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mercoledì 30 novembre 2011

Giganti di Mont’e Prama verso Cabras e Cagliari


I giganti di Mont’e Prama, da ieri in mostra al centro di restauro di Li Punti, saranno divisi: alcune statue al museo civico di Cabras, altre all’Archeologico di Cagliari
di Antonio Meloni



Dopo trentasette anni i faretti della galleria di Li Punti rischiarano il volto ieratico dei giganti del Sinis. I supporti di metallo nero che reggono le sculture fanno da contraltare alla pietra bianca che a restauro ultimato mostra tutto il suo candore. I guerrieri dallo sguardo magnetico offrono lo spettacolo dell'arte ritrovata mentre cresce la sensazione che la parola fine di una vicenda scientifica così importante non sia ancora stata scritta.
Lo stato d'animo, ieri, all'inaugurazione della mostra «La pietra e gli eroi», nella galleria del Centro di restauro della Soprintendenza di Sassari, a Li Punti, era un misto di meraviglia e stupore. Coloro che per il complesso di sculture, riportato alla luce nel 1974, auspicavano una destinazione unica, sono rimasti delusi. Per i giganti di pietra, infatti, si profila il destino della separazione. Presto una parte sarà ospitata nel museo civico di Cabras, l'altra nelle sale dell'Archeologico di Cagliari. La Soprintendenza cagliaritana, d'intesa con la Regione, ha infatti deciso di imboccare la strada che buona parte degli esponenti del mondo scientifico e dell'opinione pubblica avevano sconsigliato.
Il protocollo d'intesa tra Soprintendenza, comune di Cabras e Regione sarà siglato nei prossimi giorni a Villa Devoto. La legittima aspirazione della comunità di Cabras di riportare a casa le statue è stata in parte rispettata. Il museo della cittadina lagunare, che dovrà essere abbondantemente adeguato, avrà la parte numericamente più importante, quella mancante sarà ricostruita attraverso immagini tridimensionali che uno scanner 3D laser, di ultima generazione, riprodurrà per la gioia di visitatori e studiosi. E poi - è stato detto ieri - si pensa di bandire un concorso di idee per la realizzazione di una nuova struttura. Il museo archeologico di Cagliari, invece, si riserva la parte quantitativamente più esigua, ma non meno importante sul piano scientifico. Tempi e modi, però, sono ancora tutti da stabilire e non è dato sapere di più visto che dopo la presentazione, il taglio del nastro e la curiosità degli ospiti hanno preso il sopravvento sulle altre questioni. E la sorpresa filtra dalle reazioni a caldo degli specialisti; uno per tutti, il professor Carlo Tronchetti, l'archeologo che nel 1976 venne incaricato dalla Soprintendenza di Cagliari di guidare la prima campagna di scavo che ha permesso di riportare alla luce le sculture riconsegnate alla storia più di trent'anni dopo: «La mia idea è che tutti i reperti dovrebbero rimanere insieme, ma è pur vero che un museo importante come quello di Cagliari non poteva non avere almeno una testimonianza di una scoperta così rilevante».
Novità altrettanto importanti arrivano anche durante l'affollata conferenza stampa con la quale il soprintendente di Sassari, Bruno Massabò, affiancato dall'omologo cagliaritano Marco Minoja e dal soprintendente regionale Maria Assunta Lorrai, ha dato la stura a una mattinata frenetica. Gli archeologi torneranno presto a Monte 'e Prama, forse già la prossima primavera, il Ministero ha infatti destinato settecentomila euro per varare una nuova campagna nel Sinis. Le risorse saranno ripartire fra Tharros (450 mila euro) e Mont'e Prama (250 mila) in entrambi i siti saranno realizzate opere di restauro e consolidamento, ma solo a Mont'e Prama si continuerà a scavare.

Di 6 milioni e cinquecentomila euro è invece il finanziamento della Regione sarda destinato alla creazione della Scuola di alta formazione per il restauro nella struttura di Li Punti. «Risorse già erogate - ha garantito l'assessore regionale Sergio Milia - per creare a Sassari un centro altamente specializzato». Ma non è tutto, i giganti rischiano perfino di volare in Corea: saranno infatti ospiti all'Expò di Seul anche se non è chiaro se vadano gli originali o una riproduzione. «L'ultima parola - ha precisato Milia - spetta comunque alla Soprintendenza di Cagliari».
La questione delle sculture ha appassionato e diviso. L'idea originaria di sistemare le statue nel museo della cultura nuragica è morta sul nascere perché il progetto del Betile, avveniristica struttura che avrebbe dovuto sorgere a Cagliari, è stato accantonato.
Tutto è cominciato negli ormai lontani anni Settanta, precisamente nella primavera del 1974, quando l'aratro di Sisinnio Poddi, un contadino intento a lavorare nel suo terreno, in località Monte 'e Prama, a Cabras, cozza contro qualcosa di molto duro. L'uomo ferma l'attrezzo e dopo avere rimosso la terra, è colpito dallo sguardo fisso di due occhi sbarrati incorniciati da un volto di pietra. La segnalazione alle autorità competenti è immediata e tra il 1974 e il 1975, la Soprintendenza archeologica e l'Università di Cagliari organizzano il primo scavo. La campagna entra nel vivo qualche anno più tardi, nel 1979, sotto la guida di Tronchetti. I lavori portano alla luce un'intera necropoli, una scoperta straordinaria.
A proposito della datazione, le ipotesi su cui si confrontano gli studiosi sono due: la prima colloca le statue intorno al VII secolo avanti Cristo, l'altra si spinge fino alla fine del primo millennio. Il dibattito è acceso, poi il silenzio. L'intero complesso è stato chiuso in casse e depositato nei sotterranei del Museo archeologico di Cagliari e da quel momento sulle sculture dei guerrieri del Sinis cala il sipario. Un silenzio di oltre trent'anni, rotto dal provvedimento col quale il ministero per i Beni culturali e la Regione, nel 2005, hanno destinato un milione e duecentomila euro al restauro di cui la cerimonia inaugurale di ieri, a Sassari, ha segnato la conclusione.

Fonte: La Nuova Sardegna

martedì 29 novembre 2011

"Geografia" di Claudio Tolomeo


A proposito della GEOGRAFIA di CLAUDIO TOLOMEO...
di Rolando Berretta

(introduzione tratta da wikipedia)
Nella tarda antichità l'opera di Tolomeo era ben nota sia nel mondo greco che in quello latino: essa è alla base della descrizione del mondo abitato compilata da Pappo di Alessandria intorno al 300 ed è citata da Ammiano Marcellino e ancora alla metà del VI secolo da Cassiodoro. Successivamente se ne perdono le tracce nell'Europa occidentale, mentre continua ad essere nota nel mondo bizantino fino al XII secolo, quando Giovanni Tzetzes include nelle sue Chiliadi una trasposizione in versi di alcuni passi dell’opera. Dopo di allora per circa un secolo la Geografia sembra dimenticata anche a Costantinopoli. Nel frattempo il mondo islamico l’aveva conosciuta, forse solo indirettamente, fin dal IX secolo.
Intorno al 1300 l’opera viene ritrovata dallo studioso bizantino Massimo Planude, che ne ricostruisce le mappe perdute sulla base del testo scritto. La riscoperta dell'opera nell'Europa rinascimentale avviene attraverso la tradizione bizantina e per le mappe dipende dalla ricostruzione di Planude. Dopo la prima traduzione in latino, eseguita nel 1406 da Jacopo d'Angelo da Scarperia, furono preparate varie carte sulla base dei dati di Tolomeo provocando una rinascita della cartografia che dette un importante contributo all'estendersi dei viaggi di esplorazione. La traduzione di Jacopo Angelo fu stampata nel 1475 e ripetutamente in seguito. Il testo greco fu stampato per la prima volta nel 1533, in un'edizione curata da Erasmo da Rotterdam…

Passiamo a Firenze dando uno sguardo alle Formelle di Andrea Pisano (1290-1348/9) che si trovano nel Campanile di Giotto.
La formella che più mi ha intrigato è quella della foto.
Sembrerebbe che nella Firenze dei primi del 1.300 si sapessero tante cose…
Sembra di vedere una Terra inclinata rispetto alla linea dell’eclittica. Una Terra che sta lasciando la costellazione dei Pesci per puntare verso la costellazione del Capricorno passando su quella dell’Acquario. Ma la Terra non era piatta dalle “nostre parti” nel 1.300?
Ma non eravamo in attesa di Colombo e delle sue battaglie?
Questa formella non è stata, mai, vista dal SANTO TRIBUNALE dell’inquisizione; credo che avrebbero messo al rogo il Campanile.

Mentre osservavo la formella mi sono ricordato di una frase lapidaria dettami dal Dr.Montalbano: “Non esistono quadranti per mancini!”.
Sta a vedere, mi sono detto, che qualche burlone fiorentino, agli inizi del 1.500, abbia voluto rendere omaggio ad un certo Amerigo Vespucci e ha sostituito la formella?

lunedì 28 novembre 2011

Sherden, studiati al liceo di Sant'Antioco.


