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lunedì 5 agosto 2013

La navigazione commerciale nella preistoria

La navigazione commerciale nella preistoria
di Pierluigi Montalbano


Le più antiche notizie storiche riguardanti la navigazione commerciale risalgono soltanto al 2650 a.C. e appaiono in testi egiziani della IV dinastia. Uno di essi parla di quaranta navi inviate in Libano per approvvigionarsi del legno di cedro, ricercato per la costruzione di tetti e per la realizzazione delle parti nobili degli scafi. Ovviamente, molto di più di quanto accade oggi, la navigazione antica dipendeva dall’andamento delle stagioni e dal regime dei venti e delle correnti. Inoltre, la durata del viaggio non era prevedibile, poiché le antiche navi, capaci di risalire il vento solo con difficili manovre e un’andatura a zig-zag, navigavano preferibilmente con il vento in poppa ed erano spesso costrette a cambiamenti di direzione o a lunghe soste. A complicare la situazione si aggiungevano i problemi di orientamento, verosimilmente basati sui movimenti del sole o sulle costellazioni. Le nostre principali fonti di documentazione sulle antiche imbarcazioni sono i monumenti figurati, le notizie degli storici e degli scrittori antichi, quelle dei documenti epigrafici e, negli anni più recenti, i ritrovamenti archeologici subacquei. Erano diffuse piroghe ricavate dallo svuotamento di grossi tronchi d’albero, barche formate da un’armatura di legno sulla quale erano tese delle pelli cucite tra loro, zattere costituite da due piroghe unite da tronchi o formate da una piattaforma di legno tenuta a galla da otri di pelle animale gonfi d’aria (antenate dei nostri gommoni), barche di canne o di papiro, come è attestato in Egitto dove, a partire dal Regno Antico (I-VIII Dinastia 2920-2150 a.C.), si iniziarono a costruire anche navi di legno, delle quali è giunto a noi un noto esemplare integro, la nave del faraone Cheope o Khufu (2551-2528 a.C.).
Ecco una breve nota sul suo ritrovamento:
Nel 1952, ai piedi della piramide del faraone Cheope, durante un lavoro di asportazione di un cumulo di sabbia gli archeologi portavano alla luce una pavimentazione di grandi lastre di pietra squadrate. Si trattava in realtà della copertura di una fossa sigillata. L’esplorazione effettuata con una macchina fotografica introdotta attraverso un foro rivelava il contenuto: una grande imbarcazione smontata in numerose parti, remi, grandi tavole, porte, colonne, elementi diversi, il tutto ricoperto da stoffe ormai degradate e resti di tappeti. Il legno però si presentava conservato bene grazie al fatto che l’ambiente era rimasto isolato perfettamente per 4600 anni. Il lavoro di recupero del reperto era affidato al capo conservatore delle antichità Ahmad Moustafa. La fossa era lunga 31,2 m, larga 2,6 m e profonda 3,5 m, e conteneva l’imbarcazione che giaceva smontata in 407 elementi disposti su 30 strati. Rimessi insieme, si poté constatare che gli elementi componenti tutta la struttura erano 1224, i più grandi dei quali in cedro del Libano, mentre i più piccoli, quali cavicchi e perni, erano di gelso. L’imbarcazione, oggi musealizzata, è lunga 43,4 m, larga 5,9 m e ha un dislocamento di circa 40 tonnellate. Il tavolame dello scafo, spesso 13-14 cm, è assemblato parzialmente con legamenti passanti attraverso lo spessore dalla parte interna e in parte con elementi che, perfezionati, troveremo nella tecnica del tenone e della mortasa delle navi greche e romane. La carena è piatta, senza chiglia, fatto, questo, comune anche nelle costruzioni più antiche non solo egiziane, con 12 elementi interni classificabili come corbe ma non portanti. Una batteria di 6 coppie di rematori vogava con remi di lunghezza variabile da 6,8 m a 7,8 m, utilizzati sia come derive sia come timoni.

Lo studio delle navi egiziane ha evidenziato il metodo di costruzione per mezzo di legature con fibre vegetali (navi cucite): lo scafo era a fasciame autoportante. In altre parole, le tavole potevano essere montate preventivamente anche senza il supporto dello scheletro interno (tecnica detta shell first, ossia prima il fasciame), grazie alla presenza di incastri (le mortase) realizzati nei giunti tra l’una e l’altra tavola (i comenti), nei quali venivano inserite delle linguette di legno (i tenoni).
Le scoperte dell’archeologia subacquea hanno evidenziato che la tecnica a fasciame portante era in uso anche nel XIV a.C. La nave di Ulu Burun, Turchia, del 1350 a.C., dimostra che era possibile realizzare questo schema di costruzione anche senza le legature, semplicemente vincolando i tenoni, inseriti all’interno delle mortase del fasciame, con spinotti di legno. Lo stesso tipo di nave, con lievi modifiche, era usato indifferentemente per il commercio o la guerra.
Le navi da trasporto hanno una forma tondeggiante e utilizzano la vela quadra per la navigazione; quelle da guerra mantengono una forma allungata, con la prua munita di rostro e si muovono sia a remi sia a vela. Le navi da trasporto sono denominate onerarie, e trasportavano merci di varia natura: generi alimentari, liquidi come vino, olio, o semiliquidi come le conserve di pesce e di frutta, contenuti in anfore impilate nelle stive.
Il vasellame da cucina e da mensa costituiva il carico supplementare delle spedizioni, insieme a suppellettili pregiate e opere d’arte, trasportate in imballaggi di paglia avvolti da tessuti pesanti, per attutire i colpi ed evitare danneggiamenti nel corso della navigazione.
Dei contenitori utilizzati nell’antichità per il trasporto marittimo, solo le anfore e i recipienti in terracotta sono giunti fino ai giorni nostri. Sacchi, botti e tutti i contenitori costituiti da materiale deperibile sono andati perduti. Alcune eccezioni sono rappresentate dal ritrovamento di resti di cesti in vimini. Il commercio marittimo conobbe anche navi specializzate per particolari merci quali i marmi lavorati e semilavorati, navi cisterna per il trasporto del vino dentro grandi vasi di terracotta, detti dolia, capaci di contenere fino a 3000 litri di vino.

Nell'immagine: affreschi di navi minoiche nelle pareti di Akrotiri, sull'isola di Santorini. Inizio II Millennio a.C.

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