Diretto da Pierluigi Montalbano

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lunedì 30 settembre 2013

Scoperta nel Mediterraneo la mitologica città egizia di Heracleion

Scoperta nel Mediterraneo la mitologica città egizia di Heracleion


Per centinaia di anni si è creduto che la città di Heracleion, conosciuta anche con il nome di Thonis, non fosse altro che una leggenda. La città fu menzionata dallo storico greco Erodoto, secondo il quale Elena avrebbe visitato la città con Paride prima dello scoppio della guerra di Troia. Heracleion (per i greci) o Thonis (per gli egizi) era la porta verso l'Egitto, il porto obbligatorio di ingresso e dogana durante il Periodo Tardo egiziano (664 a.C. fino al 332 a.C.). Una città mitologica che riemerge dagli abissi Mar Mediterraneo dopo essere stata sepolta nella sabbia e nel fango per millenni. E' stato un nodo fondamentale nella rete commerciale del Mediterraneo orientale attraverso il quale le merci venivano trasportate dentro e fuori dall'Egitto. Le prime tracce di esso sono state trovate a 6,5 km al largo della costa dall'Istituto europeo per l'Archeologia Subacquea (IEASM) sotto la direzione generale di Franck Goddio nel 2000. In collaborazione con il Ministero egiziano delle antichità e il sostegno della Fondazione Hilti, la squadra ha recuperato importanti informazioni su antichi monumenti della città, come ad esempio il grande tempio del dio Amon e di suo figlio Khonsou. Il documentario TV offre un affascinante spaccato sul lavoro di archeologi subacquei e presenta le più importanti scoperte che sono state fatte negli ultimi 13 anni riguardo Thonis-Heracleion. La quantità e la diversità dei risultati ha stupito gli esperti: "Le prove archeologiche sono semplicemente stupefacenti", racconta Sir Barry Cunliffe, eminente archeologo dell'Università di Oxford. "Rimasto sommerso e protetto da sabbia sul fondo del mare per secoli i reperti sono perfettamente conservati." Tra i reperti vi è la più grande statua conosciuta del dio egizio della piena del Nilo (Hapi) e una delle più grandi concentrazioni di navi. Inoltre, ci sono santuari ben conservati nel cuore della zona del tempio, oggetti votivi e gioielli, monete e iscrizioni ufficiali finemente scolpite sulla pietra che documentano la vita della città e di scambio con le altre culture. Il documentario televisivo ripercorre le varie fasi di anni di studio meticoloso e di lavori di scavo. Utilizzando animazioni 3D, le strutture della città antica sono di nuovo visibili: edifici e templi, navi, moli e pontili ed i sistemi di canali stanno tornando in superficie. Ma il lavoro è tutt'altro che finito: "Siamo solo all'inizio della nostra ricerca", spiega Franck Goddio, "probabilmente dovremo continuare a lavorare per i prossimi 200 anni perchè Thonis-Heracleion possa essere pienamente scoperta e compresa".



Fonte: http://www.diregiovani.it

sabato 28 settembre 2013

Scoperto il palazzo di Caifa?

Scoperto il palazzo di Caifa?


Gli archeologi affermano di aver scoperto un palazzo di I secolo a.C. sul monte Sion, a Gerusalemme, completo di un'antica vasca da bagno. Il palazzo potrebbe essere appartenuto ad uno dei sacerdoti che condannò a morte Gesù.
Fonti bizantine collocano, infatti, in questo luogo il palazzo di Caifa o di suo suocero Anna. Il complesso edilizio poteva avere fino a 20 camere e si sviluppava, probabilmente, su piani diversi. E' la posizione stessa della villa a suggerire che il suo proprietario fosse un membro eminente della classe sacerdotale ebraica. A condurre gli scavi sono stati l'archeologo Shimon Gibson e James Tabor, studioso di storia cristiana presso l'Università del North Carolina.


Il palazzo è stato costruito a ridosso delle mura del Secondo Tempio, eretto dal re Erode il Grande. Aveva un forno, una vasca da bagno, una piscina rituale e bagni separati, un lusso per quei tempi. Solo altre tre vasche da bagno, ritrovate dagli archeologi, sono state datate al periodo del Secondo Tempio. Due di queste vasche sono state ritrovate nei palazzi di Erode a Gerico e a Masada, la terza è stata trovata in una residenza sacerdotale scavata nel quartiere ebraico di Gerusalemme.
Tra le rovine del palazzo i ricercatori hanno anche ritrovato gusci di murex, molto apprezzati perché da essi si ricavava il colore blu, utilizzato come colorante dei capi di vestiario destinati ai religiosi. Gli archeologi hanno anche esplorato una cisterna situata di 10 metri di profondità, nella quale sono stati rinvenuti molti detriti, compreso un numero consistente di ossa di animali, frammenti di pentole e vasellame. Gibson pensa che gli ebrei abbiano utilizzato la cisterna come ultimo rifugio durante l'assedio romano di Gerusalemme del 70 d.C.. Durante quest'assedio Giuseppe Flavio afferma che furono ritrovati più di 2.000 corpi nelle cisterne di Gerusalemme ed in altri condotti idrici, la maggior parte dei quali appartenevano a persone morte di fame.


La conservazione del palazzo appena riportato alla luce è dovuta ad una serie fortuita di fatti. Dopo il saccheggio di Gerusalemme da parte dei Romani, la zona rimase deserta per 65 anni e quando l'imperatore romano Adriano ricostruì la città, nel 135 d.C., la zona del monte Sion venne lasciata libera e tale rimase fino al periodo bizantino, all'inizio del IV secolo d.C.. Gli abitanti della Gerusalemme bizantina iniziarono a costruire le loro dimore sulle mura più antiche e coprirono, in seguito, i resti del passato con materiale da discarica, specialmente durante il regno di Giustiniano I, per preparare il terreno alla costruzione di una chiesa conosciuta come la Nea Ekklesia della Theotokos.


Fonte: Le Nebbie del Tempo

venerdì 27 settembre 2013

Anfiteatro Romano di Cagliari: finito l’oblio?

Anfiteatro Romano di Cagliari: finito l’oblio?

Con uno stanziamento di 1.3 milioni di Euro, con il piano triennale delle opere pubbliche, il monumento sarà reso visitabile e contemporaneamente potrà continuare a svolgere il ruolo di luogo di spettacolo e attività culturali.
Il futuro del monumento è scritto nero su bianco nella delibera della Giunta comunale, approvata su proposta dell'assessore ai Lavori Pubblici Luisa Anna Marras, che fissa le linee guida del concorso di idee per il recupero e la riqualificazione della più importante testimonianza di epoca romana in città e nell'Isola.
Il concorso, aperto a professionalità esperte le cui diverse idee progettuali saranno messe a confronto, avrà tre linee guida. La prima tiene conto del fatto che in origine si accedeva all'Anfiteatro a sud, attraversando uno dei quartieri più eleganti della città nell'area della Villa di Tigellio, lungo la strada che passava attraverso l'attuale Orto Botanico. La seconda riguarda la valorizzazione dei collegamenti sotterranei, in particolare del percorso di circa 96 metri che collega l'Anfiteatro al "cisternone" dell'Orto dei Cappuccini.
La terza direttrice è legata al viale Buoncammino, punto di collegamento tra la zona dell'Anfiteatro e il quartiere di Castello. L'intervento dovrà prevedere la rimozione delle strutture ancora presenti e il restauro del monumento, la predisposizione di un percorso per i visitatori e la sistemazione di uno spazio da 2.000-2.500 posti per lo svolgimento di spettacoli che non dovrà interessare le attuali gradinate e l'arena, tenendo conto di eventuali reperti archeologici affiorati nel corso dei lavori. I progettisti dovranno inoltre adottare delle soluzioni tecniche nel segno della sobrietà e semplicità e guardando ad aspetti come l'innovazione, il risparmio energetico, l'impatto ambientale e l'eco-compatibilità dei materiali.
L'anfiteatro è per metà scavato nella roccia mentre la parte restante era in calcare bianco, e la facciata sud doveva superare i 20 metri. L'anfiteatro ospitava combattimenti tra animali, tra gladiatori e tra combattenti specializzati che venivano reclutati anche fuori dalla Sardegna. In egual misura venivano eseguite le pene capitali davanti alla folla esultante. Poteva contenere 10.000 spettatori circa, quasi 1/3 degli abitanti della Carales romana.
Fu edificato tra il I e il II secolo d.C., quando la Sardegna era controllata dai romani. A seguito della diffusione del cristianesimo nei territori dell'Impero romano, le lotte gladiatorie divennero sempre più impopolari tant'è che nel 438 d.C. l'imperatore Valentiniano III le proibì per legge. L'anfiteatro cadde così in disuso e a partire dal periodo altomedioevale fino al medioevo venne utilizzato come cava dai vari conquistatori (bizantini, pisani, aragonesi ecc.) che necessitavano di materiali a buon mercato per la costruzione di nuove fortificazioni.
La zona fu acquisita dal comune di Cagliari nel XIX secolo che affidò gli scavi archeologici al canonico Giovanni Spano. Oggi l'anfiteatro è ricoperto da una struttura in ferro e legno che permette di ospitare spettacoli e concerti durante la stagione estiva. Gli ambientalisti e la sovritendenza archeologica hanno spesso criticato questa struttura (ufficialmente amovibile ma di fatto presente ormai da dieci anni) che ha causato già durante la sua edificazione numerosi danni al monumento e che sta causando, per via della poca circolazione d'aria sotto le tribune, la formazione di muffe le quali stanno lentamente corrodendo la pietra. Dal 2011 con il cambio dell'amministrazione della città, la nuova giunta ha iniziato il graduale procedimento di rimozione delle strutture con l'obiettivo di riportare l'anfiteatro alla sua originaria funzione di sito archeologico.

