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lunedì 16 gennaio 2012

La statuaria di Monte Prama - 1° parte di 2


La statuaria di Monte Prama
di Marco Rendeli


La “profezia sul passato”

Colgo l’occasione offertami dai curatori di questo volume, che ringrazio, per affrontare un quesito spinoso per il quale, seppur suscitando interesse da parte di alcuni studiosi, è difficile poter offrire soluzioni: il problema che sottopongo alla riflessione in questo capitolo è quello della ricostruzione di un monumento distrutto con volontà assolutamente ferma e che non ha lasciato adito a dubbi quale quello a cui vanno ascritte le statue rinvenute a Monte Prama. La scoperta di questo eccezionale complesso e il recente restauro voluto con tenacia e ferma determinazione da Antonietta Boninu hanno riaperto il confronto fra studiosi soprattutto sulla iconografia delle statue, sui confronti con la piccola plastica in bronzo, sulla paternità dell’artigiano che le ha scolpite e soprattutto sulla datazione del complesso. Molto meno sulla collocazione e sulle possibili formule compositive del gruppo statuario: da questo punto di vista si è dibattuto molto sulla relazione del complesso con le tombe sottostanti, nonostante la ferma convinzione di Carlo Tronchetti (il quale ha diretto gli scavi assieme a Ferrarese Ceruti dal 1977 al 1979) che i due eventi non potessero essere scissi (Bernardini, Tronchetti, 1985, p. 229; Tronchetti, 1988, p. 74; 1991, p. 215; 1997, p. 13; 2005, pp. 145-7). Quel che interessa maggiormente in questa sede è cercare di concepire un’ipotesi che tenga conto delle componenti che partecipano alla creazione del complesso: la più importante tra esse è la committenza, che definisce le linee guida e il messaggio per la composizione dell’opera. Trattandosi di una committenza “privata”, ovvero ristretta alla figura di un eminente personaggio, o insieme al gruppo che egli rappresenta e che poi lo deve seppellire, questa si commisura e si interfaccia con una bottega artigianale specializzata nella scultura che ne assume i contenuti, ne definisce una forma che rispecchi i desiderata, ne elabora un progetto rispondente a un sistema già costruito. Sarà sviluppato in altra sede, invece, un altro aspetto del problema: quello del recepimento del messaggio dal momento in cui il complesso è stato portato a compimento. In altre parole, se la sua conoscenza rimane patrimonio mantenuto all’interno della famiglia allargata che lo ha creato, quindi monumento a carattere spiccatamente privato benché diventi un segnale importante nel territorio, o se la sua conoscenza si espanda a superare confini della famiglia allargata per acquisire una notorietà più ampia e diventare portatore di valori differenti rispetto a quelli concepiti nella sfera familiare, per assumere, con altre parole, caratteri collettivi. La costruzione di un programma non è, quindi, la somma di una serie di elementi presenti nel complesso statuario, ma è il prodotto di fattori la cui interpretazione deve essere coerente con tutto il progetto che di per se stesso è portatore di un sistema semantico dal senso compiuto. Da questo punto di vista un’analisi e un’interpretazione di questo tipo condurrebbero all’eliminazione di una serie di suggestioni che rispecchiano forme monumentali estranee alla Sardegna della prima metà del I millennio a.C.: ad esempio, se fosse stabilita una stretta connessione fisica fra tombe e complesso funerario potrebbe essere verisimile un’ipotesi di creazione di una sorta di promenade monumentale. In questo caso sarebbe forte il fascino di modelli orientali: essi potrebbero essere anche desunti dalla formazione di quello che ritengo essere stato l’artefice materiale del complesso, proprio perché essi potrebbero essere stati parte del patrimonio conoscitivo sviluppato dall’artigiano (mi riferisco in questo caso a una figura che conosce la cui origine artistica potrebbe essere collegata alle scuole siro-ittite che operano fra XII e VII secolo nella Siria settentrionale e che sono responsabili di importanti programmi decorativi pertinenti all’edilizia monumentale): esso si concretizza soprattutto nelle realizzazioni in cittadelle siro-ittite con scene processionali fra XI e VIII a.C. (a Carchemish, Zincirli o Hama) (Matthiae, 1997; Mazzoni, 1997a, 1997b, 2000; Mazzoni, Merlo, 2006); altrimenti si può riferire a quelle ben più imponenti che dominano i palazzi assiri fra IX e VIII secolo (Matthiae, 1996, 2009). Si tratta però di modelli distanti da molti punti di vista e non solo spaziali o culturali: una prima considerazione riguarda il fatto che in tutti quei casi ci si riferisce a programmi decorativi creati per rappresentare il pensiero del sovrano in realtà urbane complesse e antiche, con una lunga tradizione alle spalle. In altre parole, essi sono fondamento di un progetto che riguarda la società dei vivi e soprattutto opere che, pur essendo state concepite da una sola persona, assumono un rilievo pubblico e di autorappresentazione del potere. Esiste poi una seconda via che lega il gruppo statuario a uno spazio consacrato di carattere civile piuttosto che funerario, più precisamente un edificio che potrebbe essere un tempio a megaron situato a qualche centinaio di metri di distanza o, in alternativa, da ricostruire nell’area delle tombe. Massimo Pittau, in un suo recente lavoro, propone la ricostruzione di una aedes nella quale i cosiddetti “pugilatori” potrebbero avere la funzione di “colonne-telamoni” (Pittau, 2008, pp. 27-30).

