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sabato 11 maggio 2013

I bronzi di Riace

Le statue bronzee di Riace
di Samantha Lombardi


Riace (300 metri s.l.m.), è un piccolo centro in provincia di Reggio Calabria, il paese divenne famoso quando, il 16 agosto del 1972, sul fondale sabbioso di Porto Forticchio, difronte alla località di Agranci, nelle acque del Mar Jonio, a circa 200 metri dalla costa e ad 8-10 metri di profondità, un sub dilettante ritrovò casualmente due grandi statue di bronzo, alte circa 2 metri, differenti fra loro per pochi centimetri di altezza, che riproducevano, in atteggiamento simile, due guerrieri stanti in nudità eroica. L’attenzione del subacqueo fu richiamata da un braccio sinistro (appartenente a quella poi definita statua A), l’unica parte che emergeva dalla sabbia sul fondo del mare. L’anno dopo il ritrovamento delle statue bronzee, gli stessi fondali furono interessati da un’indagine stratigrafica e nel 1981 scrupolose ricerche portarono al rinvenimento di circa 30 anelli in piombo pertinenti alle vele di una nave antica, un frammento di chiglia di nave riconducibile ad un arco cronologico che va dall’età romana all’età bizantina e la maniglia dello scudo imbracciato dal bronzo A.
Dopo il loro recupero, avvenuto con la collaborazione del Nucleo Sommozzatori dei Carabinieri di Messina, che si avvalsero, per il sollevamento delle stesse, di un pallone gonfiato con l’aria delle bombole, le statue, piene di alghe e concrezioni marine lasciate su di loro da una lunga permanenza in acqua, vennero affidate alla Soprintendenza di Reggio Calabria, dove un’equipe di tecnici si dedicò, fino ai primi mesi del 1975, alla pulizia delle statue.
I responsabili della Soprintendenza, consapevoli dell’impossibilità di eseguire un completo e valido restauro delle statue avvalendosi solo dei limitati strumenti che erano a disposizione del proprio laboratorio, decisero di trasferirle al più attrezzato centro di restauro della Soprintendenza di Firenze. L’Opificio delle Pietre Dure, uno dei più qualificati laboratori di restauro del Mondo, provvide sia alla pulizia che alla conservazione delle superfici esterne, per cui, fu necessario svuotare l’interno delle statue ricolme delle terre di fusione e di sabbia frammista a cloruri che avevano innescato pericolosi fenomeni di corrosione. Le operazioni di restauro durarono cinque anni e si conclusero nel dicembre del 1980 con l’inaugurazione di un’esposizione, a loro dedicata, per sei mesi presso il Museo Archeologico di Firenze come pubblico omaggio al notevole lavoro svolto, le statue bronzee, in tutto il loro splendore suscitarono un notevole interesse fra i visitatori. Dopo un’ulteriore esposizione a Roma, nei Musei Capitolini, nel 1981, i Bronzi di Riace (così denominati dal luogo del ritrovamento), tornarono nuovamente a Reggio Calabria per essere collocati nel Museo Archeologico Nazionale. Una nuova operazione di restauro, effettuata negli anni 1992-95, tesa a concluderne lo svuotamento, non allontanò le statue dalla città: un vero e proprio micro-scavo archeologico ha infatti permesso la rimozione della rimanente terra di fusione attraverso l’uso di una sofisticata strumentazione micro-invasiva.

