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sabato 31 dicembre 2011

Tramonto a Occidente - Romanzo di Luciano Gometz


Tramonto a Occidente
di Luciano Gometz


Fin dalle scuole elementari abbiamo immaginato storia e geografia come due facce di una stessa medaglia, in relazione inscindibile. I fatti che si svolgono in certi luoghi, e i luoghi che acquistano rinomanza dai fatti che vi si sono svolti. Chi di noi ricorderebbe oggi quel fiumiciattolo che è il Rubicone se Cesare non lo avesse attraversato con le sue legioni? Chi riconoscerebbe il villaggio belga di Waterloo se Napoleone non avesse concluso precisamente lì la sua folgorante carriera? La casistica potrebbe continuare all'infinito.
Eppure c'è un luogo a occidente delle vostre città, una terra dove esiste una geografia senza storia. Si fa presto oggi a dire Occidente. Potrebbe essere Madrid come New York, Lisbona come Santo Domingo. Ma ci fu un tempo, migliaia di anni fa, nel quale Occidente voleva dire prima di tutto tramonto, l'ansia indicibile del tramonto. Perché non erano poi sicuri, quei nostri antichissimi progenitori, se l'indomani il sole sarebbe sorto ancora, a dispensare come al solito luce e calore. Qualcosa poteva trattenerlo là, nelle regioni misteriose dove si inabissava, o poteva ben decidere di trattenervisi lui stesso, dopotutto era un Dio. Che ne sapevano loro di Newton e di Galileo, e non c'erano stati ancora i romani, e neppure i greci, che la sapevano più lunga di tutti. Così ad ogni tramonto, gli prendeva il magone a quei poveri antenati, e si radunavano attorno al fuoco, quel misero surrogato del sole, e facevano l'amore, che anche a quei tempi funzionava da potente ansiolitico. con l'Oriente invece era tutta un'altra storia.

Era di lì che il primo incerto chiarore annunciava che...sì, il sole arrivava, e l'orribile tenebra si sarebbe presto dissolta. Era di lì che erano arrivate tutte le cose buone e belle. Di lì avevano fatto sapere che se anziché strappare le spighette di grano e di orzo selvatico e mangiarti subito i pochi semini li mettevi invece nella terra tenera, dopo un poco ne avresti raccolto 20 volte tanto e di migliore qualità. Di lì avevano insegnato che quella simpatica piantina dai fiori celesti ti dava un sacco di cose: dai semi potevi estrarre un olio, e se li macinavi in farina potevi curarci i foruncoli, se poi mettevi a macerare gli steli potevi farci addirittura un tessuto, e come erano seducenti le donne quando si drappeggiavano addosso quelle loro vesti di lino. Di lì era arrivata quell'invenzione straordinaria, che ti permetteva di ricordare senza sforzo, anche dopo un anno o più, che il pastore Kubabu ti aveva portato i 10 Agnelli che ti doveva come fitto per i tuoi pascoli, mentre il pastore Enkidu, quel furbacchione, non li aveva ancora portati. E potevi anche far sapere al tuo amico nella città vicina che tuo figlio sarebbe stato contento di prendere in moglie sua figlia, e tutto questo evitando le scomodità del viaggio, soltanto incidendo dei segni su una tavoletta. Oh, non era facile per niente incidere quei segni, e meno che mai capirne il senso.

Ti dovevi applicare fin da bambino, rinunciando al gioco, non potevi correre libero tra i canali e i canneti rincorrendo uccelli e lucertole, e ti battevano anche, se non imparavi alla svelta, ma ne valeva la pena. Quando avevi imparato per bene, consegnavi al maestro la tua bella tavoletta senza errori, il maestro ti dava una collana di lapislazzuli da appendere al collo, e con quella collana eri veramente arrivato. Tutti i padri ti correvano appresso per darti le figlie, e a te restava la piacevole incombenza di scegliere la più bella. Il re ti mandava a chiamare, ti faceva cenare con lui, ti affidava la città più lontana del regno perché la amministrarsi in suo nome. Dopo qualche anno ti richiamava a corte, e ti affidava una missione che a nessun altro era stata affidata. Dovevi varcare il grande mare, il mare dell'Occidente, e vedere cosa vi fosse di là. Qualcuno lo aveva fatto, tanto tempo prima, ma se ne era perso il ricordo. Rimanevano dei racconti confusi che parlavano di una grande isola dal clima dolcissimo, piena di piante e animali di ogni tipo, dal suolo fertile, ricca di acqua e di metalli. E l'argento, il preziosissimo argento che alla corte del faraone faceva premio sull’oro, era così abbondante che i marinai, per portarne via di più, abbandonavano sul posto le loro ancore di piombo e ripartivano con ancore d'argento fatte apposta. E tutta l'isola era disseminata di torri di pietra, ce n'erano a migliaia, una su ogni collina, e dal mare non poteva arrivare un fuscello che non fosse prontamente avvistato, e se uno arrivava in pace era bene accolto, ma se le sue intenzioni erano ostili, aveva finito di campare. Perché quelle torri erano abitate da un popolo forte, bellicoso, indomabile. Un popolo ricco.