Nel primo caso si scioglierebbe il legame fra area funeraria e complesso statuario, legame che sia Tronchetti che Paolo Bernardini ritengono molto forte e che viene avvalorato dal rinvenimento nella tomba 6 di un frammento di scarto di lavorazione di uno scudo: dunque appare difficile sciogliere questo nesso. Nell’altro ci si rivolge a modelli architettonici altri, in questo caso greci o, forse meglio, greco-coloniali (l’Olympeion di Agrigento?), sicuramente molto più tardi rispetto al momento della realizzazione del nostro complesso statuario e comunque fuori da ogni concezione fino a quel momento nota per il mondo nuragico o tardo-nuragico, senza tenere poi in alcuna considerazione problemi di statica e di conformazione delle statue in oggetto. Questo tentativo mi pare l’epilogo di una fase della ricerca, propria degli anni Novanta del secolo appena trascorso, nella quale si cercava di ancorare le nostre statue vuoi alla scultura ellenica, vuoi alle esperienze maturate nell’Italia preromana, con risultati tanto scarsi quanto deludenti. Il problema, come ho già avuto modo di affermare in precedenti contributi, sta nel metodo, ovvero nelle scelte da intraprendere lungo la via attraverso la quale si affronta la lettura di questo contesto (Rendeli, in corso di stampa). In primo luogo va riaffermata l’unicità di questa esperienza non solamente nel contesto isolano ma anche nell’intera area mediterranea: se non si parte da questo punto, che è evidente risultato di un rapporto fra committenza e artigiano o bottega di artigiani, non sarà poi possibile creare un confronto con altri complessi che per altre civiltà del Mediterraneo centro-occidentale nel corso dei primi secoli del I millennio a.C. possono essere state realizzate con modalità del tutto simili a quelle che ipotizziamo per Monte Prama. Non è un caso che lungo la costa tirrenica della penisola la grande statuaria in pietra a tutto tondo sia l’esito di un fenomeno di incontro e di scambio che ha prodotto alcune straordinarie anomalie rispetto al passato (Colonna, Hase, 1984). Con ciò non si vuol dire che precedentemente non siano esistite esperienze nel campo della scultura in Italia come anche in Sardegna (Lilliu, 1981, pp. 187-90; 1997). Si vuole piuttosto porre l’accento sul fatto che queste esperienze sono il frutto di una nuova pagina artistica nella quale i protagonisti risultano diversi (Rendeli, 2007). Ciò che distingue la fase orientalizzante nell’area che da Veio giunge sino a Felsina è una nuova cifra stilistica dei complessi realizzati, una loro collocazione quasi esclusivamente funeraria, la loro relazione a esperienze di breve se non brevissima durata che solamente con grande difficoltà e in pochi casi riescono a creare una scuola che mostri forme di continuità con quelle dei pionieri. E se ormai oggi appare acclarato il collegamento fra queste prime esperienze di grande scultura (antropomorfa e non) e il mondo orientale a Ceri, Veio, Casale Marittimo e Felsina, un poco più tardi a Vetulonia6, è altrettanto evidente come la relazione fra queste prime manifestazioni e la sfera funeraria sia tratto comune non solamente alla penisola italiana, ma anche a gran parte del Mediterraneo, dalla Grecia alla Spagna meridionale, seppure con tempi e modalità differenti. Un tratto comune però si coglie in queste esperienze: laddove le forme di prima statuaria interessino le comunità locali, piuttosto che strutturazioni coloniali “altre”, si riscontra una prevalente ed evidente volontà della comunità indigena di imporre il proprio programma e il proprio pensiero. In altre parole, il tema, la storia, la memoria che scaturisce da questi monumenti è quella dei committenti: sono loro che rimodulano il loro codice sociale “uscendo allo scoperto” e utilizzando le nuove iconografie portate dagli artigiani (Colonna, 2000, p. 55). Queste si adattano al pensiero del committente e alla natura sociale del messaggio, creano nuovi repertori simbolici che sono evidentemente il frutto di una sintesi fra la “domanda” locale e l’“offerta” artistica dello scultore, reinventando la tradizione nella quale la natura del messaggio rimane sempre e saldamente patrimonio della committenza.

