al di fuori?
Considerata la consistente percentuale di persone alla prima esperienza, la giornata tipo vede lo stesso numero di ore lavorative di un "normale" cantiere (è bene stabilire buone abitudini) ma con pause appena più lunghe (le stesse 8 ore lavorative, ma con una pausa di 15 minuti a metà mattina ed una pausa pranzo, che si svolge sullo scavo, di poco più di un'ora rispetto alla canonica singola di stacco). Il cantiere è suddiviso in saggi, ognuno dei quali affidato a un responsabile di area che guida una squadra di 4/8 persone.
I partecipanti vengono distribuiti nelle varie squadre. Per motivi di continuità, la composizione delle squadre ed il loro punto di intervento, tranne rarissimi casi dettati da esigenze di scavo, rimane tale per tutta la durata del modulo settimanale. Si alloggia in una scuola messa a disposizione dal comune e le aule sono attrezzate con letti e brande. Il pomeriggio si procede al lavaggio, siglaggio ed analisi dei materiali rinvenuti durante la giornata. Sono previste delle lezioni, parte svolte sullo scavo, parte pomeridiane. Si fa in modo da lasciare del tempo libero prima della cena, che si svolge in un ristorante convenzionato. Le serate sono libere, tra passeggiate nel paese e quattro chiacchiere in gruppo. Ben presto, la magia del lavoro condiviso tende a creare forti legami tra le persone, e la dimensione umana del gruppo che viene a crearsi ogni anno è uno degli aspetti più belli di questo tipo di esperienza.
Il lavoro, durante la campagna, è svolto prevalentemente da volontari, di tutte le età e provenienti da ogni parte d'Italia. Cosa serve per fare un buon lavoro sullo scavo?
Le persone che si iscrivono al nostro scavo sono accomunate dal desiderio di percepire, assaggiare, imparare. Questo desiderio è legato ad una sfera fonte di evocazione e commozione quale è quella dell'archeologia, dello studio di un mondo passato, da cui proveniamo e di cui abbiamo solo frammenti, che tuttavia possono, però, ancora parlarci. Questo è uno stimolo potente. Un cardine della nostra attività è cercare di soddisfare questa richiesta nel miglior modo possibile. In base ad una precisa scelta metodologica, si è preferito ridurre al minimo i momenti di teoria pura - utili a rinfrescare i principi metodologici di chi ha studiato ma non praticato lo scavo ed a creare un'ossatura di metodo in chi ne è del tutto a digiuno - cosicché la settimana tipo prevede 4 lezioni frontali (il sito, principi di stratigrafia archeologica, il disegno e la fotografia, la scheda US), il grosso dell'aspetto didattico è affidato al lavoro quotidiano ed alla cura minuziosa, in tal senso, dei responsabili e della direzione del campo.
I responsabili di area hanno le competenze tecniche e le capacità didattiche per garantire il corretto svolgimento dello scavo e dell'apprendimento. Le squadre stesse sono strutturate in maniera tale che, oltre al responsabile, vi siano partecipanti, per così dire, "anziani", la cui esperienza di precedenti campagne costituisce una osmosi quotidiana per il partecipante alla prima esperienza. Due i principi basilari: tutti devono essere consapevoli di ciò che stanno facendo; tutti possono fare tutto.
Ogni aspetto dello scavo viene spiegato bene durante il suo svolgersi e acquisito grazie all'immediata attuazione pratica: scelta degli attrezzi e loro tecnica di utilizzo, organizzazione dei fronti di scavo, evidenziazione degli strati, gestione del ritmo lavorativo, programma di intervento, strategia di intervento, etc. In generale, si rifiuta l'idea di avere "esecutori", in favore di persone che abbiano il più chiaro possibile cosa si sta facendo, come e perché. Il “tutti possono fare tutto” è ovviamente riferito al delicato settore della documentazione di scavo.
Nonostante i molti anni di esperienza continuo ad essere sbalordito dal troppo frequente stupore di tantissimi partecipanti che hanno già qualche esperienza di scavo fatta altrove: «Possiamo provare a disegnare? A fare una scheda US?». Sì, potete. Anzi, dal nostro punto di vista, poiché forse sarà il vostro lavoro, dovete.
All'atto pratico i vari e delicati aspetti della documentazione di scavo, ovvero disegno, fotografia, redazioni di schede US (una sorta di complessa "carta d'identità" di ogni singolo elemento dello scavo), diario di scavo, etc. vengono effettuati dai partecipanti stessi, seguiti e supervisionati dai loro responsabili per garantire un rigoroso risultato finale.
Alla fine di un modulo, ogni partecipante avrà ascoltato lezioni e scavato, ma, soprattutto, avrà contribuito a produrre la documentazione dello scavo stesso. Senza ciò, non vi è consapevolezza vera del metodo, della sua difficoltà, ma anche del poterne venire a capo, del poter iniziare a strutturare un proprio sapere, una propria competenza. Certo, questo dà origine ad un ritmo più lento del lavoro (anche se difficilmente chi è alle prime esperienze lo percepisce come tale!) se rapportato ai cantieri "lavorativi" (ma non rispetto a quelli universitari veramente didattici), ma credo che questo sia un prezzo che è assolutamente giusto pagare: un cantiere in cui un elite ragiona e dà ordini che una massa esegue è senza dubbio più veloce, ma non è più un luogo in cui si impara, o anche, più semplicemente, in cui si stia bene.
È necessario essere archeologi?
Assolutamente no. La maggioranza dei nostri partecipanti è costituita da studenti che stanno acquisendo il metodo, ma vi è una consistente minoranza di persone che hanno altri percorsi e che si iscrivono al campo per curiosità e passione: studenti di altre materie (scienze, filosofia, astronomia, etc), impiegati, professionisti, etc. In fondo, in termini di scavo, vi è meno differenza di quanto possa sembrare (le nostre attività sono sempre strutturate per accogliere chi non ha esperienza di scavo, sia esso uno studente o un amatore), e la passione accomuna tutti. Personalmente, ascolto sempre con curiosità il punto di vista di una persona non formata, capace spesso di una visione “atipica” e quindi interessante. In generale, considero questa screziatura umana dei partecipanti una delle ricchezze di questo tipo di esperienza.
