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martedì 22 maggio 2012

Cartagine


Cartagine, l'impero nordafricano
di Pierluigi Montalbano

Un’area importante nel I Millennio a.C. è quella del Magreb, in particolare della Tunisia, con Cartagine, una città fondata dai Tiri nel 814-813 a.C. che riesce, a partire dal VI a.C., a imporre la propria supremazia nel Mediterraneo Centrale e Occidentale. I rapporti con l’oriente diventano sempre più labili e i cartaginesi decidono di stabilire proprio in questa città nord-africana la base per il futuro.
Vicinissima all’odierna Tunisi, svolge il ruolo che nella Spagna Atlantica fu svolto da Cadice. L’area è urbanizzata, sede di un vasto agglomerato residenziale nonché dei vari consolati dei principali Stati, pertanto è difficile individuare le tracce del passato. Il mito di fondazione risale al 814-813 a.C.. Si parla di Elissa (la Didone greca), una principessa tiria, sorella del re Pigmalione di Tiro e sposata con Acherbas, il sacerdote più importante del tempio di Melqart. Pigmalione, per appropriarsi del tesoro del tempio, uccide il cognato Acherbas ed Elissa, che non vuole finire sotto il controllo del fratello, decide di allontanarsi da Tiro. Prende con sé il tesoro del tempio e i rappresentanti delle famiglie più importanti e fonda una nuova colonia in Occidente, Cartagine appunto. Fa una prima tappa a Cipro dove imbarca 80 fanciulle destinate al culto della dea Astarte, la principale divinità di Cipro, che divengono le sacerdotesse di un culto ben attestato nel mondo mediterraneo e punico, la prostituzione sacra, attività che si svolgeva all’interno del tempio. Era una funzione sacra ma allo stesso tempo economica, quella che vedeva come oggetto l’incremento del tesoro del tempio. Elissa arriva nella costa tunisina, in mano ad una popolazione indigena forte, i libici (gli attuali “berberi”).
La principessa incontra re Iàrba, capo dei libici, con il quale contratta la possibilità di fondare una colonia acquistando, con uno stratagemma, un territorio abbastanza grande. Aveva pattuito una grandezza pari alla pelle di un bue e fece tagliare delle sottili strisce di pelle unendole poi in lunghezza ottenendo una striscia lunga circa 400 m equivalente ad un’area pari ad un ettaro. Esisteva già Utica (città antica) e i rapporti con gli indigeni non furono idilliaci: Iàrba voleva sposarla per controllare la colonia, diventata importante, ed Elissa finse di voler sacrificare alla memoria del marito prima di sposarsi, poi rifiutò il matrimonio e preferì suicidarsi lanciandosi nelle fiamme piuttosto che consegnare la città in mano al re.
Questo mito dimostra che Cartagine nasce come città importante, fondata dalla principessa di Tiro con l’apporto del tesoro del tempio di Melqart. Per diversi secoli Cartagine mantenne un legame forte con Tiro e inviò regolarmente la decima come tributo poiché c’era la volontà di mostrarsi figlia di Tiro. L’elemento indigeno non venne mai completamente integrato, vi fu sempre la distinzione fra l’origine orientale della città e i libici.
Nel territorio di Cartagine abbiamo l’abitato, con tracce dell’VIII a.C. nella piana costiera, racchiusa alle spalle da una serie di colline che nella prima fase vengono destinate alle necropoli (VIII-VI a.C.). La stessa tipologia di urbanizzazione avvenne a Cagliari con l’abitato situato nella zona di Santa Gilla e la necropoli nella collina di Tuvixeddu. Le colline di Cartagine sono Byrsa, Junòn, Duimèt e Dermech. L’abitato arcaico è stato scavato da diverse missioni tedesche (sovrintendente fu Rakob). Presenta un impianto ortogonale di vie perpendicolari che precede di vari secoli l’impianto greco. Le case sono semplici e i muri sono rozzi, con zoccolo in pietrame brutto cementato con malta di fango e pavimenti in terra battuta. Gli scavi presentano strati sovrapposti e gli archeologi, quando scavano questa tipologia, si trovano davanti a strutture difficili da interpretare perché i vari muri si incastrano fra loro.
