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domenica 21 aprile 2013

La luce artificiale una scoperta che cambiò le abitudini

L'illuminazione nell'antichità
di Samantha Lombardi


Perché la luce sia splendente, ci deve essere l’oscurità
F. Bacon

Nell’antica Roma, all'imbrunire, e durante la notte, erano solo le case dei ricchi a essere illuminate con numerose torce, mentre, ai meno abbienti era riservata la sola luce emanata dalla luna. Nel corso del medioevo non vi furono cambiamenti sostanziali nei sistemi di illuminazione artificiali. Le principali fonti di luce si ottenevano da lampade e torce ad olio, ma anche dalla cera. Gli edifici più illuminati erano sicuramente quelli religiosi, in particolare le chiese, mentre, le abitazioni, di solito, erano rischiarate dalla debole luce del focolare o al massimo da qualche torcia.
Agli inizi del Settecento, (definito, per ironia dei nomi, il secolo dei Lumi) la situazione non era cambiata dal momento che, l’illuminazione artificiale, non aveva subito grosse trasformazioni per cui si continuarono ad usare lumi ad olio ed il fuoco per mezzo di torce, candele, lumi, focolari ecc. Solo le zone centrali più importanti erano fornite di luci, anche se spesso, insufficienti, tanto che, per eventi di particolare rilevanza, si ricorreva a grandiose fiaccolate come avvenne, nel 1716, per la nascita del figlio di Carlo VI. La stessa cupola di San Pietro era rischiarata da una fila di grosse lanterne a candela. L’illuminazione delle strade era affidata anche ai lumi appoggiati alle pareti o agli angoli dei palazzi, posti spesso all’interno di altarini da dove le famose madonnelle* stradaiole, così erano chiamate a Roma le edicole sacre, spargevano verso il basso la loro incerta e debole luce ma che, con grande spettacolo suggestivo, rischiaravano il volto della Madonna.


Fu solo verso la fine del Settecento che, nella maggior parte delle città italiane, l’illuminazione pubblica iniziò a svilupparsi in modo significativo. Il primo tentativo, a Roma, d’illuminazione stradale, si evidenziò, nel 1765, con una disposizione del Monsignor Maffei, che imponeva di collocare agli incroci delle strade due grandi lanterne con il lume.
D’illuminazione pubblica si cominciò a parlare sotto il pontificato di Pio VI (1775-79) e nelle Effemeridi letterarie di Roma del 1787, un progetto che venne poi ripreso, nel giugno del 1798, con la Repubblica Francese quando un’ordinanza del Generale Goyon de Saint-Cyr, impose a tutti i proprietari di case che avevano più di tre finestre che affacciavano sulla strada, di tenere appesa, ad una finestra del primo piano, una lanterna che doveva rimanere accesa dal tramonto sino all’inizio del nuovo giorno. Sempre nello stesso anno Francesco Bettini propose un progetto d’illuminazione funzionale che mirava ad un uso moderno di strade e piazze con una distribuzione di lampioni ad olio continua, lungo l’asse centrale delle strade cittadine, realizzata agganciando gli stessi al centro di corde doppie tese tra i palazzi. Questo tipo di illuminazione fu però soppressa nel 1801.
Con l’occupazione napoleonica (1809-1814) si dispose, invece, che mille lanterne ad olio venissero sospese ad un filo di ferro, teso da una casa all’altra, nelle vie principali. Ulteriormente, settecento osterie ebbero l’obbligo di porre una lampada accesa sulla porta.
Solo ai primi dell’Ottocento, la Repubblica Romana, pianificò un primo servizio di “lampionai” che avevano a disposizione otto magazzini per i materiali, operai e impiegati a tempo pieno, il cui compito era quello di controllare la buona qualità dell’olio di lino, l’orario di accensione dei lumi e così via. Lo scopo era quello di mettersi alla pari con le altre capitali europee e di garantire alle truppe di occupazione un controllo più efficiente.
Lo Stato Pontificio, tornato al potere nel 1814, pensò bene di non cambiare queste disposizioni, anzi, aumentò il numero delle lampade a olio che furono appese a lunghi supporti di ferro articolati, che, abbassandosi, facilitavano l’accensione da terra. La situazione non cambiò fino al 1844, tuttavia, fu solo nel 1847 che il Governo Pontificio cominciò ad interessarsi dell’illuminazione a gas.
Nel dicembre del 1847 veniva appaltata alla ditta Adriano e Fratelli Trouvé l’illuminazione a gas della città di Roma. La ditta anziché eseguire il contratto d’appalto ne fece cessione a James Shepherd quale rappresentante solidale della Compagnia Inglese dell’Illuminazione a Gas e del Coke. Così nel 1852 il Governo Pontificio nelle vesti del pontefice Pio IX diede il consenso per l’introduzione del gas e, nello stesso anno, nasce, nella Roma pontificia, la Società Anglo-Romana per l’illuminazione a gas, chiamata anche semplicemente Società del Gas. Tale Società, che ebbe la concessione per illuminazione e riscaldamento sotto il suolo pubblico di Roma, doveva provvedere all’illuminazione pubblica e privata con il gas idrogeno carburato estratto unicamente dal carbon fossile da gas della migliore qualità conosciuto mentre il gas apparecchiato doveva essere perfettamente pianificato e privo di gas acido carbonico nonché di quello solfidrico. Alla fine del 1853 avvenne la prima prova di accensione e pochi mesi dopo il pontefice si recò a visitare l’officina del gas in Via dei Cerchi.