La campagna archeologica di Bibbiena è un perfetto esempio di come ciascuno di noi possa contribuire, nel suo piccolo, a scoprire e difendere il nostro patrimonio archeologico e culturale.
Lo Stato fa abbastanza per incentivare e diffondere questo genere di attività? Il mondo accademico e quello dei professionisti scoraggiano in qualche modo questo rapporto più diretto con l'archeologia nei “non addetti ai lavori”?
Antico problema.
La risposta è ovviamente un «no» secco, ma questo ha a che fare con vecchi problemi dell'archeologia italiana. Troppo lungo rispondere, e probabilmente fuori tema, ma in estrema sintesi, credo vi siano due filoni. In primo luogo l'archeologia italiana, intesa come tradizione di studio, ha radici antiche ed un livello di eccellenza mondiale, ma, credo, anche una parzialmente strutturale vocazione elitaria che porta a volte ad atteggiamenti "aristocratici" per soli addetti.
In secondo luogo, mentre a livello di Soprintendenze vedo mediamente un cercare di fare il meglio possibile in condizioni disperanti, a livello di politica statale non vedo nulla. Nulla di lontanamente adeguato al patrimonio italiano. Da archeologo ne faccio un discorso di passione, e da cittadino di dettami costituzionali, ma anche volendo solo rimanere all'utile, un serio investimento, pluriennale, nei beni culturali, li renderebbe una solida risorsa per l'Italia.
Per concludere: è importante e opportuno che il maggior numero di persone possibile tocchi con mano e intenda concretamente cos'è un bene archeologico e quanto sia faticoso scoprirlo e difenderlo.
Cosa si potrebbe dire per invitare i nostri lettori, ad esempio, a partecipare ad Archeodomani?
In primo luogo, da Italiani, viviamo in uno dei paesi più ricchi di segni tangibili del passato, al punto tale da non riuscire quasi più a vederne l'eccezionalità. Toccare con mano non è difficile, quasi tutti noi potremmo riuscire a farlo domani, in quasi ogni punto dell'Italia, senza troppa difficoltà. Però partecipare ad uno scavo, come giustamente dici, aggiunge quella concretezza, quella consapevolezza che normalmente manca e che il brivido e l'emozione della scoperta consolida.
Aggiungerei – e solo in apparenza può sembrare una banalità – la semplice considerazione che è possibile farlo, è un'esperienza alla portata di tutti, e che, credimi, piace a tutti. Molti sono commossi dal monumento o dal documentario o dalla vetrina del museo, ma quella sensazione può essere vissuta in prima persona, sul campo, e può essere vissuta come parte attiva e non solo come fruitore passivo.
È una sorta di illustre prerogativa dell'archeologia: il suo piacere a praticamente ogni interlocutore incontrato. Ma, a riguardo, ognuno ha il suo percorso personale, i suoi motivi. Io ci ho pensato spesso. Tutti sono affascinati dall'archeologia, ma mi ha sempre colpito quanto incidesse, o sembrasse incidere, il sentimento del lontano, dell'esotico, del diverso.
Per quanto mi riguarda, è stato quasi sempre l'opposto. Mi ha sempre incantato quanto, al di là dello spazio e del tempo, ci fosse di persistente, di costante. Come, in fondo, nel bene e nel male, tutto si ricongiungesse sempre a ciò che chiamiamo Uomo. Kipling ha scritto: «Tutto ciò che è stato, sarà. Tutto ciò che sarà, già è stato. Ed il futuro ignoto, non è altro che un anno dimenticato che ritorna».
Ecco. Per me archeologia è indagare anni dimenticati, cercare il futuro. Ai miei studenti ho raccontato spesso della procedura della mummificazione in Egitto. Raccontavo che l'ultima cerimonia, alla fine, si chiamavaL'apertura della bocca: il sacerdote batteva con un bastoncino sulle labbra del morto, dicendogli: «Ora puoi di nuovo parlare». Fino a quando la mummia si sarebbe mantenuta integra. Dicevo loro che mi sembrava una bella metafora del lavoro dell'archeologo. Che non siamo immortali, né possiamo dare l'immortalità, ma avevamo la stessa possibilità: prendere una cosa morta, ridargli per un po' la parola, rallentare per un breve tempo l'antica necessità di morire, che accomuna tutte le cose.
Lo scavo è una parte importante dell'archeologia. E archeologia, probabilmente, prima ancora che scoprire, è in qualche modo ricordare. Sforzarsi di non dimenticare è forse una delle più nobili esperienze che si possa tentare.
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Ringrazio di cuore il Dottor Guarino per le esaurienti risposte, ma anche per la cortesia, la passione e l'amore che mette nel suo lavoro, ingredienti fondamentali – insieme alla professionalità, all'impegno e all'attenzione per la didattica – nel rendere la campagna archeologica di Bibbiena un'esperienza altamente formativa, non solo dal punto di vista strettamente pratico, ma anche dal punto di vista umano.
L'archeologia è una disciplina, un'attività, spesso considerata “per sognatori e romantici”, come mi è capitato più volte di sentire. In realtà, non c'è niente di più concreto che avere le mani indolenzite per l'uso del piccone e della pala, e i vestiti sporchi di terra. Non c'è niente di più concreto che raccogliere, con ogni cura e attenzione, i cocci di un vaso di secoli fa, riportare alla luce i muri di una casa o i pavimenti a mosaico di un impianto termale.
Riscoprire e difendere il frammento più piccolo di ceramica così come l'edificio più monumentale non è altro che un modo per riannodare le fila della storia e stringere virtualmente la mano all'umanità che ci ha preceduto. Tutto questo non deve, o almeno non dovrebbe, essere riservato ai soli professionisti (di cui non voglio sminuire la professionalità, fondamentale in qualsiasi campo) piuttosto alla portata di tutti, perché nel passato troviamo le fondamenta del nostro presente e le risposte agli interrogativi di oggi e di domani.