Guerrieri di ferro e abili navigatori riecco gli Sherden

SANT’ANTIOCO
Un popolo misterioso, ancora poco conosciuto. I docenti di un liceo e di una scuola primaria hanno deciso di farli sbarcare tra i banchi inserendoli nel programma di studio
di Roberto Mura


Navi veloci, terribili. Guerrieri invincibili. Un popolo magico. Torri che sfidano il cielo. Sono loro: “I ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo combattere. Arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli”. Così li definisce il terzo monarca della XIX dinastia egizia: Ramses II (che regnò dal 1279 a.C al 1213 a.C) in una stele ritrovata a Tanis, nel Basso Egitto. Popolo misterioso, gli Shardana-Nuragici: is mannus nostus. Poco conosciuto anche qui da noi. Per cercare di levar via un po’ di tenebra dai loro elmi cornuti e dalle loro spade, Stefano Soi - docente di filosofia e storia al liceo scientifico Lussu di Sant’Antioco - e Patrizia Incani – insegnante di storia e italiano nella scuola primaria, nel plesso di via Virgilio del circolo didattico di Sant’Antioco - hanno deciso di farli (ri)sbarcare tra i banchi di scuola. Dopo circa tremila anni, secolo più, secolo meno. Due decisioni prese in autonomia, ognuna con motivazioni differenti. Un filo rosso lega però quest’idea: la conoscenza di Marcello Cabriolu. Santantiochese, studioso di Beni Archeologici, collaboratore esterno della Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali, Cabriolu è autore de “Il Popolo Shardana”, edito lo scorso anno dall’editrice selargina Domus de Janas. Un libro che ha “fulminato sulla via di Damasco” Stefano Soi e Patrizia Incani. O che, quantomeno, ha dato loro una spinta in più per maturare una decisione, forse, già in animo. Spiega Stefano Soi: «Il mio desiderio di arricchire il programma scolastico, con interventi esterni di altissimo profilo storico, nasce dal credere che la sana e buona cultura debba essere eversiva. In particolare lo è la storia, perché obbliga a problematizzare il presente e a migliorarlo». La tradizione, il racconto storico, continua Soi «connette il passato alle aspettative presenti, dà sostegno e speranza alla ricerca di un significato positivo per il presente e il futuro ». Non si può, dice Soi «raccontare un popolo di navigatori e non chiedersi come mai oggi ci si senta imprigionati. Né come mai da civiltà a tutto tondo ci si sia regionalizzati ». La scuola, prosegue il docente di filosofia «ha il compito di far immaginare il nostro passato ma anche possibili scenari futuri, non avvertiti come minaccia ma come possibilità di creazione per dare significato al presente». Diverso il target di Patrizia Incani, alle prese coi suoi monelli. L’insegnante elementare spiega: «Il mio programma è rivolto ai bimbi della quarta classe della scuola primaria. Si descrivono e si inquadrano le prime civiltà conosciute, il loro rapporto con l’ambiente e l’importanza che hanno avuto per i popoli moderni». Verranno studiate la civiltà Mesopotamica, gli Egizi, la civiltà Indiana, la civiltà Cinese, le antiche civiltà del mare: Cretesi, Micenei, Fenici; gli Ebrei e il popolo Shardana. Nonostante i libri delle scuole non ne parlino, Patrizia ha deciso di proporre la storia degli Shardana: «Credo sia opportuno che i miei alunni conoscano le proprie origini e possano apprezzare la presenza dei sardi nei processi storici studiati. Ho voluto dare il giusto valore al nostro popolo, perché lo si possa inquadrare nuovamente rispetto alle precedenti valutazioni storiche». Per Patrizia non è un semplice esperimento: «Visto che l’argomento è supportato scientificamente, in futuro questo studio non potrà che ampliarsi».
Marcello Cabriolu è lo studioso promotore di quest’eresia: far studiare gli antichi sardi a scuola. Il suo libro “Il Popolo Shardana” è un affascinante viaggio nelle origini del popolo che dette inizio alla nostra storia, un popolo di navigatori, dalle grandi conoscenze tecnologiche e dalla profonda religiosità. «Condivido l’idea dei due docenti sull’utilità della riscoperta del nostro patrimonio storico. Dare ai ragazzi la possibilità di sentirsi come gli egiziani o i greci, quando studiano le loro rispettive grandi civiltà, significa motivarli e renderli orgogliosi di loro stessi». Poter insegnare ai ragazzi quali «formidabili navigatori e guerrieri fossero i sardi li aiuterà a considerare il ruolo di primissimo piano e di conquista avuto dalla Sardegna». Marcello si è complimentato coi due insegnanti per la scelta loro coraggiosa e li ha incoraggiati a non desistere in futuro dal proposito: «Auspico che questo sassolino nel mare possa essere da esempio per tanti altri insegnanti».

domenica 27 novembre 2011

Rassegne in programma questa settimana.




Sarà ricca di appuntamenti culturali questa prossima settimana in provincia di Cagliari. Oltre le due presentazioni del libro "Antichi Popoli del Mediterraneo" delle quali ho dato notizia giovedì 24, altri eventi culturali sono in programma a breve.

Si inizierà Giovedì 1 Dicembre alle ore 17.00 a San Sperate, nei locali ex-comune in Via Risorgimento. Lo scrittore Giuseppe Mura presenterà il libro "Sardegna, l'isola felice di Nausicaa". Introduzione e presentazione a cura di Stefano Soi.

Nel fine settimana (2-3-4 Dicembre), il “Gruppo Mineralogico Paleontologico Naturalistico Mariese”, a cura di Giuseppe Lulliri, vi invita alla “I Mostra Micologica Mariese” che si terrà presso i locali dell'agriturismo Sa Mitze S'Orcu, situato nei pressi delle ridenti foreste demaniali di “Is Cannoneris”, nei giorni 2-3-4 dicembre 2011.

Orario visite: mattina 9,30 -13; pomeriggio, 15 -19.

Una rara occasione per ammirare oltre cento specie diverse di funghi commestibili e non, e porre le vostre domande a esperti del settore. Chiunque fosse interessato quindi può portare i funghi da lui raccolti per farli esaminare e classificare (è previsto un premio al fungo più bello e importante presentato dai ricercatori), Gli esperti saranno a Vostra disposizione e soprattutto Vi aspettano numerosi.
Per l’occasione sarà aperto il servizio ristorazione dell’agriturismo “Sa Mitze S’Orcu”, con varie leccornie di stagione, tra cui, prelibate pietanze a base di funghi, chi fosse interessato a trattenersi a pranzo lo può fare prenotando al 3403431360 – 3485194683.