A scavo effettuato, per valorizzare l’area si deve decidere come conservare la struttura e bisogna far cadere la scelta su cosa mettere in evidenza. Dopo aver scelto la fase che si vuole rendere fruibile si ricoprono le altre e il visitatore si troverà davanti una zona ben evidenziata relativa ad un determinato periodo. Durante gli scavi sono stati individuati materiali mediterranei sia di produzione che di importazione. I materiali eubòici e nuragici mostrano la collaborazione fra questi e i tiri. In periferia ci sono gli impianti artigianali per la lavorazione della ceramica, dei metalli e del pesce che sono tenuti lontani dall’abitato per questioni di scorie, calore, gas, rumori e odori. Questo stesso sistema è diffuso nel mondo mediterraneo e punico, e ancora oggi vediamo che tutte le società cercano di costruire le zone industriali lontano dal centro abitato.
Col passare del tempo l’abitato si allarga e va ad occupare le aree delle necropoli arcaiche, che precedentemente erano occupate dal quartiere artigianale. Le necropoli si spostano verso l’esterno e le più recenti sono infatti all’estrema periferia degli abitati.

Intorno al V a.C. l’abitato si sviluppa verso sud e arriva fino all’area del tophet; successivamente l’espansione interessa anche le altre direzioni. La città arcaica, ubicata in prossimità della costa, è stata scavata da varie equipe di tedeschi (Rakob, Neemayer) e da una missione olandese con a capo Dauteck. Gli scavi hanno operato in ampie aree andando ad intaccare la stratigrafia in profondità. Per rendere fruibili i vari strati si è pensato di ricostruire i vari periodi andando a ricoprire gli scavi con pietrame di vari colori per evidenziare i vari periodi (ad esempio l’area di Magone). In pratica ogni livello ha pietrisco di diverso colore. Anche a Nora hanno fatto una ricostruzione simile.
In tutti gli scavi di Cartagine sotto gli strati bizantini, romani e punici sono venute fuori strutture più antiche: lacerti mediterranei e materiali vari che mostrano già dall’VIII a.C. un commercio intenso con i nuragici e con i greci. L’impianto urbanistico ortogonale è collegabile con l’area sui colli nella quale si trova la Byrsa che in età arcaica era occupata da numerose tombe. La Byrsa nel V a.C. viene raggiunta da un quartiere artigianale, sono visibili infatti tracce di impianti metallurgici con scorie di lavorazione, frammenti di fornace e tuyer. Nel II a.C. la zona è raggiunta dall’urbanizzazione. Secondo le fonti la Byrsa era la sede dell’acropoli. Appiano racconta che i romani nel 146 a.C. conquistarono la città combattendo casa per casa e distruggendo tutto. Considerato che i cartaginesi avevano perso già due guerre contro i romani dobbiamo ritenere che ebbero le capacità per risollevarsi e riorganizzare un’economia fiorente.
Dopo l’abbandono degli ultimi cartaginesi avvenuto in seguito alla sconfitta nella III guerra punica, Roma decise di spianare la Byrsa per edificare il nuovo foro della città, proprio per romanizzare l’area. In età Augustea si decise di ristrutturare la città e Cartagine divenne la città più importante dell’Africa. Quando i romani tagliarono la sommità della collina per ampliare l’area della Byrsa, gettarono i detriti a valle, ricoprendo con uno strato alto sette metri che sigillò le strutture puniche, quelle dell’ultima fase dell’urbanizzazione. L’ambiente abitativo è quindi ben conservato.

Le strutture puniche più recenti sono state usate solo per circa 50 anni, e oggi possiamo studiare la tipologia dell’edilizia popolare di quell’epoca. Una missione archeologica francese ha scavato la zona e sotto tonnellate di detriti è stato ritrovato il quartiere cartaginese della Byrsa. Secondo Appiano le case erano alte fino a sei piani con alzato in mattoni crudi e soffitti in legno. Le case presentano una pianta caratteristica: si affacciano su una corte centrale interna dalla quale prendono luce, aria e acqua grazie alle cisterne nelle quali confluiva l’acqua piovana che veniva canalizzata. L’ingresso è collegato alla corte attraverso un corridoio. La fronte della casa, quella sulla strada, era occupata da alcuni vani che generalmente erano destinati alle attività economiche, dunque aperti al pubblico o agli animali. Gli ambienti interni al pianterreno erano quelli di vita: cucina e locali per vivere, mentre la notte si andava nei piani alti per dormire.