Fonte: http://www.kultural.eu

martedì 21 gennaio 2014

I Troiani o Iliensi in Sardegna

I Troiani o Iliensi in Sardegna
di Massimo Pittau


Sotto la dinastia dei Mermnadi il dominio dei Lidi si estese in gran parte della penisola anatolica, compresa la Troade con la sua capitale Troia od Ilio. Pertanto è logico ritenere che l’arrivo in Sardegna anche di gruppi di Troiani o Iliensi, dopo la distruzione della loro città da parte dei Greci, di cui ci sono state tramandate notizie da alcuni autori antichi, sia avvenuto in concomitanza – che non vuol dire “in compagnia” – con le varie ondate dei Lidi emigranti in Sardegna.
L’arrivo in Sardegna di profughi da Troia dopo la sua distruzione avvenuta, secondo Eratostene, nel 1184 a. C., è esplicitamente affermata dallo scrittore greco Pausania (X, 17, 6-7):

«Dopo la distruzione di Ilio, dei Troiani anche altri fuggirono oltre quelli salvatisi con Enea. Di questi una parte sbattuta dalle tempeste in Sardegna si mischiarono coi Greci che vi si erano insediati prima. Il timore impedì che i barbari [= i Protosardi] muovessero battaglia all’elemento greco e ai Troiani; e infatti essi erano uguali per l’intera potenza militare e il fiume Torso [= Tirso] scorreva in mezzo ad essi per l’intera regione e impediva agli uni e agli altri di passare al di là. Dopo molti anni i Libi [= i Cartaginesi] passarono di nuovo nell’isola con una spedizione maggiore e mossero guerra all’elemento greco. Questo rischiò di essere distrutto del tutto o ne restò un piccolo contingente, mentre i Troiani si rifugiarono nelle zone alte dell’isola e avendo occupato le montagne inaccessibili per le cime e i dirupi, mantengono ancora fino al presente il nome di Iliei»\1\.