sabato 26 novembre 2011

Ossidiana, una ricchezza preistorica in Sardegna - Carlo Lugliè


La montagna della roccia nera
di Carlo Lugliè

Da cinque anni un progetto di ricerche archeologiche e archeometriche indaga sullo sfruttamento e la distribuzione dell’ossidiana del Monte Arci nella preistoria.
A Est dell’ampio Golfo di Oristano, nella Sardegna centro-occidentale, il complesso vulcanico del Monte Arci di 812 metri campeggia col suo compatto rilievo a scudo esteso per circa 150 kmq. Questo massiccio, formatosi essenzialmente tra la fine dell’Era terziaria e l’inizio del Quaternario, ha esercitato un forte condizionamento sul primo insediamento umano di questa regione ma non solo per la netta impronta che conferisce al paesaggio. Infatti per i versanti del monte, sotto i boschi secolari di lecci, roverelle e corbezzoli o tra la densa macchia di lentisco, erica e cisto, si disperdono in diverse località come in una vasta miniera a cielo aperto le ossidiane formatesi da circa 3,25 milioni di anni. Esse hanno avuto notevole importanza per le popolazioni preistoriche del Mediterraneo occidentale e sono state uno dei fattori di attrazione per le prime comunità neolitiche: approdati circa settemila anni fa in un’isola che le attuali evidenze archeologiche spingono a ritenere disabitata e coperta di foreste, questi coloni-pionieri hanno dato avvio al suo popolamento. Sa pedra crobina, alla lettera “la roccia nera come il corvo” è l’espressione più usata in lingua sarda per denominare l’ossidiana. Si tratta di un vetro vulcanico scuro e lucente che si forma sulla superficie terrestre per il raffreddamento rapido di lave dalla composizione acida: la caratteristica omogeneità della struttura di questa roccia e la sua durezza, consentendo un elevato controllo della frattura e un’ottima lavorabilità all’applicazione di diverse tecniche di scheggiatura, l’hanno resa una delle materie prime più apprezzate fin dall’antica età della pietra per la realizzazione di utensili d’uso quotidiano dalle forme e funzioni disparate, quali armature di proiettili, lame, perforatori, raschiatoi. Più raramente l’ossidiana veniva anche levigata per ottenere monili e oggetti di ornamento. In alcune aree continentali dell’Africa e dell’Asia come a Melka Kunture, in Etiopia, o a Chikiani, Djraber-Fontan- Kendarasi e Arzni in Georgia e Armenia, è testimoniata la produzione di manufatti in ossidiana da parte di cacciatori del Paleolitico inferiore, in tempi compresi tra 1.500.000 e 200.000 anni fa. Tuttavia, oltre che alle caratteristiche tecnologiche in- dicate e all’efficienza dei margini taglienti delle sue schegge, si deve a prerogative estetiche come la colorazione scura brillante e la traslucenza il fatto che l’uomo sia stato affascinato e conquistato dall’ossidiana in diverse regioni della terra e fin dai primordi del suo cammino evolutivo. Col passaggio alla preistoria recente e all’epoca neolitica, la progressiva istituzione di reti di scambio delle materie prime ha promosso una più vasta diffusione di questa risorsa, che ha raggiunto anche territori nei quali per la produzione di strumenti erano disponibili e sfruttate rocce alternative altrettanto efficienti. Questa circolazione per notevoli distanze è indizio di un’elevata considerazione dell’ossidiana per l’uomo neolitico, accresciuta dal numero limitato delle aree sorgenti: tutto questo ha spinto talora a considerarla alla stregua di un vero e proprio bene esotico, carico di valenze simboliche e indicatore di elevato status sociale per chi lo possedesse. Il Mediterraneo occidentale è una regione dove il fenomeno della concentrazione e marginalizzazione delle fonti di ossidiana risulta più evidente, perché quelle effettivamente sfruttate a partire dal Neolitico antico (VI millennio a.C.), sono tutte localizzate su isole distanti dal continente. Oltre che in Sardegna l’ossidiana si trova infatti circoscritta all’isola di Lipari nell’arcipelago delle Eolie, a quella di Palmarola nelle Isole Ponziane e a Pantelleria, tra la Sicilia e la costa nordafricana. Il loro reperimento periodico doveva senz’altro implicare il possesso di consolidate capacità di navigazione d’altura e una forte motivazione. L’attuale interesse degli archeologi per l’ossidiana è incentrato, oltre che sui sistemi di produzione che contraddistinguono le diverse comunità preistoriche che la impiegarono, anche sugli aspetti connessi alla circolazione di questa materia prima. Grazie alla “firma composizionale” che ne caratterizza l’origine e che si conserva inalterata nel tempo, questa roccia è studiata da decenni con lo scopo di localizzarne la provenienza e di delineare le forme di contatto e interazione tra le comunità preistoriche nelle più disparate regioni della Terra. Così, a fronte di rocce più diffuse o di più difficile caratterizzazione geochimica, l’ossidiana è divenuta a partire dagli anni ‘50 la cartina di tornasole privilegiata delle interazioni tra popolazioni culturalmente distinte, oltre che uno strumento per indagare i livelli di organizzazione sociale ed economica delle comunità che ne hanno promosso e curato la ricerca, la trasformazione e la diffusione.
Le prime analisi
Nella prima metà dell’800 il capitano di fanteria dell’Esercito Sardo, Alberto Ferrero de La Marmora, con le sue appassionate indagini geologiche, topografiche e storiche in Sardegna portò all’attenzione del mondo scientifico il fenomeno ossidiana. Egli descrisse estesi depositi sul versante orientale del Monte Arci, facendo seguire numerose altre segnalazioni relative a diverse località dell’isola. Ben più tardi, al principio del ventesimo secolo, furono pubblicate le prime analisi petrografiche su pochi campioni esaminati dal geologo americano H. S. Washington. Ma è solo alla metà degli anni ‘50 che prese piede un’indagine specifica sull’ossidiana del Monte Arci in quanto risorsa di interesse archeologico, grazie all’edizione dei risultati delle ricerche condotte sul terreno dal sardo Cornelio Puxeddu. Le sue prospezioni estensive portarono all’individuazione di 272 località sul monte in cui era presente ossidiana: tuttavia, aldilà della segnalazione di numerose officine con abbondanti scarti di lavorazione – la cui interpretazione funzionale è oggi soggetta a revisione – questo studio pionieristico ebbe il merito di identificare tre distinte località, denominate giacimenti originari, in cui l’ossidiana appariva nella sua posizione di formazione. In breve tempo queste scoperte hanno stimolato l’interesse della ricerca archeometrica applicata a questa materia prima e, sulla scia delle prime indagini su larga scala formulate nel 1953 da J. Garstang per l’Anatolia meridionale, da più parti fu compresa a pieno l’importanza dell’identificazione dell’origine di una materia prima dalla diffusione ben circoscrivibile. Si era agli albori della stagione di studi preistorici che in campo europeo sperimentavano l’applicazione su materiali archeologici di diversi metodi fisico-chimici di caratterizzazione delle materie prime: l’obbiettivo era la formulazione di modelli interpretativi di fenomeni sociali generalizzati presso le comunità di interesse paletnologico, quali l’organizzazione della produzione, l’interazione, la reciprocità. È proprio in questo settore che le indagini sulle pro- venienze dell’ossidiana sono diventate una palestra per l’affinamento e l’impiego sempre più sistematico delle tecniche archeometriche. Su queste basi, gli archeologi hanno volto l’attenzione all’analisi della circolazione della materia prima del Monte Arci su vasta scala geografica. Come per le altre sorgenti del Mediterraneo occidentale sono stati dunque costruiti schemi descrittivi delle direttrici e delle reti di scambio strutturate a partire dalla Sardegna, facendo segnare di recente un forte incremento delle analisi composizionali su ossidiane “archeologiche” rinvenute in Corsica, nell’Italia centrosettentrionale e nella Francia mediterranea. Attualmente sono oltre mille gli insediamenti dai quali provengono ossidiane, scaglionati per un lungo arco di tempo, tra il VI e il III millennio a.C. Con l’applicazione sistematica delle analisi di determinazione si è andata formando una consistente banca dati sulla composizione chimica della materia prima dei singoli manufatti, ma le conoscenze relative agli aspetti sociali, ai meccanismi di sfruttamento della risorsa, della produzione, della circolazione e dell’uso dei prodotti non hanno segnato un progresso corrispondente.
Il prossimo traguardo
Per proiettare una luce sul sistema di produzione e consumo dell’ossidiana del Monte Arci in epoca preistorica, ricercatori delle Università di Cagliari, Pavia e Bordeaux e del CNRS, coordinati dalla professoressa Giuseppa Tanda, hanno strutturato un progetto di ricerca che integrasse appieno indagini archeometriche di determinazione delle provenienze e analisi tecnologica della manifattura. In primo luogo si è inteso procedere alla definizione degli stadi iniziali del processo di acquisizione e prima trasformazione della materia prima in Sardegna, per estendere successivamente l’attenzione all’analisi di reperti provenienti da contesti chiave della preistoria del Mediterraneo occidentale. I risultati preliminari sono incoraggianti: in relazione al primo obiettivo, sul Mon te Arci e nella regione circostante sono state classificate tre differenti tipologie di depositi di ossidiana: ai già noti giacimenti primari e sub-primari, dove il vetro vulcanico è inglobato nella matrice di formazione originaria o si presenta disgregato in contigui accumuli colluviali lungo i versanti, oggi si possono affiancare numerosi e consistenti giacimenti secondari, distanti fino a 20 km in linea d’aria dalle corrispondenti formazioni. Questi depositi secondari, con ciottoli fluitati a superfici esterne fortemente alterate, sono dislocati nei terrazzi alluvionali e negli antichi corsi fluviali della pianura del Campidano, fossa tettonica colmata da sedimenti quaternari che corre a sudovest del Monte Arci. Delle aree di giacitura secondaria è stata realizzata una prima mappatura, con definizione della composizione geochimica e della relativa sorgente di provenienza. Cartografare le aree di dispersione delle ossidiane, classificarne corrispettivamente le morfologie e le caratteristiche distintive macroscopiche di colore, traslucenza e tessitura delle superfici, è di capitale importanza quando si lavora comparativamente sulle collezioni archeologiche al fine di individuare i meccanismi e le strategie di reperimento della materia prima da parte dei primi gruppi umani insediati nella regione tra VI e IV millennio a.C. Si tratta di aprire una finestra su questi comportamenti e di ricostruire i modelli di organizzazione economica e sociale di comunità che hanno svolto un ruolo rilevante nell’avviare il processo di circolazione dell’ossidiana nell’isola e al di fuori di essa, contribuendo in tal modo a collocare precocemente la Sardegna al centro di una vicenda di contatti e di relazioni tra culture dal seguito plurimillenario, fino al suo definitivo ingresso nella storia per effetto dell’interazione con popoli organizzati secondo le dimensioni urbana e statale. In particolare, per interpretare la distribuzione insulare ed extrainsulare dell’ossidiana del Monte Arci è necessario individuare nell’evidenza archeologica i criteri di selezione preferenziale della materia prima applicati nella preistoria, ora legati alle prerogative tecniche o estetiche di ciascun gruppo geochimico, ora conseguenti a difficoltà e restrizioni nell’accesso a specifici depositi della materia prima dovute a fattori naturali o umani. Solo sulla base di questi elementi, infatti, è possibile fare precise valutazioni dell’investimento economico, corrispondente al tempo e all’energia di trasporto richiesti per l’acquisizione di una specifica qualità di ossidiana.
Saggi di qualità
A questo punto entra in campo il contributo dell’attività sperimentale, cioè della pratica di riproduzione dei gesti tecnici della scheggiatura dell’ossidiana e della loro organizzazione sequenziale in metodi riconosciuti caratteristici di specifiche aree regionali e riferibili a epoche circoscritte. Si tratta di uno strumento euristico indispensabile per riconoscere eventuali limitazioni tecniche insite nelle qualità di roccia meglio documentate nei siti archeologici (SA, SB2 ed SC) e per contribuire a interpretarne la rappresentatività statistica. La pratica di scheggia tura sperimentale sull’ossidiana del Monte Arci ha rivelato che tutte le qualità sono ugualmente adatte all’applicazione delle tecniche e delle sequenze operative che si riscontrano archeologicamente nell’area medio-tirrenica e, più in generale, nel Mediterraneo occidentale durante il Neolitico. Pertanto la selezione nell’approvvigionamento della materia prima si delinea in relazione ad altri fattori e secondo sistemi più complessi, variabili su scala diacronica. Nel corso del VI millennio, infatti, all’incremento progressivo di ossidiana nei siti della Sardegna e della Corsica non sembra corrispondere una precisa selezione delle varietà di ossidiana. Queste, facilmente disponibili intorno agli accampamenti dislocati nella pianura ai piedi del Monte Arci, appaiono sfruttate secondo comportamenti fortemente opportunistici, senza rivelare strategie di acquisizione-trasformazione fortemente strutturate sul piano organizzativo e su scala cospicua. Inoltre, sulla base della banca dati disponibile per i siti di questa fase antica della Corsica e dell’area tirrenica, non sembrano operare funzioni di filtro nella circolazione delle diverse qualità, come sembra avvenire successivamente nel corso del Neolitico medio (V millennio a.C.). In questa fase le reti di approvvigionamento sono sicuramente rafforzate, come attesta l’incremento quantitativo dell’ossidiana in Corsica e, soprattutto, nella Provenza e nel Mezzogiorno della Francia, laddove il materiale sembra essere di provenienza quasi esclusivamente sarda e prevalentemente della qualità SA. Oggi lo studio della produzione litica nei numerosi siti del Neolitico antico di-slocati intorno al Monte Arci, in quella che è definibile come la zona di approvvigionamento diretto, rivela un sistema di raccolta della materia prima in apparenza asistematico e non selettivo, con un ruolo chiave giocato soprattutto dai depositi secondari di ossidiana. Tale schema sembra estensibile anche a insediamenti ben più distanti dalle fonti, nei quali, pur in una tendenziale prevalenza della qualità SA, le collezioni di manufatti rivelano una buona rappresentatività dei tipi SB2 ed SC e un ricorso talvolta maggioritario a rocce locali differenti come la selce. Per questa fase antica, e successivamente nel V millennio a.C., non sono stati documentati centri di lavorazione specializzati sul Monte Arci, finalizzati a sfruttare su scala maggiore i cospicui depositi primari e sub-primari. Le attività di scheggiatura per l’uso immediato e per lo scambio sembrano risolversi perlopiù nei siti d’abitato. Ancora nel Neolitico medio per la regione di approvvigionamento diretto non si riscontrano variazioni evidenti nella scelta delle località di raccolta e delle qualità di ossidiana: appare diversa peraltro la distribuzione dell’ossidiana in direzione della Corsica e ancor più della Provenza, per le quali sembrano operare forme di filtro a favore di alcune qualità, ancora da definire nei contorni e nel significato. Ciò si verifica anche in concomitanza di un progressivo affinamento delle capacità tecniche e di una maggiore standardizzazione dei procedimenti di scheggiatura laminare, in quest’epoca maggiormente orientati verso la produzione di pezzi regolari e allungati.
I primi atelier
Allo stato attuale delle indagini si deve collocare alla fine del Neolitico (IV millennio a.C.) l’impianto di veri e propri centri di lavorazione sul Monte Arci, opportunamente posizionati presso i depositi primari, di cui sono sfruttati i materiali in affioramento senza realizzare attività di cava. Non sembra casuale che i più estesi e consistenti tra questi centri di lavorazione sfruttino i gruppi geochimica SC ed SA, per i quali nella fase matura e conclusiva del Neolitico si registra il primato quantitativo della distribuzione in terna ed esterna all’isola. La più grande concentrazione di questi atelier, talora di notevole estensione, si registra nel territorio del comune di Pau lungo il versante orientale del Monte Arci, in corrispondenza degli affioramenti della qualità SC. Qui sono state localizzate e delimitate oltre venti officine di scheggiatura, la più estesa delle quali, in regione Sennixeddu, ricopre una superficie di oltre venti ettari. Dagli studi in corso su centinaia di migliaia di scarti di lavorazione pertinenti verosimilmente a lunghi e ripetuti periodi di attività delle officine, ci si attende di poter definire i criteri di organizzazione e il livello di specializzazione della produzione; i risultati preliminari costituiscono un indizio di una generale tendenza alla standardizzazione dei metodi e dei prodotti della scheggiatura, seppur di grado variabile. La presenza di errori tecnici frequenti e ricorrenti indica un basso investimento tecnico, una competenza non sempre elevata e la presenza di apprendisti in seno ai gruppi di lavoro. In assenza di dati complementari sugli stadi avanzati e conclusivi della sequenza di riduzione, apparentemente assenti, è possibile identificare l’obiettivo della produzione di queste officine in supporti sbozzati e semilavorati, da immettere nelle reti di distribuzione interregionale. A questa fase conclusiva del Neolitico può infatti essere riferita con sicurezza l’installazione di un’attività di riduzione più sistematizzata e di scala, indizio di una mutata funzione e organizzazione della produzione e dell’instaurarsi di un principio di specializzazione per alcune attività artigianali. L’incremento esponenziale della stessa scala
di produzione segna un forte mutamento nella valutazione del bene e nella sua funzione sociale: questo è il momento in cui nella richiesta della materia prima sembra prevalere un’esigenza pratica e l’ossidiana risulta presente in quantità dominanti nei villaggi di un territorio regionale di più stretta affinità culturale rappresentato dal blocco insulare sardo-corso.