Il 2 febbraio 1854, il nuovo sistema di illuminazione pubblica fu inaugurato con solenni festeggiamenti a Palazzo Doria, il cui giardino d’inverno fu illuminato da 2000 lumi a gas. E’ pertanto grazie a Shepherd, a cui papa Pio IX conferì, il giorno dopo l’inaugurazione, un’importante onoreficenza, che si deve la prima vera e propria illuminazione della città di Roma, anche perché, da quel momento, l’espansione dell’illuminazione a gas in tutti i principali quartieri fu rapidissima tanto da rivoluzionare la vita notturna dei cittadini. Fu in questa circostanza che i Romani videro per la prima volta i lampioni verticali in ghisa che, nel corso del XIX secolo, furono uno dei temi preferiti nei disegni di di aristi e viaggiatori che si recavano nella capitale. Fra i lampioni più comuni c’erano il “modello ordinario”, il “modello Antico Corso” e quelli più piccoli in ferro e ghisa posti nei quartieri più popolari, mentre per i ponti e le piazze del centro vennero utilizzati quelli di forma elegante e artisticamente decorati, spesso disegnati da artisti famosi, come Duilio Cambellotti, un cui lampione monumentale è esposto al Museo Italiano della Ghisa, a Longiano, in Romagna. La varietà di lampioni comprendeva modelli di candelabri, lanterne e mensole. La mensola decorata con un ornato di foglie di vite, venne adottata a Roma fin dalla metà dell’Ottocento. Quando i Piemontesi, nel 1870, entrarono a Roma trovarono una estesa rete d’illuminazione pubblica costituita da 2000 lampioni a gas. La loro disposizione lungo le strade del centro è ancora oggi rilevabile dalle piccole maioliche bianche bordate di blu e con i numeri dello stesso colore, murate nella facciata dei palazzi.
Con l’avvento dell’elettricità ai primi del Novecento l’altezza dei pali aumentò notevolmente anche se ancora non tramonta l’ornato. Avvicinandosi la metà del secolo i decori si semplificano e si riducono. L’elettricità, prodotto della rivoluzione industriale, a sua volta ha trascinato dietro di se una importante rivoluzione economica e sociale che negli anni ha completamente trasformato la vita dei cittadini. La dipendenza dell’uomo da quest’ultima è andata via via aumentando nel tempo e oggi, se dovesse venir meno, il mondo rimarrebbe paralizzato.
*A Roma, stando a un censimento del XIX secolo, ci sono più di cinquecento madonnelle, quegli altarini votivi posti agli angoli delle strade, ma un tempo ce n’erano migliaia. Quasi tutte risalgono ad un periodo compreso tra il Seicento e l’Ottocento e moltissime sono dedicate alla Madonna, da cui deriva il soprannome. La loro debole luce era spesso la sola illuminazione che rischiarava dal buio notturno le stradine della città. Oggetto della venerazione popolare, erano attribuite loro capacità miracolose, di cui, la più frequente era quella di piangere. Un miracolo sospetto, secondo Gioacchino Belli che, nel 1835, dedicò alle madonnelle uno dei suoi vivaci sonetti:

Semo da capo.
Currete, donne mie; currete, donne,
A ssentì la gran nova c’hanno detto:
Ch’a la Pedacchia, ar Monte e accanto ar Ghetto
Arioprono l’occhi le Madonne.

La prima nun ze sa, ma j’arisponne
Quella puro de Borgo e de l’Archetto.
Dunque dateve, donne, un zercio in petto,
E cominciate a di crielleisonne.

Oh dio! Che sarà mai st’ariuperta
doppo trentasei anni e mesi d’ozzio?
Battaje, caristie, ruvine certa.

Se troveno però cert’indiscreti
Che vanno a bisbijà che sto negozzio
E’ un antro butteghino de li preti.



Fonte: http://www.ilpatrimonioartistico.it/

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