Questa importante notizia di Pausania relativa all’arrivo di Iliei o Troiani in Sardegna è confermata da un frammento di Sallustio: «Dopo la distruzione della città di Troia infatti molti occuparono terre diverse ..... alcuni la Sardegna». Ed è confermata da un passo di Silio Italico: «Affluirono [in Sardegna] anche i Teucri [= Troiani] dispersi nel mare dopo la distruzione di Pergamo [= Troia] e furono costretti a porvi sede»\2\.
È da precisare che il popolo che Pausania chiama Ilieĩs, gli autori latini lo chiamano Ilienses; che è un etnico che in latino indicava sia «gli abitanti di Ilio o Troia», sia il citato popolo della Sardegna; si vedano ad esempio, Livio, Plinio, Solino, Ulpiano e Vitruvio\3\.
La notizia, fornita dai tre citati autori antichi, della presenza dei Troiani o Iliei o Iliensi nella Sardegna antica è egregiamente confermata in primo luogo da alcune corrispondenze di carattere culturale, che sono state già segnalate dagli archeologi: vasellame ed armi di epoca nuragica corrispondenti ad altri trovati a Troia\4\, planimetria di due templi a mégarhon, doppiamente in antis, del villaggio nuragico di Serra ‘e Orrjos di Dorgali e di quella della Domu de Orgía di Esterzili, uguale alla planimetria di templi di Troia\5\.
In secondo luogo quella notizia è confermata da alcune corrispondenze linguistiche, dato che la radice del nome degli antichi Ilieĩs o Ilienses probabilmente trova riscontro in alcuni toponimi della Sardegna centrale e montana: Ilalà (Tonara), Iliái (Olzai, Villagrande Strisaili), Ilié (Baunei), Iliolái, Iliolè, Iliolíe (Orgosolo), Ilole (Urzulei), Ilune (Dorgali).
Secondo lo stesso Pausania, gli Iliei (e pure i Còrsi della Gallura), pressati dai Cartaginesi finirono per rifugiarsi nelle zone alte ed aspre delle montagne, dove riuscirono a salvare la loro indipendenza, ma finirono pure per inselvatichirsi, come dice pure il soprannome che in epoca successiva si videro appioppato, quello di Barbaricini o «piccoli Barbari»\6\. Ma probabilmente essi mantengono tuttora qualche tratto della loro antica nobiltà ....
Oltre a tutto ciò, c'è da precisare che secondo Silio Italico (XII, 344) Hampsicora, l’eroe della resistenza dei Sardi ai Romani, si vantava di essere di origine Iliaca o Troiana (ortum Iliaca iactans ab origine nomen) e per questo esatto motivo si spiega perché prima dello scontro coi Romani egli si fosse recato per chiedere aiuti dai consanguinei Iliensi. Inoltre c’è anche da precisare che pure il suo nome è di origine egeo-anatolica, cioè “tirrenica” o “pelasgica”, dato che esso si connette chiaramente coi nomi dei tre filosofi, Anassagora, Protagora e Pitagora e poi di Aristagora, personaggio di spicco di Mileto\7\, tre oriundi della Ionia (Anaxagóras di Clazomene, Pythagóras di Samo, Aristagóras di Mileto), il quarto Prōtagóras di Abdera, nella vicina Tracia\8\.
Infine ritengo opportuno segnalare e sottolineare che non deve essere affatto casuale che alla presenza in Sardegna in coppia dei Lidi (= Sardi-Nuragici o Sardiani) e dei Troiani, corrisponda nel Lazio la più nota ma analoga presenza in coppia dei Lidi (= Etruschi) e dei Troiani dell’Eneide di Virgilio.



Note
\1\ I “barbari” che abitavano a Sud del Tirso quasi certamente erano quelli che avevano il loro centro principale a Sardara, che con grande probabilità significa appunto “Sardi”, al plurale. Invece il contingente di Greci salvatosi probabilmente era quello del centro abitato di Ogrylē, che Pausania (X, 17, 5) dice essere stata fondata dagli Ateniesi in Sardegna e che a me sembra possibile, in virtù della consonanza fonetica, ricostruire e identificare con Gourhoulìs néa, «Cuglieri» (TSSO 801).
La spedizione dei Cartaginesi di cui parla Pausania è quella di Asdrubale e Amilcare, spedizione “maggiore” di quella precedente di Malco, che aveva subito una grave sconfitta da parte dei Sardi.
\2\ Sallustio, Historiarum reliquiae, II, frg. 8: Multi enim post excidium Troiae urbis diversa tenuerunt ... alii Sardiniam secundum Sallustium (in Servio, ad Aen., I 601); Silio Italico, Punica, XII, 361-362: affluxere etiam et sedes posuere coactas / dispersi pelago post eruta Pergama Teucri.
\3\ Livio, XL, 19, 6; 34, 13; XLI, 6, 5; 12, 15; Plinio Nat. Hist., III, 7, 85; Solino, Collectanea, IV, 2; Ulpiano, Dig., L, 1, 1, 2; Vitruvio, VIII, 3, 14.
Tengo a precisare che io sono contrario a connettere, dal punto di vista storico e da quello linguistico, gli Iliensi o Iliei con Iolao, di cui al § 2 e Appendice 1ª.
\4\ Cfr. Schliemann H., Atlas des antiq. Troyen., tav. XL, asce num. 1224, 1537; bipenne num. 1535.
\5\ Cfr. Pais E., Sardegna prima del dominio romano, in «Atti della R. Accademia dei Lincei», VII, 1880-1881, pg. 347; Taramelli A., in «Monumenti Antichi dei Licei», XXV (1908), pgg. 70-71; Pallottino M., L’origine degli Etruschi, Roma 1947, pg. 99, tav. VIII, fig. 13; Contu E., La Sardegna nell’età nuragica, in Popoli e Civiltà dell'Italia antica, I-VIII, a cura di Aldo Prosdocimi, Roma 1974..., III, pg. 170.
\6\ Cfr. Plinio, Nat. Hist., III, 84.
\7\ Personaggio che Erodoto (V, 124) cita come colui che nel 498 a. C. aveva consigliato agli Ioni dell’Asia Minore di andare a fondare una colonia in Sardegna (StSN §§ 44, 71).
\8\ Pittau M., Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama, I ediz. 2008, II ediz. 2009, Sassari, EDES (Editrice Democratica Sarda), Appendice «Ampsicora era sardo non cartaginese».***