Le case erano costruite su uno zoccolo in pietra grossa e alzato in mattoni crudi cementati con malta di fango. I muri erano intonacati con calce, anche per garantire che l’acqua piovana non si infiltrasse nelle camere. Gli alzati probabilmente erano progressivamente più sottili perché dovevano reggere un peso minore. Le scale mostrano la presenza della zona notte. La copertura del tetto con lastre di pietra a doppio spiovente convogliava l’acqua piovana in canalette che la indirizzavano poi verso la cisterna. Lo smaltimento delle acque reflue avveniva con dei canali che confluivano nella strada dove lo scarico era assicurato da pozzetti. Ogni casa aveva la sua cisterna realizzata con intonaco idraulico e spigoli stondati per una più agevole pulizia. Se vi era un banco roccioso sotto la casa veniva scavato un vano per ottenere la cisterna, altrimenti si scavava il terreno e si costruiva un muretto con blocchetti, a loro volta rivestiti in argilla. Le cisterne erano chiuse con lastre a piattabanda e avevano un pozzetto per attingere l’acqua. L’intonaco con il quale si rivestiva l’interno della cisterna era grigio perché era costituito da malta, inerti e piccoli carboncini per aumentare l’impermeabilizzazione. In alternativa si utilizzava il cocciopisto, materiale utilizzato anche per il tipico pavimento punico. Per ottenerlo si miscelavano degli inerti, calce e frammenti di ceramica che sono quelli che danno il colore rosato. Le strade, ortogonali, erano in terra battuta e per recuperare la pendenza presentano scale, quindi non erano percorse da carri. Le fonti parlano di una Cartagine del II a.C. in forte declino ma i riscontri archeologici, a partire dalle strutture portuali, descrivono una realtà completamente diversa e mostrano una città fiorente.
Attorno alla città bassa si sviluppano le necropoli. Le più arcaiche sono quelle di Byrsa, Dermech, Duimès, Santamonica e Odeòn. Come per Tharros, Ibiza e Cagliari, la necropoli è quella che è stata depredata per prima perché proprio in questi luoghi si trovano materiali integri e spesso pregiati. Soprattutto nel corso del 1800 gli scavi avevano ideali differenti da quelli odierni: si cercavano materiali esotici, c’era un gusto antiquario, l’archeologia era una specie di caccia al tesoro.
Un personaggio importante a Cartagine era Padre Delacr, un sacerdote che alla fine dell’Ottocento ha scavato centinaia di tombe ma, non essendo archeologo, decontestualizzava i reperti per cui oggi è difficile ricostruire i contesti. Verso la metà del 1800 sulla Byrsa è stata impiantata una cattedrale, governata dai “padri bianchi” e Delacr era uno di questi. La Tunisia era colonia francese e l’archeologia era indirizzata soprattutto dal governo francese, per cui gli italiani non parteciparono agli scavi; solo intorno al 1970 qualche missione si è occupata di scavi negli strati romani. Purtroppo i metodi di scavo erano poco sofisticati e per portare alla luce i sarcofagi si sbancavano i fianchi delle colline, determinando la distruzione di molte tombe; abbiamo recuperato molti materiali ma si è persa completamente la possibilità di ricostruire i contesti perché sono stati smontati tutti gli ambienti che portavano all’imbocco della camera. Se la tomba si trovava a 5 metri di profondità si procedeva allo smontaggio di tutto ciò che si trovava sopra.
Oggi l’area è urbanizzata ed è difficile vedere tombe, tranne che nella zona della Byrsa. Altro studioso importante è Paul Gockler, francese, che scavò moltissimo ma morì prima di riuscire a pubblicare i ritrovamenti. Ci restano i suoi appunti di scavo del 1915 nei quali si notano disegni, corredi, maschere, gioielli, bottoni, amuleti e tanti altri dettagli che purtroppo non è possibile riconoscere con certezza proprio a causa della mancata pubblicazione di un testo che riordinasse gli appunti. In origine le tombe della Byrsa si trovavano sul piano di calpestio ma lo spianamento fatto dai romani le ha coperte con tonnellate di terra e oggi le troviamo in profondità. Gli scavi del 1900 erano eseguiti a trincea con la terra disposta nei fianchi.