La situazione che in questi ultimi anni si sta evidenziando per la Sardegna dei primi secoli del I millennio a.C. non è differente rispetto a quella letta e interpretata per la penisola italiana: come avveniva sul versante tirrenico, erano in atto mutamenti sociali e organizzativi profondi e, a mio modo di vedere, endogeni, sostanzialmente dettati non da altri, ma propri di quei cambiamenti che ogni società vitale sviluppa al suo interno. In questa “età della trasformazione” che ha le sue salde radici nella società del tardo Bronzo, le statue di Monte Prama rappresentano la punta di uno dei tanti iceberg che sono ben lungi dall’essere compiutamente conosciuti e interpretati, in Sardegna e in altre parti del Mediterraneo. Tanto più che, a differenza di quanto possiamo osservare nell’area levantina o nel Vicino Oriente, questi fenomeni sono spesso legati saldamente, come già precedentemente affermato, alla sfera funeraria: la spiegazione di questo fenomeno, nell’area egea, nell’Italia tirrenica, nella Spagna meridionale e anche in Sardegna, sta nel fatto che proprio in questa fase, nelle aree appena nominate, si vengono strutturando, in un percorso che appare difficile e tortuoso, nuove forme di organizzazione più articolate e complesse. In questi nuovi modi del vivere assumono un peso determinante le aggregazioni di carattere familiare allargate, nelle quali si riconosce, nel momento in cui escono allo scoperto ed emergono, la presenza di gruppi aristocratici. L’insieme di questi aristocratici, che sono uno dei tratti caratterizzanti delle nuove società complesse, evidenzia una loro forte capacità di autorappresentazione nelle nuove strutturazioni che si vanno formando seppure in tempi e con modalità differenti: il risultato che abbiamo davanti a noi è in quasi tutti i casi quello di evidenze monumentali che apparentemente pertengono alla sfera privata, della famiglia allargata in cui sono concepiti, piuttosto che a scelte di carattere collettivo relative alla società nel suo complesso. Ciò che lega, ad esempio, l’interpretazione della statuaria di Ceri, Veio, Casale Marittimo, Cerveteri, più tardi di Vetulonia e in una fase ancor più recente del complesso residenziale del Murlo, alle prime manifestazioni che possiamo leggere su urne a capanna, nel biconico di Montescudaio o anche nel carrello di Bisenzio, è quella della esaltazione della propria casata che si attua per mezzo di un saldo legame con il passato, con i valori e la storia dei propri antenati. I nuovi personaggi eminenti
escono allo scoperto cercando nella loro storia e nelle loro radici mitiche e mitizzate l’autolegittimazione all’uso del potere che hanno acquisito, alla consapevole autorappresentazione dello stesso. Seguendo questa traccia e cercando di adottare una metodologia rigorosa nella definizione degli elementi che compongono il quadro e della loro possibile composizione, penso che sia possibile compiere ulteriori passi in avanti per la lettura del complesso di Monte Prama e, in conclusione, proporre un’ipotesi ricostruttiva coerente. Il problema è proprio quello del rigore e della consapevolezza che ogni elemento sia parte di un programma dal quale scaturisca un sistema semantico dal senso compiuto: le statue, antropomorfe e non, costituiscono solo una parte di questo, non il tutto. Se così non fosse potremmo giungere a riconoscere e a ipotizzare la presenza di una storia sarda narrata per immagini riconoscibili e interpretabili grazie a racconti “mitici” trasmessi oralmente, non diversamente da quanto mette ben in evidenza Giancarlo Scoditti nell’introduzione alla recente riedizione del volume di Bronisław Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale (Scoditti, 2004, pp. XIII-XVI). In altre parole, riprendendo la felice intuizione di Roberto Sirigu, saremmo di