Fonte dell'immagine della ricostruzione ipotetica dell'anfiteatro: Wikipedia.org

Ritrovati reperti di 30.000 anni fa sugli Appennini

Ritrovati reperti di 30.000 anni fa sugli Appennini


Trentamila anni fa sugli Appennini vi era un accampamento di cacciatori. E' questa la scoperta che, recentemente, è stata fatta nei dintorni di Cassimoreno, frazione di Ferriere. Un gruppo di archeologi dell'Università di Ferrara ha ritrovato i resti di una roccia chiamata diaspro rosso riconducibili alla presenza di cacciatori nomadi in mezzo ai ghiacciai.
I cacciatori avrebbero utilizzato il diaspro per fabbricare armi per la caccia o per la lavorazione di carni e pelli. L'analisi al radiocarbonio ha permesso di datare i reperti a 30.000 anni fa: i più antichi mai trovati sugli Appennini.

Fonte: Le Nebbie del tempo


giovedì 26 settembre 2013

Scoperto in Grecia un villaggio preistorico e tre tombe micenee inviolate.

Scoperto in Grecia un villaggio preistorico e tre tombe micenee inviolate.

Tre tombe micenee inviolate, databili tra il XV e l’XI a.C., con corredi funerari comprendenti elaborate ceramiche e preziosi oggetti d’ornamento, e i resti di un abitato preistorico, fondato verosimilmente alla fine del III millennio a.C., sono stati riportati alla luce presso Eghion, in Grecia, dagli archeologi dell’Università di Udine. Il ritrovamento è avvenuto nel sito protostorico della Trapezà, nella regione dell’Acaia, durante l’esplorazione della necropoli micenea individuata recentemente dai ricercatori dell’Ateneo friulano.
«Sono ritrovamenti di inestimabile valore scientifico» afferma Elisabetta Borgna, professore di Archeologia egea all’Università di Udine e coordinatrice del gruppo italiano che partecipa alla missione archeologica internazionale nel sito della Trapezà, diretta da Andreas Vordos, nell’ambito di un progetto di ricerca del Ministero della cultura greco.
La missione, giunta alla quarta campagna, è sostenuta dall’Institute for Aegean Prehistory di Philadelphia (Stati Uniti), dalla Società per la ricerca dell’antica Rhypikìs di Eghion (Grecia), dalla A.G. Leventis Foundation (Repubblica di Cipro) e della Scuola di specializzazione interateneo in Beni archeologici (Udine, Trieste e Venezia).
Le prime indagini nelle tombe, del tipo “a camera” (cioè scavate in un pendio e costituite da un corridoio d’accesso e una camera funeraria), hanno riportato alla luce l’imbocco di sepolture inviolate, con ingressi murati da massicci blocchi di roccia e rivestimenti in ghiaie compatte. Le due camere funerarie finora parzialmente investigate hanno restituito ricchi corredi, comprendenti elaborate ceramiche e oggetti d’ornamento insieme a resti umani.
Il ritrovamento di alcune nicchie scavate lungo le pareti dei corridoi d’accesso ha rivelato l’abitudine di mettere da parte, dando loro una degna collocazione, i resti delle sepolture più antiche in occasione della riapertura e del riuso dei sepolcri. Nei riempimenti dei lunghi corridoi delle tombe e nelle aree antistanti i sepolcri gli archeologi hanno trovato tracce di deposizioni di armi in ferro e di vasi, testimonianza di ripetute attività di culto in onore degli antenati che vennero svolte a partire dalla definitiva chiusura delle tombe fino al periodo arcaico e classico (VI e IV a.C.), quando il sito, parte della città achea di Rhypes, ebbe particolare importanza, testimoniata dalla presenza di un imponente tempio.
«Si tratta di strutture funerarie di tipo familiare – spiega Borgna –, utilizzate a lungo nell’età micenea, ossia dal periodo che precede la fondazione dei palazzi di Micene e Tirinto, fino alla crisi della civiltà micenea, alla fine dell’età del bronzo e alla transizione all’età del ferro (XV-XI a.C. circa)». Alcuni dei materiali rinvenuti consentono di far luce sugli intensi rapporti culturali che legarono il Peloponneso occidentale alle regioni del Mediterraneo orientale, in particolare l’isola di Cipro, soprattutto negli ultimi secoli dell’età del bronzo. «Gli oggetti ritrovati – sottolinea Borgna – testimoniano l’importantissima funzione della regione achea e del mar di Patrasso nel passaggio di elementi culturali che influenzarono in maniera significativa l’Adriatico settentrionale, dal delta del Po fino al Friuli, tra XII e XI a C.».
L’antichissimo abitato ospitava, con tutta probabilità, le genti che seppellivano i propri morti nella necropoli. Da un primo esame dei materiali raccolti, il villaggio sembra aver avuto vita a partire da fasi molto antiche della protostoria (fine III - inizi II millennio a.C.) per continuare durante il periodo miceneo, nella tarda età del bronzo (XI a.C.). «Tra le ceramiche trovate – spiega Borgna – risaltano alcuni frammenti collegabili a una produzione di tipo “adriatico”, attestata nell’area balcanica costiera e fino alle grotte del Carso triestino».
L’esplorazione della necropoli della Trapezà, in un’area collinare vicino alla costa sul Mar di Corinto, è particolarmente difficoltosa perché, diversamente da quanto riscontrato in altre regioni della Grecia micenea, le tombe non sono state scavate nella roccia tenera, ma si trovano nelle sabbie che costituiscono il substrato della zona. «Così – spiega la professoressa Borgna –, per quanto coese e compatte, le sepolture non hanno resistito al passare dei secoli: le camere sono per lo più crollate e, anche quando sono inviolate e discretamente conservate, costringono l’archeologo a un paziente e arduo lavoro di riconoscimento e recupero».
Gli archeologi dell’Università di Udine stanno pertanto sperimentando metodi e tecniche di individuazione, recupero e valorizzazione nell’ambito di un progetto pilota, che intende creare le premesse per indagini approfondite dei paesaggi funerari nell’ambito dell’Acaia centrale.
Agli scavi di quest’anno hanno partecipato studenti degli atenei di Udine e Trieste, specializzandi e dottorandi (Ioannis Dimakis, Agata Licciardello, Assunta Mercogliano, Anna Nardini, Giacomo Vinci) il geoarcheologo Gaspare De Angeli, e l’architetto Nils Hellner, dell’Istituto archeologico germanico di Atene.

Fonte: Archeorivista

mercoledì 25 settembre 2013

La Sardegna e il Mediterraneo Occidentale, Popoli e culture affini sin dal Paleolitico

La Sardegna e il Mediterraneo Occidentale: Popoli e culture affini sin dal Paleolitico
di Marcello Cabriolu