Uno dei tipi più antichi è la tomba a fossa, scavata nel terreno. Mentre in tutto l’Occidente in età arcaica e fino al VI a.C. il rituale di sepoltura è l’incinerazione, a Cartagine fin dalle prime attestazioni funerarie vediamo il prevalere dell’inumazione. Non sappiamo ancora il motivo di questa particolarità. Forse l’influenza dell’elemento indigeno, che praticava appunto l’inumazione, spiega questa caratteristica, ma i libici deponevano i defunti in posizione fetale e ricoperti con ocra rossa mentre le tombe cartaginesi mostrano scheletri generalmente in posizione supina con le braccia lungo i fianchi o sul petto. Tra le tombe più antiche troviamo anche qualche incinerazione secondaria accompagnata dal corredo, forse si tratta di individui ancora legati alla tradizione della madre patria. Troviamo in queste tombe oggetti di gusto orientale e perfino degli avori. La copertura delle tombe è realizzata con lastre giustapposte, a schiena d’asino.
Un altro tipo di sepoltura diffuso è quello della tomba a camera. Non sono come quelle di Ibiza, scavate nella roccia, ma simili alle spagnole, costruite al fondo di una grande fossa, soprattutto le più antiche. Dal V a.C. invece vengono direttamente scavate nella roccia anche a Cartagine. Le più profonde raggiungono i 30 metri. Sono simili a quelle di Cagliari e prevedono un pozzo verticale con imbocco di forma rettangolare. Sulle pareti lunghe, nei bordi, ci sono delle sporgenze laterali (riseghe) e specie di gradini (pedarole) che consentivano la discesa agli addetti all’inumazione. La bara era invece calata con delle funi. Alla base c’era la camera con la deposizione. Non sappiamo bene a cosa servissero le riseghe dei pozzi perché le tombe venivano riempite e le sporgenze non hanno una funzione pratica. Nei casi più semplici ad ogni pozzo corrisponde una camera, ma a volte abbiamo più camere sovrapposte, aperte nel lato breve del pozzo, che era rettangolare. All’interno possiamo trovare sarcofagi monolitici in marmo con copertura a lastre o a cassone con tetto spiovente di tipo greco.
Sopra le tombe venivano messe delle lastre a schiena d’asino per reggere la forte spinta provocata dalla terra di riempimento. A volte il soffitto era realizzato in legno pregiato ma nulla si è conservato. Un altro tipo è la tomba a cassone, costituita da blocchi in pietra e lastre poste a coltello a formare il cassone. Anche queste sono al fondo di grandi fosse e ospitavano inumazioni.
In alcune tombe tarde troviamo dei sarcofagi di tipo greco, con cassone parallelepipedo e coperchio a doppio spiovente conformato come un timpano, come il frontone del tempio greco.
Due sarcofagi che si distinguono fra gli altri, pur essendo anch’essi a cassone monolitico, presentano sul coperchio un personaggio maschile e uno femminile, forse due sacerdoti. Quello maschile ha la mano alzata in segno di saluto, o di benedizione, come quelli di Ahiram di Biblo. Il personaggio femminile presenta una veste particolare con tracce di policromia blu, nera, gialla e arancio. Come la rappresentazione della divinità nella Cueva d’es Cuyeram, mostra ali ripiegate sul corpo che nel mondo punico distinguono l’iconografia di Iside. Si è ipotizzato che la tomba sia di una sacerdotessa di una divinità femminile, raffigurata nei suoi abiti cerimoniali.
In superficie le tombe erano segnalate da stele funerarie che presentano una nicchia, un’edicola, nella quale è rappresentato un personaggio, una divinità. Si nota spesso l’influenza greca con colonne ioniche e altri elementi iconografici caratteristici. Essendo i pozzi riempiti, quindi invisibili dalla superficie, in molti casi ci sono cippi o stele funerarie che indicano la presenza delle tombe.