***Estratto dall'opera di Massimo Pittau, Il dominio sui mari dei Popoli Tirreni - (Sardi-Nuragici Pelasgi Etruschi), e-book pubblicato dalla casa editrice «Ipazia Books» (wwww.ipazia books.com).

lunedì 20 gennaio 2014

Etruschi, Cartaginesi e Greci: La Battaglia di Alalia o del Mare Sardo

Etruschi, Cartaginesi e Greci. La Battaglia di Alalia o del Mare Sardo

Erodoto, storico della Grecia antica, fu uno dei più importanti documentaristi dell’epoca ellenistica; assiduo viaggiatore, dobbiamo a lui molti scritti che riportano con minuzia gli eventi passati. In particolar modo troviamo, tra i documenti arrivati fino ad oggi, numerose spiegazioni sull’arrivo dei Persiani in Grecia. Tramite Storie (scritto tra il 440 a.C. e il 429 a.C.), uno dei primi trattati considerato a livello storiografico, il “padre della storia”, ha riportato con estrema accuratezza, grazie al suo peregrinare, storie di battaglie, descrizioni di popoli e Paesi.
Tra i suoi scritti troviamo riferimenti alla battaglia svoltasi ad Alalia (1), emporio coloniale (2) stanziato tra la Corsica e la Sardegna, snodo d’importanti attività mercantili. Ulteriori notizie e documenti sulla battaglia navale le abbiamo da Mazzarino (3) e dallo storico romano Giustino (4).
La città di Focea (5) sorse nell’ VIII secolo a.C. nella Ionia (l’attuale Turchia) grazie allo stanziarsi di coloni venuti dall’Eritrea (o forse Eretria, vedi nota 10) (la città di Eubea nell’attuale Grecia) e da Teos (antica città dell’Asia Minore). I Focei, o più comunemente Focesi, erano un popolo molto avvezzo al commercio e allo spostamento navale; molte delle colonie della Magna Grecia furono fondate da loro, probabilmente sorte a causa dell’imperversare di Ciro II detto Il Grande che con i suoi Persiani li sconfisse ripetutamente (6).
I Focei furono i primi ad utilizzare delle navi da guerra per trasportare le merci di scambio via mare (Erodoto; I, 163): le navi mercantili, troppo pesanti, venivano dirottate dai venti, quindi dovevano obbligatoriamente seguire lo stesso percorso, mentre le navi focee, le pentecontere (7), erano più agili e leggere e sarebbero potute arrivare fino all’Oceano Atlantico.
La talassocrazia focea, periodo di maggior splendore, si ha dal VII al VI secolo a.C., fase in cui furono fondate numerose colonie, tra cui spiccano l’attuale città di Marsiglia (Massilia nel 600 a.C.) e l’importante sito archeologico di Elea (nel 545 a.C.). Erodoto non riporta il motivo per cui i Focei intrapresero la via marittima per espandersi, anche se la loro abilità nel commercio e la loro propensione alla pirateria, spesso praticata dagli stessi, sono i motivi più evidenti.
L’allontanamento dalla Ionia da parte dei Focei, per far fronte all’espansione persiana di Ciro II, portò il popolo ellenico a fondare una città nei mari d’occidente. L’emporio coloniale di Alalia, che data la sua creazione tra il 565 a.C. e il 563 a.C., venne scelto per essere rifondato ed espanso per crearne una città (545 a.C.).
Tramite un documento riportatoci, abbiamo la testimonianza di tale rifondazione:
“Alalia non è ancora una città nel pieno senso del termine; essa non lo diventerà se non quando i Focei, in fuga dall’Asia Minore, vi trasferiranno la loro patria e i suoi culti, fonderanno dei santuari, cioè l’atto essenziale e necessario di ogni fondazione”.
(Vallet e Villard, Velia e i Focei in Occidente, p. 183)
In seguito a questa importante rifondazione, che vide un massiccio spostamento di risorse e genti mai visto prima, i Focei cominciarono il loro periodo di pirateria per accrescere il loro agio economico.
Gli Etruschi e i Cartaginesi non hanno rilevanti rapporti nel periodo in cui i Focei imperversavano nelle zone ioniche. Fu proprio il loro avvento nella zona tirrenica che avvicinò i due popoli. La civiltà etrusca ha inizio nel X secolo a.C., due secoli prima della comparsa dei Focei, stanziatasi ed espansa successivamente nella parte occidentale dell’Italia. I Cartaginesi invece, di poco precedenti ai Focei, videro la luce nel 814 a.C. impadronendosi dell’area nordafricana dell’attuale città di Tunisi.
Sia gli Etruschi che i Cartaginesi, toccarono la massima espansione proprio nel periodo in cui i Focei giunsero nel Mare Tirreno, creando diversi empori coloniali che favorirono molto le attività commerciali soprattutto in Etruria. Gli Etruschi, avevano sviluppato una nuova rotta marittima che portava ad incrementare il commercio, fino ad arrivare a contatti diretti con Atene, l’Attica e l’Egeo, passando per il Mare Adriatico.