Attraverso precedenti studi[1] si è osservato come la Sardegna del Paleolitico Superiore abbia ricevuto apporti umani continui[2] in un periodo ben definito compreso tra il 36000 BP e il 15000 BP[3]; il fenomeno del popolamento, dovuto a fattori correlati alla Glaciazione di Wurm, si suppone sia avvenuto tramite lo spostamento di genti stanziate nel sud della Francia e sui Pirenei, di gruppi umani provenienti dal Medio Oriente e di bande tribali provenienti dal Caucaso, queste ultime giunte nel Mediterraneo attraverso l’Europa Centrale. In merito all’origine  dei popoli si sono compiuti studi genetici che hanno permesso di individuare una decina circa di “gruppi genetici” presenti in Europa[4]. Questi principali “gruppi genetici” incidenti per il 74% della popolazione sarda attuale sono gli aplogruppi I, R, G e J[5] di antichissima origine, che ci confermano come la Sardegna, nel Paleolitico Superiore, abbia ricevuto apporti umani da gruppi di individui formatisi, almeno per l’80%, tra l’Europa Occidentale e quella Centrale, nella penisola Balcanica, nelle steppe euroasiatiche e nel Caucaso[6]. Da studi minuziosi condotti attraverso l’analisi del DNA del cromosoma Y di origine esclusivamente maschile e del DNA mitocondriale esclusivamente femminile, si son potute isolare due famiglie genetiche in particolare, individuandone anche il loro relativo stanziamento: la “famiglia” genetica Eu8[7], individuabile in gruppi umani giunti in prossimità del Mediterraneo provenendo dall’Europa Centrale; e la “famiglia” genetica Eu18 stanziata nell’arco franco-iberico[8]. In buona sostanza si può asserire che al momento della penetrazione nell’antico complesso sardo-corso entrambi i gruppi umani avessero un “background” artistico sia in manufatti mobiliari sia per quanto riguarda la produzione d’arte parietale. La “famiglia” genetica Eu8 era costituita da gruppi umani che crearono diverse statuette dette “Veneri” (Willendorf)[9], intagli su difese di mammuth e figure schematiche in avorio su cui compaiono numerose incisioni fusiformi lineari e geometriche[10]. Il gruppo umano appartenente alla “famiglia” genetica Eu18 fu quello che caratterizzò graficamente le grotte e i ripari dell’arco franco–cantabrico sin dal 30000[11] prima del presente, prima attraverso bande di tratti incisi e poi successivamente attraverso opere figurative sia mobiliari che parietali[12]. Tramite indagini e comparazioni si è constatato che durante lo spostamento di questi gruppi alla ricerca di territori con clima favorevole cacciagione e materiale per strumenti, essi hanno occupato diversi spazi lungo un percorso di avvicinamento. Tali spazi restituiscono ora numerose testimonianze relative all’attività artistica di quegli stessi individui, come ad esempio le incisioni lineari (Riparo Mochi) e le “Veneri” rinvenute nei Balzi Rossi, o ancora le incisioni astiformi nell’Isola d’Elba. Impressionante è l’accostamento della “Venere” denominata “Polichinelle”[13] (Balzi Rossi) con quella rinvenuta a Macomer in località S’Adde, tutt’ora in analisi per un doveroso inquadramento nel Paleolitico Superiore, in considerazione delle tradizioni plastiche “paleolitiche” e delle comparazioni con esempi allogeni[14]. In merito alle incisioni lineari possiamo ricordare inoltre quelle rinvenute nella parete sinistra rispetto all’ingresso della Grotta Paglicci nel Gargano, e sottolineare come tali motivi risultino frequenti nei contesti Epigravettiani[15] della penisola, tanto da supportare ulteriormente la proposta avanzata precedentemente[16] di una comune cultura preistorica europea, relativa alle numerose incisioni astiformi su pietra rinvenute nel territorio sardo. Assai discutibile è la situazione che vede solamente nel contesto sardo – corso l’assenza di ciò che caratterizza invece numerosi altri siti tardo – paleolitici della penisola e del continente in genere, come incisioni e pitture parietali, nonostante ci fossero più che validi presupposti per l’individuazione di essi[17] anche nei due contesti isolani. 
Alla luce degli scarsi rinvenimenti umani relativi al Paleolitico Superiore (limitati esclusivamente alla Grotta Corbeddu[18] di Oliena), dovuti forse ad una lacuna nella ricerca, risulta ancora difficile considerare un popolamento indigeno protrattosi sin dal Paleolitico Inferiore e che esuli dalle esperienze artistiche dell’Europa Gravettiana. Come inverosimile appare un improvviso exploit nel traffico dell’ossidiana a partire dal Neolitico Antico[19] senza che si tenga conto dell’eventuale distribuzione durante il Paleolitico. Quali sono le motivazioni che hanno spinto degli esseri umani, provenienti dall’Europa Centrale o dall’Anatolia a migrare verso il Mediterraneo e il complesso Sardo-Corso e fondersi con le bande umane stanziate tra l’Atlantico e le Alpi?

martedì 24 settembre 2013

Cartografia Nautica: Mercatore era un cartografo o un tipografo?


Cartografia Nautica: Mercatore era un cartografo o un tipografo?
di Rolando Berretta
Ci sono due valori che ci vengono tramandati dalla notte dei tempi e da tutte le civiltà:
l’angolo giro di 360 gradi e la durata del giorno divisa in 24 ore.


Vorrei provare a spiegare quest’ultimo valore aiutandomi con qualche immagine.

Disegniamo un cerchio inscritto in un quadrato. Disegniamo la croce centrale e quella sulle diagonali. Ci ritroviamo con la circonferenza divisa in 8 (otto) parti. Mettiamo il compasso su ognuno di questi otto punti con la stessa larghezza del raggio precedente e segniamo di nuovo la circonferenza. Ci ritroveremo con la circonferenza divisa in 24 parti precise. Abbiamo suddiviso l’angolo giro di 360 gradi in 24 parti da 15 gradi precisi. Molto semplice.
(Vecchi ricordi scolastici quando si disegnavano le mitiche tre foglie.)
Chiedo scusa se uso sistemi elementari per spiegare. Non c’è, ancora, nessun testo che ci fornisca la minima informazione SERIA.
A questo punto proviamo a unire i diversi punti ricavati con 24 linee a raggiera e con delle rette orizzontali e verticali nel seguente modo:





Osservate l’immagine e cercate di “vedere” la sviluppo geometrico.
Strano, ma vero, quest’ultimo schema è alla base di molte proiezioni geografiche moderne.


Non solo moderne visto che l’utilizzavano i Veneziani dal 1484; su una scala diversa.

lunedì 23 settembre 2013

Vichinghi in America: oltre quello della Mappa di Vinland, scoperto un altro viaggio.

Scoperto un altro viaggio dei Vichinghi in America

Nuove prove suggeriscono che i Vichinghi visitarono la baia di Notre Dame, nell’odierna isola di Terranova, in Canada. Il viaggio avrebbe portato i Vichinghi dal sito di L’Anse aux Meadows, sulla punta settentrionale della stessa isola, fino a una parte di Terranova che, a differenza del primo avamposto, era popolata dagli indigeni, gli antichi Beothuk.
“La zona della Baia di Notre Dame era una buona candidata, come tutte le altre, per quel primo contatto tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, e questo è affascinante”, ha dichiarato Kevin Smith, vice direttore e capo curatore del Museo di Antropologia Haffenreffer della Brown University.
Le prove del viaggio sono due manufatti di diaspro che i vichinghi usavano per accendere fuochi.

L’analisi chimica suggerisce che questi oggetti, scoperti a L’Anse aux Meadows nel 2008 e negli anni ’60, provenivano dalla zona della Baia di Notre Dame, a circa 230 km di distanza.
Fin dalla scoperta di L’Anse aux Meadows quasi 50 anni fa, gli archeologi e gli storici hanno cercato di scoprire la storia delle esplorazioni vichinghe nel Nuovo Mondo. Precedenti ricerche avevano rivelato la presenza di semi di noce bianco americano a L’Anse aux Meadows, indicando che i norreni avevano effettuato un viaggio nel Golfo di San Lorenzo o forse anche un po’ oltre. Inoltre, i manufatti vichinghi (e forse pure una struttura) sono stati scoperti nell’Artico canadese, il che indica un rapporto commerciale con quegli indigeni.

Tuttavia, l’avamposto a L’Anse aux Meadows funzionò solo per qualche decennio, anzi, secondo le storie norrene medievali l’avamposto potrebbe essere stato in uso per soli due o tre anni, e forse solo stagionalmente, prima di essere abbandonato.
La nuova ricerca, dice Smith, ha dimostrato che vi è ancora molto da imparare sulle esplorazioni vichinghe nel Nuovo Mondo.
Fonte: http://archeonews.altervista.org

Mappa di Vinland...un falso?

La Mappa di Vinland, il documento che avrebbe dovuto testimoniare «nero su bianco» che i Vichinghi arrivarono in America prima di Colombo, è un falso. Questa l’ultima sentenza sul celebre reperto conservato alla Yale University, che da 35 anni è oggetto di feroci dispute tra gli specialisti. A determinare l’ultima bocciatura sono state le analisi condotte da un gruppo di scienziati inglesi della University College, guidati da Robin Clark, che hanno preso in esame una particolare sostanza presente nell’inchiostro utilizzato da chi disegnò la mappa. Le analisi avrebbero dimostrato che la pergamena su cui è disegnata la mappa è effettivamente del XV secolo, ma il disegno raffigurante un tratto di costa canadese sarebbe stato eseguito nel XX secolo e più precisamente in una data successiva agli anni Venti, quando sul mercato divenne disponibile l’anatase, una forma cristallina di biossido di titanio, impiegato come pigmento bianco.