Avevano messo a frutto tutta l'isola, possedevano greggi e armenti, estraevano e lavoravano i metalli con rara maestria. Dal mare pescosissimo traevano grandi quantità di quei piccoli pesci azzurri, che salati ed essiccati commerciavano ovunque, e ancora oggi si chiamano col loro nome dalla Scandinavia alle coste dell'Africa, dal Portogallo al Libano. Scorrevano il mare con navi nere e veloci, non tenendosi sotto riva come facevano tutti, ma fendevano il mare aperto sicuri della rotta, e ogni angolo di costa era loro familiare. Ma non dimenticavano di essere prima di tutto guerrieri. Quando erano schierati a battaglia incutevano spavento ai nemici. Portavano elmi dalle lunghe corna, scudi rotondi, corazze e schinieri di bronzo splendente, pesanti spade a doppio taglio che con un fendente aprivano un uomo in due. Gli arcieri con i grandi archi potevano colpire il bersaglio a 300 passi, e c'era anche un corpo armato con lunghe lance come le sarisse macedoni, non sappiamo come si chiamassero ma possiamo vederne i modellini in bronzo. Un giorno misero assieme una coalizione di popoli: i Tjekker, i Danua, gli Shekelesh, i Tursha, i Lukka, gli Akawasa, i Peleset, i Weshesh. E poi c'erano loro, i Shardana dal cuore ribelle. Caricarono tutti sulle loro navi e si diressero a Oriente. Devastarono il Peloponneso e Creta, Cipro e le coste dell'Asia minore, poi si scagliarono come furie contro l'Egitto, la superpotenza dell'epoca. I confederati e gli egizi se le suonano di santa ragione, ma lo scontro fini in parità, tanto che il faraone, per evitare guai peggiori, preferì venire a patti. Convocò i loro capi, disse che l’Egitto era grande abbastanza per tutti, offrì terre e bestiame, e un posto nell'esercito per i loro figli, che andassero a menar le mani con gli Ittiti che premevano a nord-est. Naturalmente non poteva raccontarla così, perché lui era Mer-En-Ptah-Men-Ke-Per-Re-User-Ma-Re, il signore delle Due Terre, il figlio di Ra, il Dio vivente. La televisione non c'era ancora, ma l'imbonimento mediatico l'avevano già inventato, così fece scrivere a caratteri cubitali sui piloni dei templi che quegli schiumatori venuti dal mare erano stati circondati, uccisi a migliaia, ammucchiati a pezzi sulla spiaggia, le loro navi affondate e bruciate. Intanto se ne andava in giro tronfio col suo battaglione scelto di guardie del corpo shardana, tanto quelli non sapevano leggere. Non sapevano neppure scrivere, purtroppo, ed è stato un vero peccato, perché ci siamo persi un fior di storia che a paragone la guerra di Troia con Ettore e Achille e tutto il resto della compagnia avrebbe fatto la figura di una bega di condominio. Non conosciamo la loro storia, ma quel poco che ne sappiamo ci riempie ugualmente di stupore. 3200 anni prima dello sbarco in Normandia, i shardana erano in grado di concepire e attuare operazioni anfibie ad ampio raggio, utilizzando deliberatamente la loro supremazia navale e l'effetto dirompente, sul piano strategico e tattico, del fattore sorpresa. Se poi consideriamo i resti materiali della loro civiltà, lo stupore non può che mutarsi in ammirazione. Tutto il territorio della Sardegna è costellato da circa 8000 nuraghi, ma abbiamo motivo di ritenere che nel periodo della massima fioritura fossero decisamente più numerosi. Quelli mancanti furono letteralmente spianati dall'opera incessante delle generazioni successive, che dall'epoca romana fino quasi alle soglie del 900 utilizzarono quel materiale abbondante e bell'e pronto per costruire interi paesi, e da ultimo nell'800 tutto il reticolo di muretti a secco che rende così caratteristico il paesaggio della Sardegna centrale. L'edificazione di così tanti nuraghi deve aver necessariamente comportato l'esistenza di intere categorie di maestranze specializzate (cavapietre, scalpellini, maestri d'ascia, muratori) svincolate in modo permanente dalle esigenze delle produzioni primarie (produzioni di cibo) affidate invece a contadini e allevatori. Doveva poi esistere un'intera classe di fonditori e artigiani del metallo, che produceva a getto continuo la gran varietà di armamenti necessari alle esigenze dell'esercito e della flotta, ma anche tutto quanto occorreva all'agricoltura e all'ambito della vita privata. Producevano anche tutta una serie di statuine, i famosi bronzetti, raffiguranti uomini, donne, animali e navi, quelle navi che prima dell'Inghilterra di Nelson, prima di Roma, prima di Atene imposero in tutto il Mediterraneo la talassocrazia dei shardana.