Uno dei contesti più importanti di Cartagine è il tophet. Fu scoperto casualmente nel 1921, è stato sottoposto a numerosi interventi di scavo mai pubblicati in modo esaustivo. A Cartagine, diversamente al consueto posizionamento a nord degli abitati, il tophet è ubicato a sud, a Salammbò, vicino ai porti. I tophet sono un fenomeno della zona centrale mediterranea: li troviamo in Tunisia (Cartagine e Suss), in Sicilia (Mozia, Lilibeo e Solunto) e in Sardegna (Cagliari, Nora, Sant’Antioco, Monte Sirai, Tharros). Sono completamente sconosciuti in Oriente, a Cipro, a Ibiza e in Spagna. Si pensa quindi ad una influenza culturale antica di matrice cartaginese, precedente alla conquista armata. Quello di Cartagine fu scoperto nel 1921 da un cercatore di pietre che vendeva le stele agli antiquari. Due appassionati (Icard e Gielly) lo seguirono negli spostamenti e scoprirono i luoghi dai quali il cercatore prelevava i materiali. Nella zona si succedettero numerosi studiosi che indagarono la parte dell’area compresa tra le strade. Ancora oggi ignoriamo l’esatta estensione del tophet perché l’area è fortemente urbanizzata e non è stata ancora completamente scavata. La stratigrafia si presenta complessa. Vi è una successione, alta vari metri, di strati che contengono migliaia di stele e urne ma non c’è una separazione netta fra le fasi in quanto il tophet è stato frequentato senza soluzione di continuità, con continui scavi per collocare altre urne. Ciò costituisce un problema perché un sito rimaneggiato determina l’incomprensione degli strati.
Il primo scavo fu di Icard e Gielly nel 1922, successivamente l’indagine fu svolta da Lapeyre 1934-36 e Carton, poi Cintas 1944-47 e infine, negli anni Settanta, fu il turno di Stager, 1975-79.
Lo scavo del 1922 fu fatto con delle lunghe trincee che scoprivano la distesa di urne e stele. Migliaia di manufatti furono portati alla luce ma non si riuscì ad abbinare le stele alle varie urne. Alcuni articoli pubblicati in quegli anni cercarono di spiegare la stratigrafia ma i contrasti fra i due appassionati e le autorità tunisine causarono l’interruzione degli scavi. Quando non c’era più spazio si ricopriva con terra lo strato esistente e si sovrapponevano altre stele e altre urne. La datazione accettata dagli studiosi è quella dell’americano Kelsey che scavò, pochi anni dopo Icard e Gielly, con l’inglese Harden, esperto nella datazione delle ceramiche.
La datazione delle stratigrafie antiche segue un metodo che si basa sulle ceramiche, poiché le monete sono utilizzate solo in tempi più recenti (dopo il V a.C.), il vetro fu introdotto in età romana e il metallo poteva essere rifuso. La maggior parte dei contenitori domestici e funerari era in ceramica, e si rompeva facilmente, soprattutto se doveva essere riscaldata col fuoco. L’argilla è un materiale che riscaldato a certe temperature diventa indistruttibile nel tempo ed era alla portata di molte famiglie dell’epoca. La datazione dei cocci avviene su base comparativa, nel senso che negli ultimi 200 anni l’archeologia ha documentato delle sequenza cronologiche relative che hanno portato ad individuare delle successioni temporali e dei luoghi di origine della produzione e delle decorazioni. Il confronto fra contesti indica la cronologia. Comparando i materiali del contesto si può dedurre quando si è formato lo strato perché i materiali più recenti sono l’indizio della datazione. I materiali antichi si definiscono “residuali”. La cronologia relativa è quella che dice che uno strato viene prima di un altro, la cronologia assoluta determina la datazione dello strato, il periodo. I vari studiosi che si alternarono a Cartagine hanno proposto datazioni leggermente differenti. Harden nel 1925 distingue tre strati principali: Tanìt I, Tanìt II e Tanìt III. Il primo strato, Tanìt I, presenta le più antiche urne, quelle del VII a.C., che si trovano scavate nella roccia o entro ciste litiche, nello strato più basso. Non ci sono stele, solo poche urne protette da cumuli di pietre o in cavità della roccia. Datato intorno al VII a.C. si caratterizza per l’assenza di monumenti lapidei. Lo strato Tanìt II, VI-IV a.C., vede tante stele e cippi. L’ultimo strato si data al 150 a.C., data della distruzione di Cartagine da parte dei romani, e vede la presenza di un numero enorme di urne e stele, ma di diverso tipo.
Negli anni Trenta un sacerdote, Lepeyre, scavò un terreno di proprietà di Carton che morì poco dopo l’acquisto della proprietà e non poté pubblicare gli scavi.