Apparentemente la condanna della Mappa di Vinland può sembrare definitiva, ma c’è da scommettere che non sarà così dato che il documento è stato valutato 20-25 milioni di dollari e di certo la Yale University non si arrenderà tanto facilmente alla sconfitta.
In realtà le possibilità di appello ci sono, perché proprio l’anatase è stato oggetto di precedenti analisi che hanno sempre portato a conclusioni contrastanti. Il primo a prendere in considerazione questa forma cristallina piuttosto rara di biossido di titanio fu Walter McCrone, un esperto nell’analisi delle «polveri fini», che negli anni Settanta vide proprio nella presenza dell’anatase la prova della falsificazione.
Negli anni Ottanta, però, Thomas Cahill, un fisico dell’università di California a Davis, ribaltò il verdetto sostenendo con sofisticatissime analisi che le minime tracce di titanio rilevate sulla mappa erano perfettamente compatibili con l’ipotesi che la mappa fosse stata realizzata attorno al 1440, cioè circa mezzo secolo prima dello sbarco di Colombo.

Il punto su cui ora si è aperto un nuovo fronte è sempre l’anatase ma questa volta sotto accusa è la sua presenza nell’alone giallastro che compare ai bordi dei tratti neri del disegno e della didascalia che l’accompagna. Secondo i nuovi accusatori, il falsario del XX secolo prima disegnò quest’alone giallognolo e poi le linee di inchiostro nero che avrebbero dovuto produrlo come risultato della presenza di ferro nell’inchiostro stesso. Interessante notare che l’attenzione per la mappa di Vinland non è mai calata, neppure dopo che sono state trovate prove indiscutibili della presenza vichinga in America ben prima dell’arrivo di Colombo. Evidentemente i 25 milioni di dollari hanno un peso maggiore dei resti del villaggio vichingo trovato a Terranova.
Secondo alcuni fu un gesuita austriaco, padre Joseph Fischer ( foto a sinistra) - morto nel ’44 a 86 anni - il falsario della «carta del Vinland», fino al mese scorso datata XV secolo e ritenuta una prova dello sbarco dei vichinghi in Nord America. Ieri, sul domenicale britannico The Sunday Times , Kirsten Seaver, esperta di esplorazioni, ha spiegato che padre Fischer disegnò la carta 70 anni fa, su una pergamena strappata da un volume del 1440: la grafia sulla carta corrisponde a quella di padre Fischer.

I vichinghi nel Sudamerica?
Una domanda sorge immediatamente: i Vichinghi, dopo essersi portati fino all'estremo nord dell'America, non potrebbero aver avuto l'idea di avventurarsi nelle terre del sud ? Dopo tutto, la curiosità essendo quello che è, sarebbe stata un comportamento assolutamente naturale.
Per taluni autori, la moneta scoperta nel 1955 da due archeologi dilettanti in un sito indiano nel Maine, costituisce una prova sufficiente di questo percorso. Periziata nel 1982, la moneta rivela effettivamente la sua origine vichinga, battuta in Norvegia sotto il regno di Olaf Kyrre (1066-1093). Bucata sul bordo, dovette servire da amuleto all'Indiano che la portava. Ma un'unica monetina, per di più di poco valore, è sufficiente per dimostrare che i Vichinghi si siano spostati fino al luogo della sua scoperta ? Certamente no. Nessun sito di tipo scandinavo evidenziato nelle vicinanze fa pensare che questa moneta fu data ad un'Indiano nell'ambito di uno scambio.

Nel 1930, si trovò a Beardmore, in Ontario, un'autentica spada vichinga. Ahimè! Era arrivata lì dieci anni prima! Ci fu anche la "pietra runica di Kensington", nel Minnesota. Ma, a parte Alf Mongé ed il Dr Landsverk, tutti gli esperti assicurano che è un falso...
Per Jacques de Mahieu, "professore all'università di Buenos Aires, antropologo, economista, sociologo, storico" (!), i Vichinghi non solo sono andati fino in America Centrale, ma sono anche sbarcati in Amazonia. L'eminente personaggio ha fatto delle ricostruzioni assolutamente fantastiche delle spedizioni in America del Sud, facendo, pagina dopo pagina, degli accostamenti azzardati che solo un neofita può confondere con "erudizione". Per Mahieu non c'è spazio per la contestazione : "nell'anno 967 della nostra era, all'incirca 700 Vichinghi dei due sessi sbarcarono da sette drakkar sulle coste del Messico". Da lì provengono la "mitologia solare, un'organizzazione politica, valori morali, conoscenze scientifiche e tecniche, innumerevoli termini danesi, tedeschi ed anglo-sassoni ancora usati dagli Indiani all'inizio del secolo scorso"!! Tutto ciò, naturalmente, senza che si sia ritrovata la minima traccia archeologica del loro passaggio... Il distinto professore finirà addirittura per considerare che prima di Colombo "tutti andavano in America": tutti, compresi, come lo si può indovinare, i Templari (perché mai?!). Colombo non avrebbe d'altronde alcun merito: la mappa dell'America, l'aveva rubata!
L'ipotesi dei viaggi meridionali ed equatoriali dei Vichinghi meriterebbe senz'altro qualcosa di meglio dei romanzi immaginati da bislacchi di questo genere. Se, cosa possibile, fosse un giorno confermata, certe credenze di cui i Precolombiani si impregnarono (come lo stupefacente mito di Quetzalcoatl, il "dio bianco barbuto", il cui ritorno "annunciato" avrebbe causato la rovina dei Messicani) troverebbero una spiegazione razionale. Ma non è necessario che una credenza abbia bisogno di un elemento positivo per nascere e prosperare, né che sia stata quella che crediamo essere stata. Bisogna comunque riconoscere che allo stato attuale delle ricerche, siamo ben lungi dall'aver progredito su questo punto.
Fonte: www.fmboschetto.it

domenica 22 settembre 2013

Papa Francesco a Cagliari. 2000 anni fa nasceva il Cristianesimo.

Papa Francesco a Cagliari. 2000 anni fa nasceva il Cristianesimo
di Pierluigi Montalbano



Foto di Gianni Romolino Piras

Gli Atti degli Apostoli ci informano sugli inizi della fede. La Chiesa, che al momento dell'Ascensione superava appena le cinquecento persone, il giorno di Pentecoste, giorno della sua nascita vera e propria, vide ben 3000 persone farsi battezzare; fra costoro, molti erano abitanti di Gerusalemme, una città che allora contava appena 50.000 abitanti. Alla fine del I secolo si calcola che i cristiani fossero mezzo milione, diffusi in Palestina, Asia minore, Italia meridionale centrale e insulare (Sicilia e Sardegna), area costiera Nord-africana. Nel II sec. erano saliti a 2 milioni; zona di espan¬ione, Spagna, Gallia, isole britanniche. Nel III sec. i cristiani erano saliti a cinque milioni, mentre la popolazione dell'impero romano era stimata sui cinquanta milioni. Nel IV secolo -quando la Chiesa ottenne la libertà di esistenza pubblica con l'imperatore Costantino- il numero dei cristiani in tutto l'impero si ritiene che sia stato di circa dieci milioni.
La diffusione del cristianesimo avvenne mediante la predicazione orale eattraverso la propaganda degli scritti. Il cristianesimo a differenza dell'ebraismo è missionario, portate l’annuncio di Cristo risorto, di questo siete testimoni fino agli estremi confini del mondo, questo è un atteggiamento che nell’ebraismo non esiste. Nessun ebreo dice: «devi fare discepoli fino ai confini del mondo». La logica ebraica è un’altra: noi siamo il popolo eletto e dobbiamo conservare la fedeltà alle tradizioni tramandate dai nostri padri. Il cristianesimo, invece, ha uno slancio missionario sin dalle origini. Molta di questa evangelizzazione fu fatta da Paolo, l’apostolo delle genti, ossia dei “non ebrei”. Il mondo, nella prospettiva ebraica si divideva in due parti: noi, cioè gli ebrei, il popolo eletto; e poi le genti: il resto del mondo, i pagani. San Paolo riconosce di essere stato mandato ad annunciare il cristianesimo ai pagani e diffonde il cristianesimo in Turchia, in Grecia e poi a Roma. In Italia la propagazione della fede seguì il corso delle vie militari e commerciali. A spingere alla conversione furono il fervore della fede dei primi cristiani, il loro amore fraterno, l'eroismo dei martiri.
Nel 70 avviene la distruzione del Tempio perciò una parte della religione che si fondava sulla legge, le prescrizioni, i rituali del Tempio, i pellegrinaggi, viene cancellata. Il giudaismo oggi è diverso perché ha dovuto rinunciare ai riti del Tempio e reimpostare in modo diverso tutta la sua religiosità. I primi cristiani andavano spontaneamente in sinagoga perché erano si sentivano ebrei, andavano al tempio (quando Pietro guarì uno storpio alla porta del tempio, vuol dire che lo frequentava) anche se gradualmente alcune pratiche dell’ebraismo furono considerate meno importanti e poi abbandonate, e proprio ciò creò lo scontro. Nel 70 la separazione è ormai netta, gli ebrei non sopportano più questa setta e maledicono i cristiani che, tuttavia, non porgono l'altra guancia e rispondono con anatemi, d'altronde l'astio è ben visibile nei vangeli dove le parole di Gesù contro i farisei sono sempre molto dure.
Viventi gli apostoli, esisteva una doppia gerarchia, una universale e una locale. La prima era esercitata dagli apostoli in comune (concilio apostolico), o singolarmente (Giovanni e Pietro che si recano in Samaria; Paolo che fonda una serie di chiese nell'Asia minore), o con collaboratori al servizio di un apostolo (Barnaba viene inviato ad Antiochia in qualità di plenipotenziario). La giurisdizione locale veniva esercitata da sovrintendenti locali, messi dagli apostoli a capo delle singole comunità. Con la morte dell'ultimo apostolo si estingue la gerarchia universale e i sovrintendenti locali diventano automaticamente dei veri vescovi diocesani.