Bibliografia
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Francaviglia 1984: Characterization of Mediterranean obsidian sources by classical petrochemical methods, Preistoria Alpina 20: 311-332.
Bigazzi - Meloni - Oddone - Radi 1992: Nuovi dati sulla diffusione dell’ossidiana negli insediamenti preistorici italiani , in Herring - Whitehouse - Wilkins (eds), Papers of the Fourth Conference of Italian Archaeology III, 1: 1-18. London, Accordia Research Centre.
Tykot 1992: The Sources and Distribution of Sardinian Obsidian, in Tykot, R. H. - Andrews, T. K. (eds), Sardinia in the Mediterranean: a Footprint in the Sea. Studies in Sardinian Archaeology presented to
Myriam Balmuth: 57-70. Monographs in Mediterranean Archaeology 3. Sheffield, Sheffield Academic Press.
Tykot, R. H. 1996: Obsidian Procurement and Distribution in the Central and Western Mediterranean, Journal of Mediterranean Archaeology 9, 1 (June 1996): 39-82.
Tanda - Lugliè - Meloni - Oddone - Poupeau - Le Bourdonnec 2006: L’ossidiana del Monte Arci: nuove acquisizioni sullo sfruttamento e sulla circolazione alla luce dei dati archeometrici, in
Materie prime e scambi nella Preistoria italiana. Atti della XXXIX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Firenze, 25-27 novembre 2004): 461-481. Firenze, IIPP.

Fonte: Quaderni Darwin – Archeologia in Sardegna

venerdì 25 novembre 2011

Malta, Tas-Silg


Malta, Tas-Silg. Archeologi italiani trovano agata con iscrizioni cuneiformi di 4000 anni fa

Durante i lavori di scavo che la spedizione archeologica dell’Università La Sapienza di Roma, guidata da Alberto Cazzella, in collaborazione con l’Università di Foggia, ha condotto presso Tas-Silg, è emersa una testimonianza in agata frammentario che reca un’iscrizione cuneiforme. L’incisione, decodificata da padre Werner Mayer, del Pontificio Istituto Biblico di Roma, è databile al tredicesimo secolo avanti Cristo ed è riferibile alla città mesopotamica di Nippur. Si tratta di una presenza eccezionale, poiché rappresenta l’epigrafe cuneiforme del secondo millennio avanti Cristo emersa più a occidente.

La scoperta presso il santuario di Tas-Silg di un manufatto esotico in agata, datato alla tarda età del Bronzo, considerato certamente di valore malgrado la scritta probabilmente non veniva compresa da chi l’aveva ottenuta, fa pensare comunque che l’edificio cultuale costituisse un punto di riferimento culturale più ampio rispetto a una scala locale, come sicuramente fu più tardi, in epoca fenicia e romana.