Meglio documentato è lo scavo del Cintas che fece due campagne. La prima, nel 1944, venne effettuata nella parte nord, in un’area dove la stratigrafia non era completa, mancavano gli strati più bassi perché il tophet aveva raggiunto la zona estrema del temenos (nome del recinto sacro che chiude il tophet). Lo studioso individuò il muro di recinzione costituito da una serie di lastre, quindi conosciamo il limite nord del santuario, mentre ignoriamo i limiti degli altri punti cardinali. Nella seconda campagna, quella del 1946, individuò una struttura alla quale diede il suo nome, la Cappella Cintas. Si tratta di un edificio con una cameretta centrale circondata da muretti di piccole dimensioni che la dividono da altri piccoli vani. C’era un deposito di fondazione che presentava materiali arcaici particolari, molto diversi fra loro, sia di importazione greca che locali. Cintas, basandosi sulle fonti classiche e sulla tipologia di un’anfora, pensò ad una fase antica di fondazione di Cartagine e ipotizzò il XII a.C. ma studi recenti hanno dimostrato che quell’anfora cicladica ritrovata, è del 750 a.C. Comunque questo edificio è un unicum nei tophet e ancora non siamo in grado di interpretarlo in maniera certa. Sempre Cintas ha individuato un breve tratto del temenos del tophet, costituito da una serie di lastroni piazzati verticalmente.
Dopo il Cintas operò lo Stager che negli anni Settanta, a seguito di un appello dell’Unesco che coinvolse molte missioni internazionali (tedesche, danesi, inglesi, italiane, americane, polacche e francesi), iniziò gli scavi a Cartagine e accettò la distinzione in tre fasi proposta da Harden. A oggi sono state pubblicate solo una parte delle stele e mostrano diverse tipologie. Stager riprende la stessa stratigrafia del Cintas con Tanìt I, II, III, ma con datazioni differenti divise in nove sottogruppi. Tanìt I ha poche urne deposte in piccole cavità, datate 730-600 a.C. Tanìt II 600-400 a.C. vede la comparsa dei cippi con stele a trono. Tanìt IIb VI-III a.C. ha cippi con stele a sommità triangolare e edicola. Tanìt III arriva al 146 a.C.
Altri esempi sono le stele costituite da un’edicola o dal frontespizio di un tempio con all’interno la raffigurazione della divinità. Le stele ad edicola presentano divinità sia aniconiche (betilo o idolo a bottiglia), che iconiche, con figure antropomorfe, più spesso femminili, vestite o nude. Non sappiamo se volessero rappresentare templi, ma dal VI al IV a.C. ci sono edicole che presentano elementi architettonici che rimandano all’Egitto: sul basamento ci sono pilastri (non colonne) sormontati da una trabeazione con sopra una modanatura sgusciata a gola egizia come coronamento. Nell’architettura templare punica si riprendono i caratteri egiziani ma nelle stele manca l’aggetto frontale (che però viene ripreso lateralmente). Sopra le modanature ci sono delle semplici fasce o serpenti, simboli solari egiziani come urei discofori con in testa un disco solare (fregi ad urei), simboli astrali come falce lunare o sole alato
Tutte le stele e i cippi erano tridimensionali e si trovavano nel secondo strato del tophet, in Tanìt II. Verso il IV a.C. c’è un cambiamento della tipologia con l’introduzione di stele che perdono la tridimensionalità e mostrano una lavorazione a bassorilievo o un’incisione solo sulla faccia a vista (Tanìt III). Abbiamo semplici lastre suddivise in registri, sormontate da un timpano con acroteri (elementi greci). Nei registri troviamo iscrizioni, fregi, animali, segni di Tanìt, caducei e altri simboli come sole alato, capitelli ed elementi vegetali.
Il bètilo, la pietra sacra, è rappresentata come un pilastro con sommità tronca o arrotondata. Può essere singolo o associato (diadi o triadi betìliche) e a Soùssa ci sono 5 bètili affiancati. Altro simbolo femminile è la “losanga”, raro ma non a Cartagine. Le figure maschili si rifanno al mondo iconografico orientale, quelle femminili al mondo egizio.
A Cartagine abbiamo anche notizie di un tempio di Eshmun ma non ci sono tracce. Solo le fonti ne parlano ma quando la Byrsa fu spianata dai romani questo tempio fu distrutto completamente.