I Cartaginesi invece, nel periodo antistante alla battaglia, avevano modificato il loro approccio coloniale a causa dell’arrivo dei Focei, più avvezzi all’insediamento che al dialogo commerciale. La politica di “colonialismo informale”, che ha come base il rapporto commerciale con i vari Paesi, subì un repentino cambiamento, passando a quel “colonialismo riluttante” proprio dei coloni greci, fondato sulla stabilizzazione e lo sfruttamento delle zone occupate.
Ancora però l’incrinarsi dei rapporti tra i tre Paesi non era ancora sufficientemente instabile da poter portare ad una guerra. A causa di Ciro II, i Focei, dovettero fuggire e creare una zona di base che potesse permettere loro di rifiorire. Fu proprio l’emporio coloniale di Alalia ad essere adibito a tal guisa; divenuto ufficialmente città focea, fu la base per la rifondazione e l’accrescimento della popolazione.
Secondo Erodoto (Storie; I, 166) i rapporti fin’ora normali tra i tre popoli vennero messi in discussione dagli stessi Focei che, ansiosi di ristabilire la loro egemonia, cominciarono ad intraprendere atti di pirateria e razzie nei territori di Sardegna ed Etruria, ed in generale nell’area Tirrenica.
Cartaginesi ed Etruschi, poiché avevano forte interesse nella zona del Mare Tirreno, decisero in seguito di allearsi per placare l’avanzata e la distruzione del popolo foceo. Proprio questa irruzione nelle tratte commerciali tirreniche, destabilizzò l’idea di un commercio solido anche nell’Ellesponto da parte degli Etruschi e ridusse di molto le tratte commerciali utilizzate dai Cartaginesi. Fu la simmachia (8) tra i due popoli che portò, qualche anno dopo, alla battaglia navale di Alalia, primo e ultimo importante scontro tra il popolo foceo e la coalizione punico-etrusca.
La battaglia di Alalia, che la storiografia data tra il 541 a.C. e il 535 a.C. (anche se si propende maggiormente per la datazione più vicina a noi), non ha molte fonti documentarie. Si sa solamente che durante la guerra navale, per lo schieramento Foceo erano presenti 60 pentecontere, mentre per la coalizione punico-etrusca erano state satbilite 120 navi da guerra, equamente divise tra i due popoli.
Da Erodoto abbiamo la maggior parte delle informazioni sulla battaglia; informazioni che assegnano la vittoria ai profughi della Ionia, seppur con importanti perdite. “Vittoria cadmea”9 la definisce lo storico, che vede dalla parte della coalizione la perdita quasi totale delle navi schierate all’inizio, anche se non si conosce il numero esatto, mentre tra i Focei che resistettero all’assalto sopravvissero solo 20 delle 60 pentecontere, ma queste ultime non erano più utilizzabili per i futuri scontri.
I sopravvissuti Focei fecero ritorno ad Alalia per prepararsi all’avvento di nuovi scenari marittimi che sarebbero giunti da lì a breve. Gli Etruschi e i Cartaginesi riuscirono a recuperare i superstiti Focei delle navi affondate. Successivamente i prigionieri vennero divisi tra le due fazioni; i ceretani, nella città di Agylla (l’attuale Cerveteri), ebbero l’ardire di lapidare pubblicamente quelli che riportarono come prigionieri.
Nonostante la vittoria ottenuta contro la coalizione, la battaglia di Alalia fu uno scontro sfavorevole ai Focei che videro le zone tirreniche in mano ai nemici. Infatti i greci, di ritorno ad Alalia, decisero, a causa delle ingenti perdite e delle forze punico-etrusche non ancora esaurite, di caricare sulle 20 navi rimaste donne e bambini e di riprendere il mare in direzione dell’Enotria, nel sud dell’Italia, a Reggio, dove fondarono il già citato sito di Elea nella parte lucano-tirrenica, grazie al benestare di Posidonia, città che aveva l’allora supremazia nel territorio e che aveva interessi contro Etruschi e punici.
Gli Etruschi ebbero il controllo del Tirreno settentrionale per garantire all’Etruria e alla conquistata Corsica orientale la protezione necessaria, successivamente ai patti stipulati con i punici; mentre i Cartaginesi ebbero libera egemonia sui territori della Sardegna, questo previa la resa di quei popoli minori abitanti le zone sarde, che mostrarono una strenua resistenza. Oltre alla disfatta dei Focei, nonostante la loro vittoria ad Alalia, l’egemonia greca sulle zone tirreniche venne ridimensionata di molto e l’espansione coloniale subì una sorta di stallo che durò anni, provocando un livellamento delle forze greche nell’area italica.