L’agata non si trova in Mesopotamia e quindi doveva essere reputato un materiale prezioso ed è comunque straordinario il suo impiego nella realizzazione di un oggetto votivo. Sebbene non siano ancora disponibili i risultati dell’analisi sulla sua provenienza, i possibili siti di estrazione del materiale si possono trovare sia a occidente, sia a oriente della Mesopotamia. Potrebbe essere solo una coincidenza che nell’antichità fosse conosciuta una zona di estrazione in Sicilia, vicino al fiume Dirillo, dal cui nome greco Achates deriva la parola stessa che tutt’ora usiamo per designare l’agata.

Non si è ancora scoperto come il manufatto sia giunto a Malta: presumibilmente venne trafugato dal tempio di Nippur in seguito a un saccheggio da parte di una popolazione in guerra con i babilonesi ed è possibile che da questa giunse nelle mani di mercanti micenei o ciprioti, che all’epoca intrattenevano intensi rapporti di scambio commerciale con il Mediterraneo centrale.

Nell’iscrizione un gruppo di individui dedica il prezioso manufatto a forma di luna crescente, immagine di Sin, dio della luna, a Ninurta, una divinità della città di Nippur. Il dio, figlio del dio della luna, rappresentò a lungo la divinità più importante di Nippur, poi sostituito da Enlil. E Nippur fu un’importante città santa, dove brulicavano i templi, tra cui quello dedicato proprio a Ninurta, chiamato Eshumesha. La città ospitò anche una famosa scuola di scribi, che ci hanno tramandato moltissimi testi letterari.

Fonte: Archeorivista

giovedì 24 novembre 2011

Presentazioni libro "Antichi Popoli del Mediterraneo" - Pierluigi Montalbano



Sunto del libro:

Il mare, fin dall’alba dei tempi, rappresenta una risorsa vitale per l’umanità. Le più floride civiltà si svilupparono in prossimità delle coste, laddove le risorse ittiche ampliavano la scelta dei prodotti commestibili e le foci dei grandi fiumi regalavano acqua dolce, terreni fertili e possibilità di trasporto su zattere.
Circa 15.000 anni fa lo scioglimento dei ghiacci provocò l’innalzamento del livello del mare di 150 metri costringendo l’uomo ad abbandonare le zone precedentemente occupate e sfruttate; uomo che, allo stesso tempo, affrontava la necessità di un rinnovamento delle tecniche di caccia, dovendo adattarsi all’estinzione dei grandi animali conseguente ad un profondo cambiamento climatico.

Sfruttando le conoscenze nautiche, acquisite in millenni di navigazione sottocosta, i più audaci si spinsero verso luoghi con clima mite, approdando in quei territori dove l’agricoltura poteva diffondersi.
In mancanza di testi scritti, le testimonianze archeologiche portate alla luce lasciano molti dubbi sull’origine dell’uomo neolitico. Conosciamo il suo “stile di vita” ma non riusciamo a capire a fondo i meccanismi che hanno comportato il più grande salto evolutivo della storia dell’uomo.
Uno degli indizi più efficaci per capire l’evoluzione degli antichi popoli del Mediterraneo è costituito dalle rotte navali dell’ossidiana, percorse almeno dal 10.000 a.C.

La capacità di addomesticare piante e animali, il culto dei defunti, le tracce architettoniche e la religiosità basata sulla Dea Madre arricchiscono il quadro d’indagine di questo lavoro.

Curiosamente, la civiltà più evoluta della storia marinara, la minoica, non aveva necessità di costruire fortezze difensive per proteggere i porti: i minoici dominavano il mare e nessuno osava aggredirli. Solo una catastrofe naturale, l’eruzione del vulcano Santorini, che colpì il centro nevralgico del loro impero, oscurò quella stella.
Il libro si chiude con un approfondimento su una delle più antiche e misteriose civiltà occidentali, quella nuragica. Porti e approdi della Sardegna, sono descritti minuziosamente, così da proporre al lettore un esempio di civiltà costiera dell’epoca, capace di edificare oltre 8000 torri per il controllo del territorio e per altre funzioni.

mercoledì 23 novembre 2011

Le rotonde nuragiche - Pierluigi Montalbano


Le rotonde nuragiche, governo e religiosità si incontrano
di Pierluigi Montalbano


Intervento in occasione del convegno su Santa Vittoria di Serri del 29 Ottobre 2011


In assenza di scrittura, ciò che si conosce oggi sulla cultura nuragica si deve agli studi effettuati sui monumenti (nuraghi, villaggi, santuari, tombe) e sui ritrovamenti dei manufatti venuti alla luce durante gli scavi. Molti oggetti realizzati con materiali organici come legno, sughero, paglia, lana e cuoio sono andati perduti per via della loro deperibilità, ma anche una quantità indeterminabile di oggetti realizzati in metallo e vetro non sono arrivati fino a noi perché sono stati riutilizzati dopo un semplice processo di fusione.
Fra gli edifici, i più semplici sono le capanne, il cui utilizzo sprofonda nel Neolitico. La tipica capanna nuragica ha pianta circolare o ellittica e struttura portante in pietra costituita da una muratura di base di circa due metri sormontata da una copertura in materiali deperibili (legno, canne, paglia), o in pietra. La forma originaria era simile a strutture ancora oggi esistenti nella loro integrità: si tratta delle pinnettas, rifugio temporaneo e deposito degli attrezzi di pastori e agricoltori.

Nella prima metà del II Millennio a.C. si assiste a un cambiamento del paesaggio archeologico sardo. I primi nuraghi a corridoio, inquadrabili cronologicamente a partire dall’inizio del XVII a.C., sono caratterizzati da una planimetria irregolare, da una massa muraria decisamente prevalente rispetto agli angusti spazi interni, e da camere con un profilo ellittico. A partire dal XIV a.C. l’architettura sarda acquisisce un’idea costruttiva che mira ad aumentare gli spazi fruibili delle strutture: compaiono nuraghi con torre tronco-conica. All'interno ospitano una o più camere sovrapposte, coperte da una volta realizzata con la tecnica ad aggetto.

Il Bruncu Madugui è un nuraghe a corridoio di notevole mole, con planimetria irregolare. Come si nota nell’immagine, la sua altezza è di circa 4,50 m. L'ingresso immette direttamente in una scala (a) sulla quale si affaccia, a destra, una piccola nicchia (b). Proseguendo, la scala introduce in un andito che dà accesso a due camere di pianta circolare, una a sinistra e una sul fondo.
Abbiamo anche nuraghi a tancato, nei quali alla torre principale viene aggiunta un'altra torre ed entrambe condividono un cortile, spesso fornito di un pozzo. In momenti successivi vengono aggiunte altre torri collegando il tutto con dei muraglioni. Si giunge alla metà del XIV a.C. quando le architetture nuragiche sono interessate ad un fenomeno di perfetta circolarità delle camere e tholos ogivali che misurano fino a 8/9 metri di altezza. Anche le grandi pietre utilizzate mostrano la ricerca della regolarità geometrica arrivando, in alcuni casi, ad essere lavorate in simmetria e isodomia. Alcuni nuraghi a corridoio sono trasformati in complessi palaziali a più torri sovrapposte raccordate da bastioni, ma nel passaggio dal Bronzo al Ferro, ossia intorno al 1000 a.C., nasce un nuovo tipo architettonico abitativo a isolati che tende verso forme di aggregazione protourbana.

Il baricentro della comunità nuragica si sposta dal nuraghe al villaggio, e le case si dispongono spesso a ridosso o sopra i resti delle cinte antemurali dei nuraghi crollati. Gli isolati sono formati da più ambienti, da 6 a 8, disposti a corona intorno alla corte centrale. I vani, caratterizzati da tetti lignei, sono costruiti con pietre di media e piccola pezzatura. In molti villaggi sono frequenti i pozzi idrici, e si notano canalette per il deflusso dell’acqua e condotte idriche che raccolgono e convogliano le acque sorgive. In alcuni casi, come a Santa Vittoria, Barumini e Dorgali, compaiono viottoli lastricati.
I segni che testimoniano uno status di villaggio che tende verso la polis sono vari: Templi o santuari, resti di nuraghi, capanne e grandi sale comuni per gli incontri dei rappresentanti politici e religiosi della comunità. Queste grandi sale certificano una maggiore articolazione delle attività. Questi piccoli villaggi mostrano una struttura con planimetria complessa che parte da una aggregazione di più capanne circolari, raccordate da muri retti o curvilinei, intorno ad uno spazio centrale, e arriva ad una sorta di gruppi di domus chiuse in se stesse, formate da tanti piccoli vani che si affacciano sul cortile centrale.

Non è chiaro se questa divisione degli spazi coincida con una ripartizione degli ambienti all'interno di un’unica famiglia per classi di età o sulla base del sesso, o con funzione diversa: zona notte, cucina, dispensa, magazzino, laboratorio...
Esistono poi capanne nuragiche che per il loro aspetto denotano funzioni differenti da quelle private: si tratta di grandi capanne circolari con particolari arredi, tali da farne ipotizzare un uso comunitario, politico o religioso. Sono convenzionalmente denominate curie o capanne delle riunioni. In questi luoghi venivano prese le decisioni sulla giustizia, sull’amministrazione degli affari, e sulla politica comunitaria. Analizziamo alcune di queste grandi capanne.