La decisione di restaurare nuovamente i Bronzi di Riace risale al 2009; l’opera di valorizzazione degli stessi prevedeva interventi di diagnostica attraverso speciali tecniche idonee ad individuare il modo migliore per “curarle”. E’ per questo motivo che vennero trasferite a Palazzo Tommaso Campanella dove ebbero inizio le operazioni di restauro. La rimozione che, dal Museo Nazionale della Magna Grecia, che li ha portati nella Sede del Consiglio Regionale della Calabria, è stata un’operazione molto difficile e delicata data la struttura molto fragile delle due statue.
I reperti sono stati dapprima imbrigliati e poi sollevati per essere poi posizionati su particolari supporti orizzontali di legno che ricopiano, fedelmente, le curve esterne dei corpi. Le accurate radiografie, con raggi gamma, a cui sono state sottoposte, hanno permesso di controllare lo stato delle patine (strato superficiale che con il passare del tempo ricopre il rame e le sue leghe), in particolar modo quella del bronzo A che presenta una patina artificiale di colore nero, mentre nella statua B questa patina non c’è più. Questo significa che la non corretta climatizzazione dell’ambiente ed un tasso di umidità inadeguato non riuscirà a fermare il processo di degrado. Per evitare ciò le statue hanno subito un trattamento particolare che almeno per il momento è in grado di contrastare il processo di corrosione. Finora per il loro restauro sono stati spesi 33 milioni di euro.
Nonostante l’operazione di restauro sia terminata da anni le statue, anche se, sono ancora adagiate all’interno della Sala Monteleone di Palazzo Campanella, sistemate con tutti i crismi del caso su basi antisismiche, sono comunque visibili al pubblico.
La chiusura contemporanea del Museo, nel 2009, per importanti lavori di ristrutturazione, inserita nell’ambito delle opere programmate in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, vede, per “la solita mancanza di fondi”, che tali lavori si sono prolungati ben oltre i tempi previsti. A tutt’oggi non è possibile ancora azzardare una data precisa circa l’inaugurazione del Museo, anche se, uno spiraglio si inizia ad intravedere tramite una convenzione firmata nel febbraio 2013, presso il Ministero dello Sviluppo Economico, e conclusasi dopo un articolato percorso; con la stessa si è predisposto un finanziamento di 5 milioni di euro (con risorse del Por Calabria Fesr 2007/13) che, attraverso specifici interventi, ci si augura, porti al completamento dei lavori di ristrutturazione del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria*. Il Dipartimento Cultura della Regione ha designato un Comitato Tecnico Scientifico il cui scopo è quello di valutare gli aspetti tecnici e amministrativi dell’intervento di restauro; si è prevista, inoltre, anche l’installazione di attrezzature speciali necessarie per la tenuta delle statue mediante particolari ancoraggi antisismici.