Note
1: la battaglia di Alalia è conosciuta a molti anche con il nome di battaglia del Mare Sardonio, ma ottiene anche altri due epiteti meno ricorrenti nelle opere letterarie: la battaglia del Mare Sardo e la battaglia del Mare Corso. Tutti e tre questi nominativi secondari derivano dalla vicinanza con le coste corse e sarde.
2: l’emporio è un fulcro commerciale, un polo economico per numerose aree geografiche. Solitamente questo centro di attività mercantili è solo un piccolo snodo da non potersi considerare una vera e propria cittadina.
3: Santo Mazzarino è stato uno storico italiano del 1900. Appassionato di storia antica decifrò i documenti antichi traducendoli con un occhio diverso, grazie alla sua rielaborazione del pensiero storico classico volta alla visione diversa dei documenti tramandati dagli storici.
4: Marco Giuniano Giustino, vissuto tra il II e il III secolo d.C. nel periodo degli Antonini, scrisse l’Historiarum Philippicarum T. Pompeii Trogi Libri XLIV, epitome molto confusa a livello storico, ma alquanto interessante a livello aneddotico.
5: l’etimologia della parola deriva probabilmente da una regione della Grecia Centrale, la Focide, da cui provenivano i coloni che la fondarono, ma ha anche una diversa valenza; pare infatti che il simbolo della città sia la foca, animale da cui prende appunto il nome.
6: Arpago, comandante persiano, facente parte delle file di Ciro II re di Persia, prese d’assalto le mura di Focea. Arpago propose loro la resa e i Focei chiesero una giornata di tempo per la decisione. Il giorno dopo i persiani entrarono nella città deserta; nella notte i Focei avevano caricato tutte le loro navi con i viveri disponibili e tutta la popolazione si diresse verso Alalia.
7: pentecontera o pentecontero è una nave da guerra a diverso andamento. Può procedere sia con la propulsione a vela, sia con quella a remi. Veniva usata dai focei con entrambi i metodi contemporaneamente in modo tale da coprire distanze maggiori.
8: nell’epoca dell’antica Grecia una simmachia o symmachia, era un rapporto, un’allenza di valenza militare, avente come base il diritto equo bilaterale. Era solitamente un trattato stipulato per far fronte ad un’avversità; conclusosi il periodo di avversità, i rapporti dai stipulanti erano da considerarsi terminati.
9: Erodoto, a proposito di questa battaglia usa l’appellativo di “vittoria cadmea”. L’espressione usata nell’antica Grecia indica una vittoria avuta ad un prezzo altissimo, con sofferenze pari a quelle subite dai perdenti. L’etimologia risale alla lotta fratricida tra Eteocle e Polinice, figli di Edipo e discendenti di Cadmo. Un concetto similare di vittoria cadmea si ha successivamente con l’appellativo di vittoria di Pirro.
10: Focea fu fondata da coloni di Eretria e Teos nell'VIII secolo a.C. Il suo nome proviene dalla parola foca che fu il simbolo della città, o più probabilmente, dalla Focide, regione della Grecia centrale da cui provenivano alcuni coloni.(Wikepedia- Erodoto la racconta meglio) Elateia dovrebbe essere il nome dell’antica Eretria; della Focide.