A Barumini, una delle rotonde più significative del villaggio nuragico (risalenti al passaggio dal bronzo al ferro) è la capanna 80. Si tratta di un vasto edificio circolare che presenta lungo il perimetro interno un sedile, e nelle pareti 5 nicchie. All’interno della capanna sono stati trovati vari elementi riconducibili all’area sacra e rituale.
All’inizio del Ferro Su Nuraxi andò quasi interamente distrutto e sulle rovine, intorno al 700 a.C., venne costruito un nuovo agglomerato, che sviluppò finezze tecniche e forme di arredo urbano proprie di una società che andava rinnovandosi e progredendo. È il momento della fusione dei nuragici con quei commercianti levantini che già da qualche secolo stimolavano con nuovi stili il modo di vivere delle comunità costiere.

L’ambiente più significativo è una piccola “rotonda” dotata di un basso sedile e un bacile centrale che serviva per contenere dell’acqua. A mio parere la struttura era utilizzata come capanna sudatoria o per la pratica di riti lustrali legati al culto delle acque.
A Santa Cristina, tra i resti del villaggio nuragico, il monumento principale è il pozzo sacro in basalto, dedicato al culto delle acque, l'esempio più mirabile dell’architettura religiosa preistorica nell'isola. All'esterno ha un recinto ellittico in pietra di 500 mq (26x20). La scala di 25 gradini è a sezione trapezoidale. La cella ha una pianta circolare del diametro di 2,5 metri e un altezza di sette metri. Il pavimento è stato ottenuto spianando la roccia viva e al centro si trova la vasca circolare.

L'acqua che filtra dalle pareti raggiunge ancora oggi il primo gradino della scala. Accanto al pozzo sacro, ossia nella zona più importante del villaggio, troviamo la grande capanna delle riunioni, dotata di sedili in pietra per accogliere i partecipanti alle riunioni. La sala ha un diametro di 10 metri e un elevato residuo di 1,70 m. L’interno presenta un pavimento in ciottoli e un sedile che corre lungo tutta la circonferenza. Non si ha notizia dei ritrovamenti, ma le grandi dimensioni e la presenza del sedile a parete portano a compararla con le altre Capanne delle riunioni presenti a Barumini, Palmavera-Alghero, Santa Vittoria di Serri, Santa Anastasia-Sardara dove sono stati rinvenuti materiali di pregio e elementi di culto.

Ad Alghero, nel nuraghe Palmavera, la Capanna delle Riunioni, è costruita a Sud-Ovest del bastione e inclusa successivamente nel tracciato dell’antemurale. È l’ambiente più vasto dell’intero complesso.
Il diametro esterno misura 11,50 m, mentre quello interno risulta di quasi 9 m. Durante gli interventi del 1962, questa capanna risultava completamente ostruita dal crollo che fu asportato per una profondità variabile da 1 metro, lungo le pareti, a mezzo metro nell’area centrale. Gli scavi del 1976 hanno restituito significativi elementi culturali che confermano la destinazione pubblica: un bancone-sedile che segue il profilo circolare della capanna; una vasca delimitata da lastre ortostatiche; un piccolo nuraghe e un trono in arenaria. L’ingresso a gradini, volto a Sud-Est, introduce all’interno della capanna il cui pavimento risulta ribassato (m 0,60) rispetto al piano di calpestio esterno. La porta è delimitata da due lastroni ortostatici disposti obliquamente con la funzione di proteggere, sia a sinistra che a destra, il bancone-sedile.
Attualmente si contano 36 sedili in arenaria che corrono lungo la parete del vano, ad eccezione del tratto occupato dalla “vasca” e dal seggio. Una lacuna è visibile subito dopo l’ingresso. Si può calcolare che i sedili rimossi siano 7, per cui il numero complessivo diventa di 43. Vicino alla nicchia è presente una vasca costituita da lastroni ortostatici. II trono era fra i sedili a parete e la vasca alla quale era unito da una piccola lastra. Il piccolo nuraghe fu scoperto nel livello inferiore dello strato di crollo, a contatto con il pavimento, in prossimità del focolare.
Negli scavi del 1976 fu portata alla luce, al centro della capanna, una base circolare che per lo spessore della cenere venne interpretata come un focolare. L’anno successivo si rinvennero sotto uno spesso strato di cenere, fittili, resti di pasto e un troncone di pilastrino corrispondente con quello di base del piccolo nuraghe rinvenuto l’anno precedente che viene così ad avere una altezza complessiva di circa 1 m. Altri di questi piccoli nuraghi sono testimoniati in vari siti dell’isola.
Lo scavo ha accertato che quando venne costruita la Capanna delle Riunioni si dovettero demolire strutture abitative preesistenti. Si normalizzò il terreno con piccole pietre e si realizzò il piano pavimentale della “Curia” con un sottile strato di malta bianca ottenuta con il disfacimento della pietra calcarea. Appena al di sotto di questo battuto pavimentale, è stata messa in luce parte di una capanna più antica, forse coeva al mastio, demolita proprio in occasione della costruzione della Capanna delle Riunioni. Lo studio dei resti faunistici rinvenuti, condotto da Fedele, ha rivelato varie categorie di animali: pecore e capre adulte e neonate, maiali adulti, porcellini e bovini adulti. Il “focolare” ha restituito anche i resti di un piccolo erbivoro, una zanna di cinghiale e patelle. Per le specie selvatiche abbiamo cervo, daino, muflone, lepre (o coniglio), ghiro sardo e uccelli. I selvatici di raccolta e pesca comprendono pesci e una grande varietà di molluschi marini: patelle, pinna nobilis, gasteropodi a grande conchiglia (murici) e piccoli gasteropodi di spiaggia. È presente anche un frammento di corallo. Analisi di idratazione dell’ossidiana effettuate dall’Università della Pennsylvania su un nucleo di ossidiana rinvenuto fra un sedile e la parete, ha fornito la datazione 900 a.C. Una cronologia coerente con i dati emersi nel corso dell’indagine. Infatti, al IX a.C. indirizzano i materiali fittili con decorazione geometrica. Inoltre, lo stretto legame formale fra il seggio di Palmavera e un modellino di sgabello bronzeo, di fattura nuragica, proveniente dalla tomba villanoviana di Cavalupo (il cui corredo conteneva anche due bronzi sardi) è riferito alla seconda metà del IX a.C., e costituisce una prova importante per datare l’impianto dell’edificio.La vicenda storica di questa capanna si conclude alla fine dell’VIlI a.C. a causa di un violento incendio che la distrusse e di cui restano vistose tracce di ceneri.


Per esaminare nel dettaglio l’aspetto di una capanna nuragica semplice possiamo avvalerci dell'esempio fornitoci dal vano F del villaggio di S'Urbale a Teti (NU) distrutto da un incendio nel IX a.C.
La sala ha pianta circolare con un diametro esterno di oltre 7m e uno spessore di quasi un metro. La struttura poggia sul piano di roccia granitica che per la sua disomogeneità i nuragici tentarono di livellare. L’ingresso, rivolto verso sud / sud-est, come quasi tutti i nuraghi, è al riparo dai venti freddi del nord e offre la migliore esposizione al sole. È orientato proprio come oggi gli esperti orientano i pannelli fotovoltaici per una maggiore resa.
Ad attrezzare lo spazio interno troviamo una grande lastra di granito vicina all’ingresso usata come piano d’appoggio e un piccolo ripostiglio ricavato sempre con lastre di granito infisse verticalmente nel battuto pavimentale; questi piani d’appoggio servivano come basi per la preparazione degli alimenti mentre i ripostigli sul piano del pavimento contenevano gli attrezzi da lavoro o le materie prime da destinare alle produzioni artigianali. Nello specifico il ripostiglio ha restituito strumenti per la filatura e la tessitura (fusaiole, rocchetti e pesi da telaio), alcuni affilatoi, una pintadera, una piccola accetta in pietra, attrezzi per la macinazione dei cereali e una riserva d’argilla grezza destinata alla produzione di recipienti ceramici. Come la maggior parte delle capanne nuragiche il vano F di S’Urbale aveva un focolare al centro dell'ambiente. Al fine di isolare meglio l’interno della sala gli interstizi tra le pietre del muro vennero riempiti dai nuragici con pezzi di sughero coprendo poi il tutto con un vero e proprio intonaco d'argilla. Sempre in argilla era realizzato il piano pavimentale ed il rivestimento interno della copertura lignea di pali e frasche; quest’ultimo, in seguito alla distruzione della capanna a causa di un incendio, venne recuperato in pezzi a contatto col pavimento. Nell’argilla indurita per effetto del fuoco sono ben evidenti le impronte degli elementi lignei costituenti la copertura della capanna.
Seppure non hanno lasciato una traccia materiale dobbiamo immaginare anche all’interno della capanna F di S’Urbale, come del resto in tutti i villaggi nuragici, tutta una serie di oggetti realizzati in materiali deperibili: tappeti di lana, stuoie di giunco o d'asfodelo, sgabelli di legno o ferula o sughero, cassapanche e ripiani di legno.