Stupefacenti navi, snelle e affusolate quelle da guerra, panciute e solide quelle da carico, veri cargo dell'antichità, dotate di alette stabilizzatrici sotto la chiglia, un ritrovato che gli ingegneri navali hanno riscoperto solo nei primi anni del 900. Solcavano il mare in tutte le direzioni, commerciando o talora depredando, la pirateria non era allora così disdicevole. Omero ci racconta che Achille si vantava di aver messo a sacco 90 città. Possiamo vedere al vivo l'aspetto del re e dei guerrieri, ma anche della gente comune, il portatore d'acqua, il venditore di ciambelle. Possiamo vedere le donne, con quei cappellini che Dior non avrebbe esitato a copiare. Dovevano essere superbe, le donne shardana, superbamente belle. Portavano larghe gonne a tre balze che arrivavano fino ai piedi, e un giubbino aderente che fasciava la schiena e le spalle lasciando scoperti i segni, in modo che gli orgogliosi guerrieri ricordassero sempre che di lì era venuto il loro primo nutrimento, e di lì sarebbe venuto il primo nutrimento dei loro figli. Ritroviamo gli stessi modelli nei dipinti di palazzi di Cnosso a Creta, a riprova che anche allora la moda varcava i mari, ma non sapremo mai se gli Armani o Valentino dell'epoca dimorassero a Creta o in Sardegna. Questa immensa produzione statuaria era destinata in parte alle esigenze del culto e si collocava nei templi e nei santuari, ma verosimilmente veniva anche venduta e acquistata nelle fiere e nei mercati a scopo puramente ornamentale. È possibile che le statuine fossero dei veri e propri status symbol dell'epoca, e chi poteva permettersele marcava così il suo censo. Tutto questo ci permette di delineare una società complessa, al cui vertice stavano probabilmente gli architetti delle torri, in virtù del loro superiore sapere tecnico, che doveva essere considerato dal popolo segno distintivo del favore delle divinità. Nulla sappiamo circa la forma di governo e la titolatura dei capi.