*Inaugurato nel 1959, il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, noto anche come “Palazzo Piacentini”, è uno dei Musei Archeologici più prestigiosi d’Italia, al suo interno è custodita una delle più importanti collezioni di reperti provenienti dalle Colonie della Magna Grecia fiorite in Calabria. E’ un edificio progettato, fra i primi d’Italia, ai soli fini dell’esposizione museale; fu ideato da Marcello Piacentini, uno dei massimi architetti del periodo fascista.
All’epoca, il ritrovamento di due così importanti reperti fece notevole scalpore fra gli studiosi; considerate testimonianze dirette dei grandi maestri scultorei del mondo greco-classico, sono oggi ritenute tra i capolavori scultorei più significativi del ciclo ellenico.
Sotto l’aspetto stilistico i corpi delle due statue sono articolati secondo un medesimo schema a “chiasmo” (dal greco chiasmós, disposizione a forma di χ ) per cui: alla gamba destra verticale su cui si appoggia tutto il peso del corpo, corrisponde il braccio sinistro piegato a sorreggere il pesante scudo; alla gamba sinistra flessa e avanzata corrisponde il braccio destro abbassato ad impugnare la lancia; è’ anche possibile notare dalla posizione delle gambe, che l’anca destra appare rialzata rispetto a quella sinistra. Tale movimento, nel bronzo A, non si riflette nella parte superiore del torace, dove i pettorali e le spalle conservano una posizione quasi perfettamente orizzontale, mentre, nel bronzo B, si ripercuote sia sui pettorali, definiti da una linea inclinata, sia sulle spalle, dove la spalla destra è in posizione abbassata rispetto a quella sinistra.
La possente muscolatura è resa con un accentuato vigore plastico, ma mentre, nel bronzo A appare in modo più geometrico e statico, nel bronzo B, risulta invece più particolareggiata e dinamica. I particolari anatomici sono stati rappresentati con particolare cura, si evidenziano infatti, particolarmente apprezzabili, nelle mani e nei piedi, le vene sub-cutanee.
Sul braccio sinistro, di entrambi i corpi bronzei, si sono conservati alcuni elementi che hanno fatto ipotizzare la presenza di uno scudo, ma anche dalle tracce e da alcuni ritagli, presenti nelle capigliature, si è supposto che sulla testa di ognuno vi fosse in origine collocato un elmo e che, sicuramente, le mani destre ripiegate, dovevano impugnare un oggetto che, tuttavia, non è stato ancora individuato con certezza. Inoltre, la statua B, ha il braccio sinistro restaurato in epoca romana. L’intervento non è visibile a occhio nudo, solo un’analisi minuziosa, della composizione della lega, ha permesso di identificare, che nelle parti integrate è presente una percentuale maggiore di piombo.
La testa della statua A si caratterizza per una raffinatissima resa della barba, con morbide ciocche particolarmente plastiche, e della capigliatura tenuta da una larga fascia. Le lunghe ciocche dei capelli sinuosi che segnano tutta la calotta, scendendo in chiome ricciolute sulle spalle, fanno presumere che in origine, la testa, fosse priva di elmo. Sulla sua sommità è presente un foro forse per ospitare un meniskos(una punta in bronzo che aveva lo scopo di tenere lontani gli uccelli dalle statue); Tuttavia, in un secondo momento, fu aggiunto un elmo corinzio come è dimostrato dai segni di appoggio e dalla trasformazione dell’originario foro in un alloggio per l’elmo stesso; fu in questa occasione che le orecchie, ben modellate, furono coperte da ciocche applicate. La bocca presenta labbra realizzate in rame e una fila superiore di cinque denti modellati in una lamina d’argento. Gli occhi hanno ciglia in lamine bronzee e cornee in avorio mentre le iridi, non presenti, forse erano in pasta vitrea o in pietra preziosa. Il posizionamento di queste parti separate era un’opera di grandissima abilità e avveniva secondo gli schemi riprodotti nei disegni.
La testa della statua B si presenta, liscia e deformata, ricoperta da una cuffia di cuoio o di feltro, ha la calotta cranica così modellata perché doveva sicuramente consentire la collocazione di un elmo corinzio rialzato, oggi disperso, ne rimangono, a testimonianza, alcune placchette segnate da piccole martellature ed una impronta lasciata, sui lati della barba, dal sottogola dell’elmo stesso. Dalla cuffia fuoriescono i lobi inferiori delle orecchie e corte ciocche di capelli, simili a quelle della barba, non molto folta, resa in modo non eccessivamente plastico. La bocca presenta anch’essa labbra in rame, si conserva solo l’occhio destro con la cornea in marmo bianco, l’iride è formata da un anello biancastro ed uno rosato concentrici e dalla pupilla nera. I corpi bronzei sono stati realizzati tramite la saldatura di parti fuse separatamente: testa, torace, braccia (mani, piedi e gambe, distinte in tre settori).
Nonostante i caratteri di uniformità, che i bronzi presentano, l’analisi stilistica e scientifica, la stretta somiglianza della lega metallica impiegata e della tecnica di fusione, così come quella delle capacità costruttive usate nell’intarsio di lamine, in materiali diversi, che sono state applicate a parte per ravvivare le areole del petto, le labbra e i denti, possono essere utili per cercare di ricostruire l’identità sia dell’area culturale di produzione sia dell’utilizzazione originaria delle due statue.
L’attribuzione odierna, in base ai confronti stilistici oggi possibili, è di datare la statua A al periodo severo (al 460-450 a.C.), ed al periodo classico (430-420 a.C.) la statua B (v. il notevole spostamento dell’anca destra). Non sembra facile spiegare altrimenti la sopravvivenza per circa 30 anni di tali caratteristiche tanto che questi anni cadono nella fase più vitale, ricca e innovatrice del V secolo a.C. e, per di più, in quell’ambiente attico che ha ospitato Fidia e la grande bottega del Partenone. Forse queste datazioni possono ancora essere modificate anche perché sappiamo veramente molto poco di queste due statue. Anche se fra gli studiosi non si è raggiunta l’unanimità dei consensi, è molto probabile che nelle due Bronzi di Riace si debbano vedere offerte commemorative, poste dai vincitori delle “oplitodromie” (gare di corsa che si facevano indossando l’armatura completa, iniziate ad Atene nel 520 a.C. e replicate fino all’età ellenistica). La fama che investiva i vincitori delle oplitodromie veniva ricordato nel tempo proprio dalla presenza di statue simili.
Riconducibili alla mano di due differenti artisti, non è da escludere che le due statue siano state poste una accanto all’altra solo al momento del trasporto per mare e che possono essere state create solo per essere mostrate insieme. Ignoti sono sia gli autori sia i personaggi raffigurati, non si conosce la collocazione che avevano nell’antichità, né tantomeno il motivo della loro caduta in mare e quale fosse la destinazione finale dei Bronzi di Riace. Si è però a conoscenza che una serie di queste statue si trovava nell’agorà ad Atene; da qui, dopo la conquista della Grecia per mano dei romani, alcune di esse furono rimosse e avviate nel mercato di oggetti d’arte destinati ad abbellire le residenze dei vincitori. Com’è noto dal 146 a.C. inizia il trasporto a Roma di questi oggetti dalla Grecia: il relitto naufragato al largo di Mahdia, nel mare della Tunisia, trasportava uno dei più notevoli carichi del genere.
Curiosità: nel 1981 furono emessi, dalle Poste Italiane, una serie di francobolli da L. 200 raffiguranti la coppia dei Bronzi di Riace.
Nel 2011, sono stati spesi ben 2,5 milioni di euro, per la campagna pubblicitaria, dal gusto discutibile, che ha visto in primo piano i due Bronzi di Riace e che ha scatenato un’infinità di polemiche.
Samantha Lombardi

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