sabato 21 settembre 2013

Antichi giochi di strada

Verona capitale dei giochi di strada

Sa Badrunfa (la trottola) incuriosisce tutti all'XI edizione del Festival internazionale dei giochi in strada "Tocatì" che ha preso il via oggi a Verona , promosso dal Comune di Verona e dall'Associazione giochi antichi (Aga). Animerà il centro storico fino a domenica 22 settembre.
"La manifestazione, partita 11 anni fa come festival locale - ha detto il sindaco Flavio Tosi - è diventata negli anni un evento di livello internazionale, capace di attirare nella nostra città migliaia di visitatori dall'Italia e dall'Europa". Per tre giorni le piazze e le strade del centro storico di Verona si trasformeranno in un grande parco giochi in cui le famiglie e i bambini potranno divertirsi e giocare assieme.
Questa edizione del "Tocatì" ospita 40 giochi tradizionali provenienti da varie regioni italiane e dall'Ungheria, paese ospite quest'anno. In particolare, il pubblico potrà ammirare e cimentarsi direttamente in giochi come: Övbirkózás (lotta ungherese), Gombfoci (un agile calcio da tavola che inizialmente veniva giocato con i bottoni), tiro con l'arco, lotta con i bastoni e frusta ungherese, Csürközés (un'insolita sfida in cui i bastoni vengono prima lanciati e poi usati per intralciare l'avversario).

Tra i giochi della tradizione italiana ci saranno: Bastone siciliano, Pagalosto (conviviale gioco di bocce tipico del Friuli Venezia Giulia), Sbürla la röda, atletica corsa con balle di fieno tipica della Lombardia, Pallone col bracciale, tradizione sferistica antichissima della Toscana, e il gioco pugliese della Stacchje. E poi ancora: giochi di tavoliere, scacchi, dama e vari giochi urbani come Parkour, Frisbee e, per la prima volta al Tocatì, il Kendamana. In programma anche una maratona letteraria (per leggere a turno un brano de "I ragazzi della via Pál), oltre che conferenze e incontri con personaggi del mondo della cultura.

Antichi giochi di tradizione popolare in Sardegna
Nell'invitare chi legge a proporre qualche gioco che praticava da piccolo, auguro un buon fine settimana a tutti.

Chissà quanti di voi hanno preso parte almeno una volta da ragazzi a questi antichi giochi:

CHIE T'HAT PUNTU?

Questo gioco si faceva in gruppo e si svolgeva così: uno si sedeva su una sedia e tappava gli occhi ad un altro. Uno del gruppo Io pizzicavo e tornava al suo posto. Quello che era seduto chiedeva: "Chie t'ha puntu?" e l'altro rispondeva: "s'alza" "Puite?" "Po ti sanare" "Attindela po ti curare".
Quello che era inchinato andava in mezzo al gruppo e ne sceglieva

MUSCONE

Anche questo era un gioco di gruppo. Uno appoggiava una mano sul viso e l'altra sotto la spalla. Uno del gruppo, stando dietro, dava un colpo alla mano nascosta sotto l'ascella; siccome il protagonista doveva indovinare da chi aveva ricevuto il colpo, quelli del gruppo gli giravano attorno e con l'indice sollevato facevano il moscone. Se indovinava chi era stato, si scambiavano i ruoli, diversamente restava ancora lui nell'angolo con la faccia coperta.

GARIGI

A garigi si giocava con "sas laddarasa" (la pallina poteva essere di vetro o di terracotta fatta appositamente), e si svolgeva così: si faceva un buco nella terra. A turno si lanciava una pallina cercando di farla entrare nel buco; se uno ci riusciva guadagnava tre punti. Dopo passava la mano al compagno, il quale cercava di avvicinare la pallina all'altra "ceddare". Se c'erano tre palmi di differenza si guadagnavano altri tre punti.
Così si continuava fino ad arrivare a ventun punti e vinceva chi aveva totalizzato più punti Chi vinceva finiva il gioco; gli altri continuavano.

SA MURRA

Il gioco si praticava in gruppi di 4 o 2 persone. La gara veniva disputata alternativamente da soli due giocatori per volta;che dal pugno chiuso estraevano le dita e dicevano un numero superiore al numero delle dita che ciascuno estraeva. Il numero massimo della murra era 10. Si sommavano tutte le dita e chi indovinava aveva un punto; lasciato da parte il perdente, continuava il gioco con un altro componente del gruppo. Questo gioco era proibito dalla legge, perché certe volte non si osservavano le regole del gioco e allora si giocava specialmente nei magazzini e in campagna e quando qualcuno non voleva perdere era frequente che il gioco degenerasse in una rissa. Vi erano giocatori molto abili che riuscivano a indovinare quante dita il concorrente avrebbe estratto quindi vincevano sempre ed erano molto orgogliosi e sicuri.
Essi pronunciavano in modo sveltissimo e ritmico i numeri che costituivano la somma (murra = 10) e passavano dall'uno all'altro concorrente con una destrezza e maestria singolare, riuscendo anche a tenere il conto. È un gioco che è praticato tutt'oggi ma solo in occasione delle feste rurali e da giovani un po' maturi e più attaccati alle tradizioni paesane. (Punteggio da 16 a 21 con lo spareggio).

SA BÀTTIDA

Uno dei tanti giochi che si praticavano in passato era "sa bàttida". Questo gioco consisteva nel prendere una monetina e lanciarla contro il muro, con tutta la forza. Poi la stessa persona rilanciava un' altra monetina cercando di farla cadere a un palmo di distanza dall'altra; chi riusciva a toccare le due monetine con le dita vinceva la partita, e tutte le altre monetine che c'erano in terra, e chi non ci riusciva perdeva le proprie monetine.

SA BALDOFULA
Un gioco divertente era la trottola detta "sa Baldofula". Questo gioco si svolgeva così: si faceva un cerchio sul terreno "su parottu" e dopo vi si metteva una trottola dentro. Questa trottola era facile da costruire, infatti ogni ragazzo se la costruiva da se, con il legno più resistente, cioè quello d'ulivo.
Si prendeva un pezzo di legno lungo più o meno 6-7 cm e di larghezza 4-5 cm; con un coltello gli si faceva la punta, dove si infilava una vite. Sulla trottola così ottenuta si arrotolava un laccio in pelle (corria). L'estremità di questo filo veniva passato tra l'anulare e il mignolo, si lanciava così la trottola capovolta, il laccio in pelle si slegava e la trottola girava. Gli esperti del gioco riuscivano a "piscare", cioè a farla girare sulla mano e a farla salire sul braccio e girare sull'unghia. Il gioco cui ho accennato prima consisteva nel colpire "binzicorrare" la trottola per farla uscire dal cerchio; chi ci riusciva vinceva e quindi faceva mettere a un altro partecipante la propria trottola nel cerchio. Se invece non riusciva, perdeva e doveva mettere la sua trottola. Certe volte quello che doveva tirare se non se la sentiva diceva al più bravo giocatore così: "Dami manu mia franchèo" cioè chiedeva se poteva tirare al suo posto.
Durante il gioco la trottola che era dentro il cerchio, a seconda delle posizioni che prendeva, aveva un nome: se la trottola si inclinava da una parte si chiamava "pila".
Uno dei tanti giochi che si facevano con la trottola era "Parottu": per terra si tracciava un cerchio e al centro vi si metteva un sasso. I concorrenti dovevano cercare di colpirlo; il primo giocatore che fosse riuscito a colpire la pietra avrebbe dovuto scegliere chi degli avversari dovesse mettere la proprio trottola al posto del sasso. Una volta fatto ciò, i concorrenti colpivano la trottola fino a che qualcuno non la spaccava o la tirava fuori.