Gli scavi degli ultimi 10 anni a Florinas hanno consentito di precisare l’uso cultuale delle grandi Rotonde, edificate o rifasciate con blocchi perfettamente squadrati e sagomati per adattarsi al profilo. Oltre all’opera muraria di tipo isodomo e alla planimetria circolare, questi edifici presentano un’altra peculiarità data dall’assenza di spazi sotterranei (per esempio la canna di un pozzo) e del collegamento ad una sorgente: tuttavia, il rinvenimento in alcuni di essi di canalette, lascia ipotizzare che vi praticassero comunque riti lustrali o libagioni. Generalmente questi edifici non sono collegati ad altri corpi di fabbrica ad eccezione di un atrio, non sempre attestato. Buona parte delle “Rotonde” sono ubicate nella Sardegna nord occidentale: due sono state messe in luce in ambedue i villaggi-santuario di Florinas (Punta Unossi e Giorrè), una nell’area sacra di Serra Niedda-Sorso e in quella di Nughedu San Nicolò. Altri tre sono stati identificati nel nuorese: Sa Carcaredda-Villagrande Strisaili, Gremanu-Fonni, Corona Arrubia-Genoni. A queste si aggiunge la Rotonda di Su Monte di Sorradile, un complesso nuragico di valenza cultuale, nel quale scavi recenti hanno dimostrato che l’edificio principale non si inquadra fra i templi a pozzo bensì in quello delle “Rotonde”. Si ritiene che i villaggi-santuario costituissero un punto di riferimento per una vasta area territoriale, aspetto che appare confermato in quanto sulla base dell’indagine di superficie non si riscontrano tracce di edifici di valenza cultuale per un ampio raggio, benché la densità di altre tipologie di monumenti nuragici (nuraghi e tombe di giganti) sia notevole.

A Santa Vittoria Serri, l’estremo edificio orientale del Santuario, la Curia, fu uno dei primi ad essere rimesso in luce nella campagna di scavi del 1909. Nello scavo si evidenziarono grossi massi basaltici non lavorati e lastre calcaree, in parte recuperate dai romani per le proprie sepolture. Si mise in luce un edificio, a pianta circolare di 11 m di diametro interno (14 m diametro esterno), costruito a filari di blocchi in basalto con zeppe di piccole pietre. Il vasto ambiente presenta un unico ingresso, rivolto a S/SE. È dotato di una soglia, costituita da blocchi basaltici giustapposti. Sul pavimento, in ciottoli basaltici, era steso un battuto compatto di argilla nera. Lungo tutto il perimetro interno del vano corre un sedile in blocchi di calcare (ad eccezione dell’estremità sinistra dello zoccolo che presenta blocchi in basalto) capace di una cinquantina di posti. In corrispondenza di questa zoccolatura a 3 m dal pavimento sono infisse obliquamente verso l’alto, nella parete interna del muro, una serie di lastre bianche di calcare che, originariamente, insieme alle altre riutilizzate per le tombe romane o cadute, formavano una sorta di baldacchino per gli individui seduti nei seggi di pietra. Vi è da osservare la presenza di 5 nicchie da porre in rapporto con la conservazione di oggetti legati a pratiche rituali.


Nella nicchia maggiore, vicina all’ingresso, è inserita una vaschetta in calcare, rinvenuta colma di terriccio nero ricco di sostanze carboniose, che suggerì l’idea di una fossa destinata ad accogliere le ceneri dei sacrifici. Davanti a questa vaschetta si rinvenne uno dei piccoli nuraghi in calcare che gli archeologi hanno scavato nelle altre capanne delle riunioni sparse nell’isola. L’ultimo elemento liturgico della Curia è una vasca in trachite, posta a sinistra della porta d’ingresso, nello spazio lasciato libero dal sedile. Intorno all’altare e al piccolo nuraghe, per circa 2 metri e uno spessore di 40 cm si stendeva il banco di ceneri con i resti di sacrifici animali (bovini, capre e cinghiali) e del vasellame in frantumi sia di produzione locale (tegami, ollette a collo rovescio e ziri con robuste grappe in piombo di restauro) sia di importazione, interpretabili come corredo vascolare per cerimonie religiose. Nella sala gli archeologi hanno scavato anche vari manufatti in bronzo: figurine di animali (toro, vacca, cinghiale e capro accovacciato, corrispondenti con gli animali realmente sacrificati). C’erano anche navicelle ridotte in frammenti, prue a forma di protome taurina, alberi (nuraghi stilizzati) con anello sormontato da colombella, un modellino di cesta in vimini con due anse. Completano il quadro dei bronzi una serie di oggetti d’uso: spilloni, un pugnaletto, una lima, numerosi vasi in lamina di bronzo e un torciere cipriota della fine dell’VIII a.C. simile agli esemplari di quello rinvenuto nel villaggio nuragico di S’Uraki a San Vero Milis, di quello proveniente dal ripostiglio di Tadasuni, dalla necropoli fenicia di Bithia, da Othoca, da Caere in Etruria, da varie località dell’Iberia, della Grecia, di Cipro e del Vicino Oriente. Lo scavo dimostrò che l’edificio subì una violenta distruzione intorno al 300 a.C.

Lilliu, correttamente, scrisse che nella Curia di Santa Vittoria di Serri la presenza del sedile anulare e degli arredi liturgici testimoniano una capanna delle Assemblee federali, lontana dal rumore del complesso architettonico destinato alle feste, edificato nella pace del bosco. Nel Parlamento di Serri convenivano i signori delle comunità nuragiche dei territori circostanti la giara di S. Vittoria. Si discutevano alleanze, si giuravano i patti e gli accordi venivano suggellati da una sacra cerimonia che comprendeva sacrifici di animali e libagioni, ossia offerte di liquidi. Le statuine zoomorfe in bronzo costituiscono un perfetto elemento di prestigio integrato nelle assemblee, che potevano svolgersi anche di notte come sembrerebbe dedursi dal torciere e dalle navicelle bronzee che, in particolari rituali, possono essere utilizzate come prestigiosi elementi liturgici da porsi in relazione a norme che richiedevano una ‘fiamma ardente, simbolo di luce e di splendore divino.

lunedì 21 novembre 2011

Fenici e Punici in Sardegna - 2° e ultima parte - Paolo Bernardini

Paolo Bernardini
Fenici e Punici in Sardegna - Atti I.I.P.P.


Dopo la prima parte, pubblicata qualche giorno fa, oggi inserisco la conclusione dell'intervento del Prof. Bernardini, scusandomi per il contrattempo legato al virus che ha infettato il mio p.c. e mi ha impedito in questi giorni di legare le due parti. Buona lettura.