Forse si chiamavano Vanax come il re micenei o forse no, in ogni caso non conosciamo neppure i loro nomi, travolti nei gorghi della storia assieme alla loro lingua. Rimangono poche decine di vocaboli, che non essendo Fenici, non essendo greci, né latini né arabi, potrebbero appartenere al sostrato nuragico, ma la certezza non la raggiungeremo mai. Del pari nulla di certo sappiamo sull'origine degli shardana, ma il mistero dei misteri riguarda il perché, più o meno all'improvviso, abbandonarono le loro torri e tutto quanto in secoli e secoli avevano costruito per affidarsi al mare, e raggiungere terre lontane e ostili. Fu un'improvvisa smania di conquista e di bottino? Si direbbe di no, considerato che sulle navi imbarcarono anche donne, bambini e carri, i rilievi sui templi egizi e i loro resoconti tramandati ce ne danno puntuale conferma. Gli studiosi si accapigliano da par loro su questo enigma, e per il momento volano insulti. Forse con i nuovi modernissimi mezzi di indagine, con l'esame comparato del DNA, si riuscirà a risolverlo, ma ci vorranno anni, ci vorrà soprattutto uno studioso di genio che riesca a ribaltare le incrostazioni mentali stratificate in decenni di pedissequa acquiescenza a ipotesi precostituite. Un'altra cosa che intristisce il cuore è che degli 8000 nuraghi residui, soltanto un centinaio sono stati scavati sistematicamente, solo uno ogni 80. Questo ci dà un'idea di quale immenso patrimonio di conoscenza si celi tuttora sotto i nostri piedi, abbandonato senza difesa alle avide cure di tombaroli e mercanti senza scrupoli. Dopo gli sconvolgimenti causati dalle migrazioni dei popoli del mare, ci fu un intervallo di secoli, e quando lo scriba del re di Tiro, percorrendo all'incontrario la stessa rotta, approdò all'isola del mistero, trovò le torri semidiroccate, e una gente stranita che non conservava se non labili tracce della grandezza di un tempo. E si dovette aspettare che fosse ritrovata la stele di Rosetta, che Champollion decifrasse quei segni astrusi, perché si potesse leggere sulle colonne dei templi di Luxor almeno il nome di quella stirpe leggendaria, misteriosamente uscita dalla storia. E se la terra è senza storia, sarà la geografia a raccontarcela, se solo avremo occhi e cervello per penetrarla, se sapremo leggerla con amore. Percorrendo le antiche rotte, arrivando da Oriente, non sui traghetti superveloci, quegli orribili recipienti metallici, ma su una piccola barca a vela che fila i 5-6 nodi come le navi shardana, vedremo apparire una terra alta e aspra, montagne dopo montagne, e scogliere selvagge a picco sul mare. Metteremo la barra a sud, doppieremo la lunga salsiccia di Serpentara, eviteremo le secche dell'isola dei Cavoli, e all'improvviso ci si aprirà davanti un ampio golfo orlato di spiagge bianchissime. Ci verrà naturale puntare su quella al centro. Centinaia di metri di spiaggia, riparata da ogni vento, un punto di approdo ideale per le navi shardana, che erano poi grossi barconi che venivano tirate a secco per il bivacco notturno. Su un lato della spiaggia sfociava un torrente (vi sfocia tuttora quando le piogge sono abbondanti) che permetteva agli equipaggi di dissetarsi e ricostituire le scorte di acqua. Alle spalle una breve pianura, e tutt'attorno una cerchia di collinette raggianti come una muraglia, fino a 500 m di quota, ricoperte da una vegetazione fittissima e impenetrabile. Dalla cerchia si stacca una collinetta più bassa, un cono perfetto alto una sessantina di metri, e cosa troviamo sulla cima? Troviamo il solito nuraghe, piazzato lì a protezione dell'approdo. È un vero peccato che le migliaia di vacanzieri che d'estate si rosolano al sole sulla spiaggia non vadano neppure a vederlo. È un vero peccato, perché potrebbero vedere ancora quasi intatto uno spaccato di vita di 3500 anni fa. Grattando appena la terra con le dita saltano fuori i frammenti di ceramica, forse di piatti e brocche lanciati fuori in un'estrema difesa, perché il nuraghe fu bruciato, se ne vedono chiarissimi i segni alla base della costruzione. E guardando abbasso, alla base della collinetta, si scorgono, dispersi in un mandorleto rinselvatichito, allineamenti di pietra che non possono essere casuali, e in mezza giornata di lavoro, con vanghe e badili, si tirerebbe fuor di terra il villaggio che offriva ricovero agli antichi marinai.

Ma non si tirerà fuori un bel nulla. Intanto non ci sono i soldi, e poi si farà finta di non vedere e di non sapere, e magari tra qualche anno sui resti dell'antico villaggio sorgerà una bella fila di villette a schiera, € 5.000 al metro quadro. Allora anche il paesaggio non avrà più nulla da dirci. Diventerà muto testimone di civiltà che sono fiorite e scomparse, e il tramonto non sarà più, come per il passato, lo svanire del sole all'orizzonte d'Occidente, sarà il tramonto del nostro spirito.

Ringrazio, ancora, il caro amico Luciano per avermi fornito questo breve racconto, da lui scritto nel 2004 e pubblicato nel 2005 sulla rivista "Volere Volare", grafiche Solinas.



Ringrazio il caro amico Luciano per avermi fornito questo breve racconto, da lui scritto nel 2004 e pubblicato nel 2005 sulla rivista "Volere Volare", grafiche Solinas.

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