ISPROPRIARE

Il gioco di solito si svolgeva in un terreno morbido, i giocatori facevano un cerchio sul terreno e Io dividevano in parti uguali. Si doveva essere muniti di un coltello o di qualcosa di simile e si lanciava nel campo avversario Se questo rimaneva infilzato nel terreno, l'avversario dovevo cedere un pezzo del suo terreno al vincitore,che aveva diritto a un altro tiro.

SERATTU, SERATTU

"Serattu, serattu in domo de su attu, in domo de su mere serattu mi chere". Si giocava nei pilastri della piazza di San Nicolò, il gioco consisteva nel rubare il posto l'uno all'altro. Si giocava in cinque con uno che rimaneva fuori e doveva riuscire a prendere il posto agli avversari mentre questi ultimi se li scambiavano a vicenda.

SA TURRE
Era un gioco pericoloso nel quale si richiedeva una certa disponibilità di forza fisica. Il gioco si svolgeva così: i giocatori potevano essere un minimo di 21 , o quanti se ne voleva.. Per primi si disponevano in piedi i ragazzi più robusti, e sopra di questi (sempre in piedi) se ne disponevano altri sempre in numero minore fino a rimanerne uno. Si doveva rimanere così per più tempo, fino a quando qualcuno cedeva.

SEDDA MURRA

Questo gioco, come del resto tutti gli altri, si svolgeva durante le feste popolari, in campagna. Si giocava in otto ragazzi divisi in due squadre di quattro ognuna. Dopo il sorteggio una delle due squadre si metteva a "Sedda", cioè gli uni abbracciati agli altri con le teste unite insieme, il più possibile con la schiena inclinata verso avanti. L'altra squadra mandava un suo giocatore a saltare in groppa a un avversario; prima di saltare però pronunciava questa frase, "Sedda murra..." e aggiungeva il nome dell'avversario sopra il quale doveva saltare. Dopo che tutti i compagni saltavano senza sbagliare, si rincominciava allo stesso modo e sempre con la stessa squadra. Ma attenzione! perché una volta che il giocatore saltava a sedda, doveva riscenderne aggrappandosi alle gambe degli avversari, facendo una semi-capriola, senza però mollare le mani dalle gambe avversarie.

LUNA MONTA

Questo gioco consisteva nel saltare il compagno che stava piegato a terra: se quello che saltava toccava il compagno che stava a terra, allora c'era un cambio. Quello che saltava andava sotto e quello che era sotto andava sopra e così via.
Chi stava sotto aveva la facoltà di abbassarsi o sollevarsi, stando attento a fare in modo che chi saltava cadesse dall'altra parte in determinate posizioni prestabilite (a gambe incrociate, a braccia incrociate, ecc.). Il primo saltatore contava e gli altri ripetevano la stessa sua frase "Luna monta, due monta il bue, tre la figlia del re, quattro particolare, cinque incrociatore, sei in crocetto, sette speronette, otto gigiotto; nove il bue, dieci un piatto di ceci, undici per mezz'ora, dodici tutta l'ora, tredici fazzoletto".

SOS CHILCOS

Un altro gioco divertente era quello de "Sos chilcos". I bambini di solito rubavano dai padri i cerchi delle botti, poi ci agganciavano un ferro e partivano correndo, facendo molto rumore.

SOS CADDOS DE CANNA
Prima nell'antichità i bambini non avendo giochi a disposizione si divertivano a costruirseli da se, come ad es. "sos caddos de canna" che erano canne di un metro circa. Queste venivano messe tra le gambe (come dei cavalli) e si facevano le gare; un altro esempio è il carro costruito con "ferula" a cui venivano attaccati dei buoi fatti con lo stesso materiale.

S' ISCRADIADOLZU
S'iscradiadolzu consisteva nel fare una pista in una discesa ripida: si prendeva la metà di una foglia di fichi d'India, la parte interna molto scivolosa appoggiava in terra e sopra quest'ultima si metteva una tavola di legno o "su seddone", un pezzo di tronco di fico d'India dove i bambini si sedevano e partivano scivolando lungo la discesa. Questo gioco era divertente ma quasi tutte le volte si rompevano i pantaloni e rimanevano "impeddonadoso".

SA FILLlGADA
A questo gioco si poteva giocare solo nel periodo delle castagne, quando appunto si andava a cercare le castagne; si raccoglievano un bel po' di castagne e si mettevano per terra. Ci si faceva il fuoco sopra, quando le castagne erano pronte si spegneva il fuoco e sopra si mettevano delle felci A questo punto ogni concorrente doveva mangiare più castagne possibili tenendo in testa una pietra. Se ad un concorrente cadeva la pietra veniva squalificato.

SAS ISPILLAS
Le bambine giocavano molto a "sas ispillas" (con le spille). Il gioco si svolgeva così: in un cesto molto grande chiamato "pischedda 'e uddire" (che veniva utilizzato per lavare i panni con la lisciva), si mettevano le spille con sopra la crusca; si mischiava il tutto e si dava un po' di crusca a ciascuno Dopo che ognuno toglieva la spilla dalla propria crusca, due concorrenti mettevano le spille su un piano o per terra, e ciascuna, soffiando la propria, cercava di metterle una sopra l'altra, a croce; chi ci riusciva prendeva tutte e due le spille, consegnandone una per continuare il gioco; vinceva chi riusciva a vincere tutte le spille.

SA PUPPIA

Sa "Puppia" era la bambola che allora le bambine, non avendo altri mezzi, si facevano con stracci vecchi.Per fare il corpo (escluse le braccia), si arrotolava uno straccio e, per non srotolarsi, si cuciva. La testa era compresa nel corpo costituito dalla parte superiore un po' arrotolata fissata sempre con cucitura. Gli occhi erano cuciti con filo bianco, il naso che si trovava al centro era un puntino nero, la bocca invece era fatta con del filo rosso e i capelli con fili di grano cuciti. Le braccia erano costituite da un unico straccio arrotolato, cucito a croce sull'altro che fungeva da corpo.

TIRONE

Questo era un gioco di società praticato all'aperto, si tracciava una scacchiera e si tirava con un piede (l'altro era sollevato) un coccio. Se questo si fermavo sul rigo che delimitava una casella, Ia casella successiva diventava proprietà dell'avversario. Il gioco così diventava più difficile poiché al gioco successivo bisognava saltare quella casella.

CUA CUA
Cua cua era un gioco femminile, comune anche fra i ragazzi.Un giocatore si doveva mettere contro il muro con la faccia coperta per non vedere e contava mentre gli altri si nascondevano. Quando finiva di contare diceva "Tres trese chie non este cuadu chi si cuede" e doveva cercare dove gli altri si erano nascosti e, se trovava qualcuno, doveva correre prima dell'avversario per toccare il muro dove prima avevo contato, dicendo "tres trese". Se egli arrivava prima dell'avversario doveva contare questo, se invece arrivava primo l'avversario doveva ricontare il primo.

SU GIOGU 'E SOS OLZOSO
Questo era un gioco che veniva fatto la notte di capodanno per aspettare Io mezzanotte. Veniva fatto per scoprire se due persone si volevano bene. Per svolgere questo gioco serviva: una ciotola d'acqua e due semi d'orzo Con un dito si fa girare l'acqua, si butto l'orzo nell'acqua, di modo che galleggi e giri in mezzo ad un turbine. A ogni seme d'orzo si dà un nome e si lasciano girare per un bel po'. Quando uno dei due si ferma da una parte, se l'altro seme Io raggiunge e si ferma di fianco a lui, queste due persone si vogliono bene, se invece l'altro continua a girare e si ferma dall'altra parte o comunque lontano, le due persone non si vogliono bene.