Un’altra fonte, Appiano, ci parla di un tempio di Apollo (il Reshef punico) saccheggiato dai romani al momento della presa della città. Sul tetto c’erano foglie d’oro. I tedeschi hanno forse individuato questo tempio ma si tratta di poche tracce. La ricostruzione proposta dalla missione tedesca mostra un edificio con pronao, cella e penetrale (in un piano più basso) diviso in tre ambienti. Nei vani più interni sono state trovate una serie di crètule o bulle, palline di argilla cruda utilizzate per sigillare i documenti, che si sono conservate solo perché i romani bruciarono l’edificio, causando l’indurimento della pasta. All’epoca i templi avevano una funzione sacra accompagnata da quella economica, da quella amministrativa e di archivio. I documenti ufficiali erano conservati nei templi e a Cartagine tutto il materiale scrittorio (papiri egiziani) veniva scritto, arrotolato, legato con cordicelle e sigillato con le cretule. Sono manufatti che presentano su una faccia l’elemento iconografico (navi, palmette, decorazioni) e sull’altra un dorso di scarabeo, simbolo solare egiziano. Ogni sigillo era impresso con gli scarabei (anelli o timbri) tutti differenti fra loro, di proprietà delle famiglie delegate a governare le città. C’erano varie scene con Iside che allatta Orus o con altre immagini. Le cretule del tempio di Cartagine portano impressa una doppia immagine (all’esterno il segno del sigillo e all’interno quello del papiro). Le cretule erano conservate nei templi, insieme ai documenti.
A sud della città ci sono i porti. Uno rettangolare esterno, utilizzato come struttura mercantile, e uno circolare, più interno, con funzioni militari e all’interno un isolotto per l’ammiragliato. I romani riuscirono a far breccia nelle mura di fortificazione adiacenti le strutture portuali. Il porto militare poteva contenere quasi 200 navi. Nel III a.C. venne realizzata un’importante opera con i due nuovi porti. L’archeologia ha fornito dati opposti a quelli delle fonti che parlano di una Cartagine fiaccata dai romani. Intorno al 150 a.C. il porto poteva contenere quasi 200 navi da guerra e la città doveva essere ricchissima. Catone aveva dunque ragione quando nei discorsi al senato di Roma avvertiva che Cartagine era potente e bisognava preoccuparsi. Sia nell’isolotto che nella parte perimetrale del porto c’era un colonnato con degli spazi che permettevano di portare a secco le navi nella stagione invernale. Sono rimaste tracce di opere murarie e scivoli lignei.
Anticamente c’era un porto lagunare arcaico, ubicato in quello che oggi è lo stagno di Tunisi, a sud della città. Scavi recenti hanno dimostrato l’esistenza di un canale scavato che andava dallo stagno fino ai piedi della Byrsa. Non sono ancora state fatte indagini approfondite ma si è scoperto che il canale venne interrato e furono costruiti i due nuovi porti. Il porto militare era chiuso con catene ed era accessibile solo da quello rettangolare. Bisogna tener conto che la navigazione d’altura era un’attività esclusivamente estiva, pertanto durante la stagione fredda le navi erano tirate in secca negli appositi spazi ricavati nelle strutture. L’edificio dell’ammiragliato era composto da una parte bassa con i vani per le barche e una parte alta per i militari.
Le fortificazioni arcaiche sono state indagate dagli scavi tedeschi che hanno individuato due muri riferiti alla cinta antica. Nel V a.C. venne impiantato un nuovo sistema composto da una serie di torri, unite da bastioni, che circondava la città, soprattutto sul lato a mare. Negli anni Cinquanta sono state individuate delle trincee con palizzate, interpretate come una difesa realizzata con materiali deperibili, lignei. Cartagine, era difesa da una fossa regia per proteggersi da eventuali attacchi delle popolazioni indigene, i berberi libici, che avevano una propria identità culturale. Questi subirono l’acculturazione punica ma mantennero anche la propria connotazione. Quando Cartagine, nella colonizzazione di Sicilia e Sardegna, trasferisce parte della popolazione libica nei nuovi territori, solo i rappresentanti sono cartaginesi doc. Nella cultura punica sarda interagiscono, quindi, elementi tiri e libici che si integrano ai locali.

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