fronte a un complesso di dati che potremmo definire come “memoria culturale” della committenza che si autorappresenta e si autolegittima (Sirigu, 2007, pp. 41-5). Questo limite non porta a ulteriori indicazioni (Rendeli, in corso di stampa, a e b), perché nell’analisi del complesso scultoreo si possono intuire solo alcuni elementi che possono far prefigurare l’esistenza di un paesaggio all’interno del quale collocarlo, ma non recano alcun elemento sull’organizzazione dello stesso. Nei precedenti tentativi di esegesi del complesso, pur avendo notato e messo in evidenza alcune anomalie, non avevo avuto la capacità di pensare che esse avessero la dignità per un loro inserimento nel quadro che tentavo di ricomporre. Solamente una riflessione meno emotiva, più a mente fredda, che si è stratificata in questi ultimi mesi, ha permesso di compiere nuovi piccoli passi che portano a ipotizzare opzioni diverse. Le anomalie presenti nel complesso di Monte Prama sono evidenti, a partire dal dato macroscopico del complesso scultoreo in quanto tale rispetto a un panorama sardo dell’inizio del I millennio a.C., capace di elaborare elementi decorativi coerenti con forme di architettura di carattere sacro e comunque non pertinenti alla riproduzione della figura umana (Lilliu, 1975-77, 1981, 1997; Contu, 1981, 1998; Moravetti, 1990). Un’ulteriore anomalia è rappresentata dal contesto in cui è stato rinvenuto il complesso: è già stata precedentemente riportata la convinzione di Tronchetti che tombe e statue fossero parte di un unico monumento. A tutt’oggi, ovvero a circa 35 anni di distanza dai primi scavi, non si è proceduto all’elaborazione di una pianta del sito completa e dettagliata che riunisse le emergenze delle indagini Bedini e quelle Ferrarese Ceruti- Tronchetti. Da quel che è dato ricostruire mi pare proponibile il fatto che si sia di fronte a un sepolcreto complesso e segmentato in diverse unità, composte da più tombe singole, realizzate in momenti differenti. Non dunque una necropoli, ma solo una parte di essa (un nucleo gentilizio?) che viene monumentalizzato e deliberatamente disposto in forma di un unico serpentone con trentatre tombe allineate una dietro l’altra e chiuse da una delimitazione di lastre poste di taglio a creare un piccolo recinto che definisce un luogo consacrato 11. Per quanto di scarso numero e poco note siano le tombe di Età del Ferro in Sardegna, siamo di fronte a una modalità di organizzazione di questa unità che appare un unicum nell’isola: per quel che mi è dato sapere, questo tipo di disposizione non ha confronti nella penisola italiana, e più in generale in area mediterranea, in una fase fra X e VII a.C. Una pur sommaria ricerca sui modelli organizzati degli spazi delle comunità dei defunti traendo degli esempi paradigmatici non offre risposte simili a quelle visibili a Monte Prama: potremmo fare riferimento, in ambito ellenico, al complesso di Lefkandi, dove i nuclei di sepolture, che si concentrano sul lato orientale dell’heroon di Toumba, sono disposti in maniera apparentemente casuale (Lefkandi, 1990, 1993, 1996; Popham, 1994); oppure, in un contesto ben diverso, coloniale, all’organizzazione dei family plots della necropoli di San Montano a Pithekoussai, dove nella stratigrafia orizzontale e verticale possiamo cogliere l’entità del gruppo familiare sepolto e le sue declinazioni nel corso del tempo (Ridgway, 1984; Buchner, Ridgway, 1993; Bartoloni, Nizzo, 2005; Nizzo, 2007); oppure nel contesto indigeno di Pontecagnano nella disposizione in gruppi di famiglie allargate, che però non presentano forme di allineamento simili a quelle attestate nel nostro sito (Cozzo, 2003).

Domani la 2° e ultima parte

Nei disegni le tre tipologie di personaggi rappresentati nelle statue.

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