Tratto da "Scano Montiferro" Ambiente -Storia -Tradizioni"
Raccolta di notizie a cura della Scuola Media (Anno scolastico 1987-1988)

fonte: http://web.tiscali.it/tenoreiscanu/
Il disegno è di Angela Demontis

venerdì 20 settembre 2013

Fenici

Fenici
di Maurizio Feo



LE GRANDI CIVILTA' URBANE  NEL IV- III MILLENNIO
La porpora di Tiro
“La porpora di Tiro si è dimostrata la migliore di tutte in senso assoluto; i molluschi sono raccolti nei pressi della riva e tutto ciò che è necessario per procedere alla tintura è facilmente reperibile. Sebbene il gran numero di laboratori di lavorazione della porpora renda la città poco gradevole per viverci, d'altra parte ciò la ha resa molto prospera, grazie alla suprema abilità dei suoi abitanti”.
Strabone, XVI, 2, 23, I a.C. - I d.C.
Gli operai fenici
Salomone si assicura per la costruzione del tempio gli operai fenici, promettendo qualunque compenso a Hiram re di Tiro:
“Io ti pagherò, per il salario dei tuoi operai, tutto quello che domanderai, poiché tu sai che non vi è alcuno tra noi che sappia tagliare il legname come i Sidonii”
Antico Testamento, I Re, 5, 6
I Fenici e l'invenzione dell'alfabeto
“La gente dei Fenici ha la grande gloria di avere inventato le lettere dell'alfabeto”.
Plinio il Vecchio, Storia naturale, V, 13, 67, I sec. d.C.
“Questi Fenici giunti con Cadmo (in Grecia) [...] introdussero presso i Greci [...] molte conoscenze, tra cui le lettere dell'alfabeto, che, come credo, i Greci non avevano prima”.
Erodoto, V, 58, V sec. a.C.
“Contro coloro che sostengono che i Siri sono gli inventori delle lettere dell'alfabeto e che i Fenici, appresele da questi, le trasmissero ai Greci, [...] (i Cretesi) dicono che i Fenici non le inventarono dall'inizio, ma soltanto cambiarono la forma dei segni”.
Diodoro Siculo, V, 74, 1, I sec. a.C.
Maestria degli artigiani fenici che costruiscono il tempio di Gerusalemme
“L'intera costruzione fu portata avanti con grande perizia, con l'uso di pietre tagliate così precisamente e connesse tra loro così accuratamente [...], che all'osservatore esse apparivano senza alcuna traccia di scalpello o di altri strumenti”.
Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, VIII, 69, I sec. d.C.
LA CIVILTA' MINOICA AL SUO APOGEO, 1600-1450 a.C.
La scrittura: dai pittogrammi all'alfabeto
L'invenzione della scrittura, in stretto rapporto con la formazione delle città, rappresenta un momento fondamentale nello sviluppo delle civiltà umane.
Il modo più semplice per trasmettere un messaggio consiste nell'accostare disegni, ciascuno dei quali corrisponde ad un oggetto o ad una azione: i pittogrammi. È un sistema utilizzato presso varie culture "primitive", ma che non riproduce ancora il suono della lingua parlata. Dai pittogrammi si sviluppò la scrittura ideografica, che nacque in Cina intorno al 2500 a.C. L'ideogramma non è che un disegno molto stilizzato, corrispondente ad una parola; ma per rendere in questo modo tutti gli elementi della lingua occorrono complessi artifici e molti segni, tanti quante sono le parole (gli ideogrammi cinesi di uso corrente sono 6000). Si capisce subito che questo è un sistema complesso da utilizzare e molto difficile da apprendere. Un sistema diverso fu usato per la scrittura geroglifica e cuneiforme. 

mercoledì 18 settembre 2013

Le origini della Civiltà Nuragica

Le origini della Civiltà Nuragica
di Pierluigi Montalbano


Sede di un luogo di culto del Neolitico finale, il grande tempio ad altare di Monte d’Accoddi, una cosiddetta Ziggurat, mostra una lunga rampa d’accesso che dolcemente sale verso la piattaforma gradonata sormontata dalla cella dedicata alle divinità del tempo. La rampa e la struttura furono ampliate e rifasciate con grandi massi intorno al 2500 a.C., il periodo in cui le domus de janas sarde, i templi dedicati ai defunti, mostrano lunghi corridoi e decorazioni simboliche che riconducono alla Dea Madre e al sacrificio dei buoi, con la rappresentazione di teste di toro stilizzate. La rampa è affiancata da un grande menhir aniconico il cui significato è attribuito da alcuni studiosi alla tomba di un antenato, e da altri alla divinità maschile paredra della Dea Madre. E’ il periodo che precede di circa un secolo la comparsa nell’isola dei primi dolmen e degli ipogei funerari con poche cellette che interrompono la tradizione dei sepolcri collettivi comunitari. E’ il tempo in cui le genti di Monte Claro scoprono il processo metallurgico di separazione dell’argento dal piombo, due metalli presenti in abbondanza nella galena argentifera dei bacini minerari sardi.
La ricchezza derivante da questa innovativa tecnologia richiese un notevole impegno per la sua tutela e conservazione, e forse per questo compaiono nell’isola le prime poderose muraglie megalitiche poste a difesa dei villaggi. Nessuna torre in pietra è stata ancora edificata in Sardegna, ma si notano già le prime esperienze di corridoi lunghi qualche metro che penetrano nello spessore murario delle cinte megalitiche. Monte Baranta di Olmedo fornisce un chiaro esempio di villaggio che vive l’epoca dei menhir, dei dolmen e delle grandi muraglie attraversate da corridoi.
Questa ricchezza, dopo qualche millennio di traffici legati alla preziosa ossidiana sarda, fu il catalizzatore che attirò nell’isola genti interessate a scambiare merci e introdurre nuove idee. Alla fine del III Millennio a.C. in Sardegna si assiste all’intreccio di almeno due culture che formeranno l’humus nel quale saranno gettate le fondamenta della civiltà nuragica: le genti di Monte Claro e quelle del Vaso Campaniforme.
Questi ultimi provengono dalla penisola iberica dopo aver girovagato nel corso di due secoli dall’Europa settentrionale, alle zone britanniche e del nord francese. La trasformazione subìta dalle genti del Vaso Campaniforme durante i contatti con le culture europee è visibile nelle belle ceramiche a forma di campana, decorate e colorate per intrigare i ricchi commercianti locali. Dopo essere transitati nelle Baleari, intorno al 1900 a.C., i nuovi arrivati sono pronti per fondersi con le genti della Sardegna nord occidentale, ma dopo i primi contatti deve essere accaduto qualche problema. Diminuiscono notevolmente le tracce degli abitati e i manufatti, non a caso ritrovati in ambiti funerari, perdono gli elementi di prestigio: colori e decorazioni. E’ l’epoca dei menhir antropomorfi, e non a caso il maggior numero si trova in una zona ricca di giacimenti minerari fra gli altopiani del Sarcidano, nei pressi di Laconi, e la Barbagia di Seulo.
L’abbandono dei vasti e numerosi insediamenti del Monte Claro, abitati fin dal Neolitico di Ozieri, coincide proprio con l’arrivo dei gruppi del Vaso Campaniforme e suggerisce la presenza di gruppi di nomadi che si spostano su tende. Nel XVIII a.C. si diffondono ceramiche con forme semplici e prive di ornati, in sintonia con le tipologie della nascente civiltà nuragica. In questo periodo si verificano alcuni cambiamenti profondi nel modo di vivere degli isolani: nuove architetture sepolcrali collettive, le tombe di giganti, affiancano le millenarie domus de janas. La presenza di grandi spade, derivate dalle forme dei pugnali sardi, annuncia un cambiamento sociale che porterà alla realizzazione di edifici che sintetizzano la tradizione architettonica consolidata nei secoli precedenti: dalle forme geometriche dei dolmen prendono vita gli ingressi dei corridoi dei primi nuraghi e le lunghe camere funerarie delle tombe di giganti.
Il contatto con le genti iberiche influenza fortemente i primi sforzi costruttivi dei nuragici: sul piano formale e funzionale, l’architettura delle prime torri nuragiche è simile con quella del sud della Corsica e dei contemporanei talajots balearici di Nura (Minorca). E’ importante rilevare che la cultura del Vaso Campaniforme non ha mai oltrepassato gli Appennini, diffondendosi dalle Baleari alla Corsica e successivamente alla Liguria giungendo fino alla Sicilia per poi essere assorbita dai locali.