domenica 19 gennaio 2014

Il latino dei primi secoli (IX-VII a. C.) e l'etrusco. (Giovanni Rapelli)

Il latino dei primi secoli (IX-VII a.C.) e l'etrusco (Giovanni Rapelli)
di Massimo Pittau



È un fatto certo e anche abbastanza noto che gli Etruschi hanno contribuito in maniera enorme al processo di incivilimento delle popolazioni dell’Italia antica, in senso civico, economico, tecnico, culturale ed artistico. Sia sufficiente ricordare che essi hanno insegnato a tutte le popolazioni dell’Italia, escluse quelle della Magna Grecia e della Sicilia, l’uso di quello strumento importantissimo di diffusione della cultura che è la scrittura. Ma gli Etruschi nella loro storia non sono stati affatto fortunati; in effetti essi sono stati travolti da quel poderoso strumento di guerra e di conquista che fu l’esercito di Roma, cioè proprio di quella città che molto probabilmente essi avevano proceduto a fondare come nucleo urbano. Di fronte alla conquista dei Romani, prima militare e dopo politica, la civiltà degli Etruschi si estinse e si estinse del tutto, nei primi tempi dell’Impero, anche l’uso e la conoscenza della lingua etrusca.
Ma gli Etruschi e soprattutto la loro lingua non sono stati fortunati neppure in epoca moderna, soprattutto in Italia, ossia nella terra e nella nazione in cui si era affermata quella splendida civiltà. Per colpa della potente scuola archeologica italiana, la lingua etrusca è stata boicottata per piú di mezzo secolo. Questa scuola infatti proclamò ed impose quasi un diktat, sostanziato nella frase e nella considerazione che «la lingua etrusca non è comparabile con nessun’altra lingua».
Ed è stata, questa, una frase e una considerazione che in pratica imponeva ai linguisti di non entrare nel tema della lingua etrusca, a restarne fuori del tutto. È infatti certo che il primo e principale strumento e metodo di ricerca della glottologia o linguistica storica è proprio la “comparazione”, ragion per cui l’invito e l’imposizione effettuata dagli archeologi italiani a “non comparare” la lingua etrusca con nessun’altra nella pratica effettiva consisteva nell’escludere del tutto i linguisti o glottologi dall’interessarsi di questa lingua. E questa finí nelle mani esclusive e gelose degli archeologi, i quali praticamente hanno bloccato lo studio dell’etrusco per piú di mezzo secolo.
E per ovvia conseguenza è avvenuto che i linguisti che non si sono adattati a sottostare al diktat della potente casta degli archeologi sono stati da questi isolati e boicottati, mai invitati a partecipare ai loro congressi, a scrivere nelle loro riviste e perfino ostacolati nelle loro pubblicazioni proposte alle varie case editrici.
Gli archeologi hanno invece accolto e coccolato i linguisti che hanno accettato il pronunciamento della “lingua etrusca non comparabile con nessun’altra” e a questi hanno assegnato relazioni nei loro congressi, accettato studi nelle riviste di archeologia e perfino interi libri, nei quali essi hanno parlato a lungo della lingua etrusca, senza però quasi mai dire nulla di nuovo su di essa.
Poi si sono cimentati proprio gli archeologi a scrivere sulla lingua etrusca ed alcuni di loro hanno perfino composto e pubblicato manualetti, sui quali è senz’altro mortificante sapere che centinaia di allievi delle Università italiane apprendono sulla lingua etrusca autentiche banalità.
Insomma, per colpa degli archeologi italiani l’ultimo mezzo secolo è passato senza che lo studio e la conoscenza della lingua etrusca facesse qualche importante passo in avanti.
Giovanni Rapelli è uno di quei linguisti italiani che non hanno accettato il pronunciamento della “lingua etrusca non comparabile con nessun’altra” ed invece ha esercitato sempre e con grande cura la “comparazione” dell’etrusco con numerose altre lingue antiche, soprattutto quelle documentate nell’Anatolia od Asia Minore. E ciò ha fatto anche perché — come numerosi altri storici e linguisti — ha sempre accettato come vera la tesi del padre della storiografia occidentale, Erodoto, della trasmigrazione degli Etruschi dall’Asia Minore in Italia.
Giovanni Rapelli ha cominciato con lo studio intenso ed approfondito della lingua dei Reti, ottenendo senz’altro risultati almeno discreti; ma poi ha allargato la sua attenzione e il suo studio alla lingua etrusca, soprattutto nei suoi rapporti con altre lingue dell’Italia antica.
Nella “comparazione dell’etrusco con altre lingue”, mandata avanti dal Rapelli, mi sembra di dover segnalare i seguenti procedimenti di studio e di lavoro: I) Grandissima cura ed insistenza nello stabilire raffronti di vocaboli, sia raffronti fonetici sia quelli semantici; II) Piena consapevolezza e decisione nel rifiutare raffronti da lui giudicati errati, anche se effettuati da altri linguisti pure di chiara fama; III) Grande onestà di studioso nel rinunziare a sue tesi personali, alla fine respinte perché risultate errate. Potrebbero sembrare, questi dello studioso Rapelli, procedimenti del tutto ovvi in uno scienziato, ma io mi sento di doverli sottolineare, posto che si constata non di rado che questi procedimenti vengono disertati da altri linguisti, i quali invece si lanciano in vedute di ampio respiro, talvolta però di scarsa consistenza scientifica.
I principali risultati ottenuti dal Rapelli e proposti nella sua presente opera mi sembrano che siano questi tre: I) Aver dimostrato che la lingua originaria latina era molto povera sul piano lessicale ed essa si è arricchita parecchio in virtú dei numerosi apporti ricevuti dalla lingua etrusca. II) Aver ampiamente dimostrato che la lingua latina è stata influenzata da quella etrusca non solamente sul piano lessicale, ma anche su quello fonologico. III) Aver ampiamente dimostrato che la lingua etrusca ha influenzato parecchio, sia sul piano lessicale sia su quello fonologico, anche la lingua dei Sabini e quella degli Umbri. E, mentre per la prima questione dell’influsso lessicale dell’etrusco sul latino il Rapelli è stato anticipato dallo scrivente, per l’influsso lessicale e fonologico sul sabino e sull’umbro il Rapelli è stato in assoluto il primo e finora unico studioso.
Su quest’ultimo fatto è importante precisare che, mentre fino al presente, la lingua umbra delle Tavole Igubine veniva usata per tentare di spiegare la lingua etrusca, d’ora in avanti gli studiosi dovranno invertire la direzione di studio: fare gli opportuni approcci alla lingua delle Tavole Igubine procedendo dalla lingua etrusca, cioè da quanto ormai sicuramente conosciamo su questa non piú del tutto sconosciuta lingua antica.
Per tutte queste importanti ragioni a me sembra di poter concludere che la presente opera di Giovanni Rapelli sui rapporti fra la lingua etrusca da una parte e quelle latina, sabina ed umbra dall’altra, costituisce una importante e imprescindibile tappa negli studi sulle lingue dell’Italia antica.
È una circostanza ovvia che io non condivida tutte le tesi dell’amico Giovanni Rapelli, ed è ugualmente ovvio che egli non condivida tutte le mie. In particolare a me sembra che alcuni accostamenti o raffronti etimologici fra vocaboli di differenti lingue siano talvolta troppo allentati e perciò azzardati, per cui io li avrei tralasciati in un mio scritto. Ma il Rapelli si è saputo difendere rispondendomi in maniera sensata, anche se non del tutto convincente, che anche altre volte raffronti e accostamenti etimologici che all’inizio apparivano troppo allentati e aleatori, alla lunga sono risultati essere stringenti ed esatti. Ed io auguro di cuore che questo avvenga anche per tutte le ipotesi qui prospettate dall’egregio amico e collega.