Nella penisola iberica alcune torri portoghesi (San Pedro e Zambujal) a pianta circolare sono da attribuire alla cultura del vaso campaniforme, ma non sono ancora vicine alla linea di sviluppo graduale dei nuraghi a corridoio sardi, dei più antichi talajots balari e delle torri corse che hanno origine comune e potrebbero essere scambiati tra loro tanto sono simili. Inoltre, nelle Baleari si rileva la presenza di edifici di culto dedicato ai defunti (navetas) che sul piano formale richiamano le tombe di giganti. Durante il Bronzo recente, nelle Baleari non risulta attestato il tholos ogivale, mentre in Corsica le torri si presentano in forme più modeste rispetto ai nuraghi. È evidente che nel Bronzo Medio, Minorca e Corsica costituiscono con la Sardegna una sorta di koinè insulare delle torri, in cui la Sardegna è probabilmente il centro politico ed economico. Vediamo le analogie tenendo presenti alcune sostanziali differenze tra le fortificazioni sarde e quelle egee e del Mediterraneo orientale in genere, dove le torri sono sistematicamente quadrangolari. È stata già riscontrata l’affinità tra le volte a luce ogivale dei corridoi di alcune cinte murarie megalitiche sarde (corridoio della cinta esterna di Su Mulinu-Villanovafranca; gallerie del bastione trilobato di Santu Antine di Torralba), e quelle di simile disegno micenee (galleria nello Steintor di Tirinto) e ittite (gallerie di Hattusha). Sul piano cronologico, l’esempio più antico è quello del 1400 a.C. a Su Mulinu, con volta tronco ogivale; al 1300 a.C. circa è attribuibile il corridoio ogivale di Hattusha, simile e coevo a quello di Santu Antine, considerando l’impiego di conci ben squadrati di poco precedenti quelli in tecnica isodoma. Al 1200 a.C. va collocata, infine, la galleria di Tirinto, considerando le pareti verticali alla base e l’ogiva che tende al triangolo, come nel taglio delle porte del Tesoro di Atreo e della Porta dei Leoni di Micene, simili agli anditi e alle nicchie del Bronzo Recente di Su Mulinu (Torre F).
Altre affinità si colgono nelle porte con anditi a transetto degli edifici dove si osserva il taglio ogivale del XIII a.C. della Porta dei leoni a Micene e in Anatolia (Porta del Re, Porta dei Leoni, di Hattusha). Per l’Anatolia vanno richiamate le anguste porte d’accesso di Yerkapu, di Alaka Huyuk e di Buyakkale. Le porte ittite sono precedute da suggestivi archi ogivali bilitici. Anditi a taglio ogivale con due vani laterali affrontati agli ingressi sono diffusi in Sardegna nelle cinte esterne a Su Nuraxi e Su Mulinu, ma la luce della porta è stretta e rettangolare. Sono visibili esempi di ingressi con andito di taglio ogivale e con due guardiole disposte a transetto nel bastione di Su Nuraxi a Barumini e nella cinta esterna di Su Mulinu a Villanovafranca. Eccezionalmente, nell’ingresso al bastione trilobato di Genna Maria a Villanovaforru si osserva un doppio transetto con quattro guardiole, realizzato successivamente nella fase di rifascio. Nel Nuraghe Arrubiu di Orroli, il taglio ogivale è proposto anche nell’andito della camera nella torre centrale e sull’ingresso della cinta esterna. Questi dati suggeriscono che anche maestranze e manovalanze sarde abbiano avuto un ruolo nell’edificazione degli edifici greci, tenendo presente che per costruire le mura megalitiche di Micene (mito di Perseo) e di altre città come Tirinto e Midea, si ricorreva a maestranze straniere, e che ad Atene il muro Pelasgico è attribuito ai Tirreni, popolazioni occidentali strettamente in rapporto con i Sardi. Perseo chiama i Ciclopi per costruire le mura di Micene, dopo il suo scontro con Medusa, regina di Sardegna, Corsica e Tirrenia, figlia di Forcide dio del mare. Valutando la situazione edilizia nel complesso, l’ipotesi più plausibile è che siano avvenuti scambi di esperienze reciproche.

martedì 17 settembre 2013

Archeologia a Villa Verde: dal Bronzo all'aratro

Archeologia a Villa Verde: dal Bronzo all'aratro
di Vitale Scanu


Lo status di isola include già di per sé il concetto di mare, di dover passare il mare per relazionarsi ad altri. Ogni interscambio con altre entità sociali, di qualsiasi genere, avviene ineluttabilmente via mare. Via mare arrivano nell’isola le merci, le idee, le mode, le novità, le religioni, la storia e il progresso. Via mare si esportano i prodotti indigeni, da quelli naturali agli oggetti della manifatturazione…, all’ossidiana. Si devono avere, pertanto, le capacità e i mezzi adeguati per superare la vastità e la forza del mare. Ecco perché i Sardi devono essere stati necessariamente navigatori, e bravi navigatori, secondo quanto ci risulta dalle quasi 400 navicelle nuragiche in bronzo ritrovate. Come infatti la sete insegna l’uso dell’acqua, così l’isolamento insegna la bravura nel navigare.

E’ da sottolineare che “la civiltà” dell’ossidiana precede quella nuragica. L'ossidiana è antecedente al nuraghe, non viceversa. Il nuragico, fino all’apogeo della sua potenza maestosa di Barumini (circa dodicesimo secolo a.C.), è posteriore all’ossidiana. Per questo motivo il villaggio di Brunk’e s’Omu di Bannari (Villa Verde), strettamente relazionato all’ossidiana, secondo me è più primitivo e anteriore, di parecchio, alla reggia nuragica di Barumini. I nuraghi sono successivi e funzionali all’ossidiana, non viceversa, e costituiscono quasi uno status symbol di una "agiatezza" tanto diffusa e conclamata da avere un’eco mitica anche in oriente. Vedi le tante citazioni della Bibbia riguardanti i “re di Tarsis e delle isole” (Quando, il giorno dell’Epifania, sentiamo nella messa: “I re di Tarsis e delle isole porteranno doni” al Messia, sentiamo parlare, secondo gli studiosi, né più né meno che della Sardegna, delle Baleari... e del loro mitico benessere!). A quei tempi, la ricchezza e la potenza delle “Isole agli estremi confini del mare... Dal fiume, fino agli estremi confini della terra (Sal 71,8) ” erano di patrimonio immaginario collettivo e tanto note da non aver bisogno nella letteratura di altre precisazioni particolareggiate con nomi propri. “Il fiume” per antonomasia era l’Eufrate, cosicché l’espressione biblica significa: dall’estremo oriente fino all’estremo occidente.

Siamo nella necessità e, oggi, nelle condizioni, di ripensare e rivalutare con maggiori contenuti scientifici, gli elementi che fanno la preistoria del nostro territorio. Convinciamoci che parlando dell’ossidiana sarda, ci riferiamo sempre e solo al monte Arci, a Pau e a Bannari, che sono stati l’epicentro di questa “civiltà” e «la sede di avvenimenti centrali nella storia dei sardi» (M. Brigaglia in “Storia della Sardegna”). Incredibile, vero? Eppure “«la presenza sul monte Arci di ricchi giacimenti di ossidiana permette non solo di inserire la Sardegna nell’animata vita del Mediterraneo, ma di farne una delle protagoniste… Alla fine del IV, prima metà del III millennio, il Mediterraneo appare attraversato dal complesso intrecciarsi delle rotte commerciali dell’ossidiana, che assegna alla Sardegna un ruolo centrale nell’economia mediterranea… L’ossidiana del monte Arci copre una vasta area che include la Corsica, l’Italia centro-settentrionale, il Midi francese e le coste della penisola iberica» (Brigaglia, o.c.).

Come tutti gli altri popoli storici, anche la gente di su Brunk’e s’Omu, per fare il salto di civiltà, ha dovuto passare il filtro dal bronzo all’aratro: dalla caccia ai selvatici e raccolta dei frutti spontanei, all’agricoltura e all'allevamento del bestiame. Questo passaggio poteva avere, geograficamente, una sola logica direzione obbligata, una sola via di fuga o di espansione: da Brunk’e s’Omu verso la valle di Bannari. A meno che quegli uomini preistorici non si siano tutti estinti lassù, senza lasciare alcuna continuità. Ma se le loro generazioni sono continuate nei secoli e nei millenni successivi, il loro esito finale non può essere che Bannari. Non esistono alternative. Il ritrovamento di qualche elemento organico a su Brunk’e s’Omu (es. un frammento di osso) potrebbe dar ragione della continuità genetica e dell’eredità biologica tra quegli uomini preistorici e i bannaresi di oggi.

L’agricoltura. Ogni società umana, oltre ad addomesticare piante e animali, modifica anche il tempo e lo spazio. I tempi dilatati e non suddivisi in minuti del Medio Evo e dei tempi di Dante, non sono paragonabili certo ai nostri, scanditi dalle lancette dell’orologio. L’uomo addomestica lo spazio trasformando il territorio, costruendo nuraghi, diboscando, aprendo spazi coltivabili, dissodando la terra e cambiando così l'aspetto del paesaggio. In tal modo egli modifica i luoghi che abita; quegli uomini nostri antenati vivevano bene nel loro tempo e sfruttavano a fondo l’ambiente circostante. Pochissimo è mutato nei millenni da quelle primitive modifiche. L'uomo moderno ha inciso in minima parte nella configurazione del nostro territorio. «Quello che vediamo oggi nel paesaggio agrario sardo, discende direttamente dalla preistoria». «Il territorio di dotazione di questo comune – dice su Bannari il Casalis nel suo famoso ‘Dizionario’ - riconoscesi molto adatto ai cereali… Molte sono le sorgenti appellate mizzas dai campidanesi, delle quali la più copiosa è Mizza-e-margiàni, cui sgorga vicina di pochi passi un’altra. E quindi a distanza di 8 minuti comincia a scorrere molto abbondante Sa-mizza-e su-perdiaju, riconosciuta salubre pe’ febbricitanti. Merita, se non per la finezza, certo per la copia, d’essere menzionata la fonte Roia-Melas, la quale, unita alle altre suddette, confluisce col fiume, che questi paesani appellano de sa Mandra».

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