Nell’ambito di quella che, con accezione approssimativa e generale, viene definita “corrente rialzista”, alcuni studiosi lavorano attualmente su una prospettiva conciliativa che, partendo dalla valutazione di una sostanziale continuità della cultura nuragica fino a tutto l’VII a.C. e dalla difficoltà oggettiva di separare esperienze e tradizioni culturali e tecnologiche nel passaggio dal Bronzo al Ferro, confermano sostanzialmente al IX e all’VIIa.C. il processo di incontro e interrelazione tra Fenici e indigeni in Sardegna; la cultura nuragica, intesa come cultura vitale, specifica e autonoma sarebbe però in via di esaurimento già entro il secolo successivo. La crescita degli insediamenti fenici costieri e interni tra la fine del VII e il VI a.C. è soprattutto affidata alla registrazione delle necropoli: principalmente Monte Sirai e Bitia da una parte, Tharros e Othoca dall’altra. Nei corredi alla ceramica fenicia si accompagnano ora, in modo abbondante, le importazioni di ambito etrusco e greco: si tratta, rispettivamente, di buccheri e ceramica etrusco-corinzia, di prodotti corinzi e greco- orientali, che trovano anche una buona circolazione in ambito indigeno, attraverso forme di commercio per le quali il tramite fenicio non può considerarsi esclusivo: i casi più noti sono le coppe “ioniche” di Monastir o i buccheri di Furti, senza dimenticare la grande frequenza di prodotti di questo genere attestata nella Sardegna meridionale e che, come nel caso di San Sperate, attende una pubblicazione esaustiva. L’insediamento di Focei a Olbìa, la crisi strutturale dei modelli insediativi fenici in area atlantica e mediterranea, l’emergere prepotente di Cartagine sullo scenario occidentale, il venir meno dell’energia imprenditoriale tiria nella madrepatria preludono intorno alla metà del secolo, allo scontro epocale nelle acque del mare sardo e al mutamento di orizzonte e di ideologia che segna il passaggio a una nuova epoca della storia mediterranea. L’intervento cartaginese in Sicilia e in Sardegna, l’intera politica mediterranea del centro africano tra il 540 e il 509 a.C. –anno del primo trattato con Roma, l’altra nuova realtà mediterranea in fase di espansione– appartengono a un disegno che mira alla formazione di un ben preciso predominio politico. Cartagine ha avviato questa strategia nella prima metà del secolo innanzitutto in terra africana attraverso la progressiva formazione di uno stato forte e solidamente impiantato, fornito di un’ampia estensione territoriale. La creazione di questo potente stato nord-africano è la premessa all’ulteriore espansione mediterranea; i suoi promotori sono la ricca aristocrazia cartaginese sempre più orientata verso l’acquisizione di un potere familiare e personale. Ad una intraprendente personalità dell’aristocrazia cartaginese della prima metà del V a.C., Annone, una fonte antica attribuisce il merito di aver trasformato i Cartaginesi da Tirii (cioè Fenici ) in Africani (cioè, in potenza egemone mediterranea, ben radicata in terra d’Africa). Ad altri due personaggi della stessa classe aristocratica è attribuita l’iniziativa della conquista della Sardegna: le spedizioni di Malco e di Magone, tra il 545 e il 535 la prima, tra il 525 e il 510 la seconda, realizzano quel parziale e ancora precario controllo politico e militare dell’isola sarda sancito alla fine del secolo dal già ricordato trattato con Roma. Il contesto generale dei rapporti mediterranei di Cartagine rivela il reale significato storico della conquista dell’isola; non si tratta certamente di accorrere in aiuto dei vecchi empori fenici minacciati dai greci o dagli indigeni ma di un disegno legato a una strategia più ampia, scandita da importanti avvenimenti “internazionali. Negli anni intorno al 540 a.C. Cartagine si impegna a fianco degli Etruschi nella battaglia del mare sardo contro i Focei mentre avvia il consolidamento delle proprie posizioni nel settore occidentale della Sicilia; nel giro di alcuni decenni, importanti centri dell’area tirrenica sono legati a doppio filo con la città punica –si pensi alla politica filo cartaginese del tiranno di Caere, Thefarie Velianas, testimoniata dalle lamine di Pyrgi ma anche al partito filo punico attestato dalle fonti nella stessa Roma, nelle fasi di passaggio dalla fase monarchica a quella repubblicana. Il passaggio della Sardegna alla fase punica non è semplicemente un graduale sviluppo della cultura fenicia verso esiti dipendenti in sempre maggior misura dalla matrice nord-africana di Cartagine; è, al contrario, applicazione dura e traumatica di una realpolitik di cui molti centri fenici dell’isola dovranno subire dolorose conseguenze. Il riconoscimento critico della profonda diversità tra la fase fenicia e quella punica è emerso attraverso l’analisi e la ricerca archeologica nell’evidenza delle diverse ritualità funerarie legate alle rispettive fasi culturali e alla netta distinzione delle relative produzioni artigianali. Ancora l’archeologia ha chiarito in senso storico, oltre la testimonianza dei manufatti, quanto devastante sia stato per vari centri fenici dell’isola l’imposizione dell’egemonia cartaginese nel corso del VI secolo: la distruzione del santuario di Cuccureddus di Villasimius (530 a.C.), il brutale annichilimento dell’insediamento di Monte Sirai alcuni anni dopo (520 a.C. circa) indicano con evidenza, insieme al ripiegamento di altri importanti centri fenici come Sulci o Bitia, quanto duro sia stato lo scontro con Cartagine. Studi recenti tendono a ridimensionare l’entità dell’impegno militare cartaginese nell’isola, valorizzando in alternativa l’importanza dello scambio commerciale come veicolo dell’egemonia culturale della città africana; ma l’intervento militare e la fisionomia archeologica complessiva disponibile per gli orizzonti di fine VI-inizi V sec. a.C. non consentono rimozioni totali, ivi comprese quelle tentate a livello di analisi testuale nei confronti di Malco. Il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione in fossa o in cista litica all’inumazione in tombe costruite e della produzione ceramica e artigianale in genere, con l’apparizione delle protomi, delle maschere, dei gioielli in oro, delle stele nei tofet documentano la portata del mutamento. Il cambio radicale della cultura materiale può infatti spiegarsi almeno in parte come esito di un fenomeno di trasferimento forzoso di popolazione, con l’immissione di massicci nuclei di genti nord-africane nell’isola. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria e la definizione di nuovi rapporti economici e commerciali con gli interlocutori mediterranei che privilegiano in questo caso i mercati ateniesi. Nel corso dei due secoli successivi, i nuovi modelli diventano sempre più evidenti: si assiste alla penetrazione capillare degli spazi fertili dell’isola, che appare sempre più intensa e parcellizzata man mano che la ricerca archeologica procede nelle sue
indagini nell’area centro-meridionale e centro-settentrionale dell’isola. I modelli insediativi prevedono una costellazione di piccole comunità ma anche di grossi borghi siti in luoghi particolarmente favorevoli alla viabilità interna e allo sfruttamento sia delle risorse agricole (ad esempio, Monte Luna di Senorbì) sia delle risorse minerarie (ad esempio, l’insediamento–santuario di Antas di Fluminimaggiore). Ma vi sono anche la creazione di nuovi importanti centri costieri o sottocosta come le città di Neapolis, nata dal potenziamento di un antico emporio fenicio, o di Olbia, lo sviluppo di antichi empori di fondazione fenicia strategicamente utili come collettori di risorse provenienti da aree interne di particolare fertilità, come Tharros e Karalis. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata e di grande spessore che emerge negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.). E’ significativo che la nuova dimensione mediterranea di Cartagine, preludio allo scontro con Roma, proceda di pari passo con il progressivo adeguamento della città africana, tra il IV e il II a.C., ai modelli culturali e ideologici delle fasi iniziali e mature dell’ellenismo, il cui riflesso nella produzione artigianale appare evidente. Dietro la grande fioritura della Sardegna punica in questi secoli esistono certamente, insieme al perseguimento di obiettivi economici, fenomeni legati al prestigio, al potere clientelare e all’evergetismo delle potenti famiglie dell’aristocrazia punica. Sotto questa luce si comprendono compiutamente la ripresa economica e culturale di antichi centri fenici come Sulky, la raffinatezza evidente nella cultura materiale di nuove fondazioni puniche come Neapolis, o la ristrutturazione, nel corso del IV a.C., di settori importanti dei centri urbani come i santuari tofet e i principali templi cittadini o, infine, l’edificazione delle cinte murarie o di delimitazione urbane che nella Sardegna punica si incontrano tutte in questa fase cronologica e culturale. Alla fine del II a.C. (238 a.C.) la Sardegna diventa possedimento romano; le continue e ripetute ribellioni che accompagnano la fine del secolo non riusciranno più a mutare la situazione. Certamente l’isola non perderà, con i nuovi padroni, una tradizione culturale ormai saldamente acquisita; indagini sempre più numerose e puntuali affrontano il problema complesso della produzione artigianale di queste fasi storiche nelle quali i modelli vincenti dell’ellenismo non riescono ad annullare le antiche matrici orientali della cultura fenicia e punica; su un piano diverso, l’uso della lingua punica in iscrizioni ufficiali ancora nel II d.C. dimostra chiaramente quale fosse ancora la tradizione culturale più vitale nell’isola pur dopo secoli di dominazione romana. Una valutazione complessiva sullo stato della ricerca sulla problematica dell’incontro tra Fenici, Cartaginesi e mondo indigeno di Sardegna deve in primo luogo sottolineare due punti che hanno fortemente condizionato gli sviluppi delle indagini: in primo luogo, la concentrazione degli studi sui luoghi “classici” dell’insediamento fenicio e punico, cioè i grandi centri costieri e quelli dell’immediato retroterra coloniale con una generale sottovalutazione per la ricomposizione di quadri territoriali più ampi e organici; in secondo luogo, la sostanziale “solitudine” e impermeabilità con la quale studiosi di cose fenicie ed esperti di archeologia nuragica hanno proceduto e procedono nella loro ricerca, lontani da orizzonti comuni e condivisi di indagine che permetterebbero approcci più puntuali e organizzati alla definizione dei “paesaggi” storici dell’età del Ferro della Sardegna. Ancora applicata marginalmente risulta poi, in campo metodologico, la disciplina dell’archeologia dei paesaggi in ambito di analisi e di ricognizione (Garau 2006), così come pesano come macigni le grandi e disperanti lacune che oscurano interi settori territoriali: basti ricordare il silenzio della costa orientale, pure sede di un insediamento come Sarcapos, neppure sfiorato dalle indagini, o quello che, sulla costa opposta, avvolge Bosa, da cui proviene un frustulo epigrafico fenicio di altissima antichità ma anche l’esiguità dei dati che distingue Cagliari e il suo golfo, senza dimenticare la fase davvero iniziale della ricerca legata ai siti fenici del golfo oristanese, non solo in rapporto a Othoca e a Neapolis ma anche in relazione al sito di Tharros, pure apparentemente corredato da una documentazione imponente; fa fede a questo riguardo la recente attività di prospezione avviata nella regione di Mistras alla ricerca del primitivo porto tharrense con la rivoluzionaria prospettiva di localizzazione della fenicia Tharros in area esterna a quella della Tharros polis di età punica e romana (Zucca cds). Questa situazione ancora “marginale” della ricerca si muove inoltre con un pericolo costante: quello di dare valore di modello a situazioni o siti che sono semplicemente corredati da maggiori informazioni ma che, non per questo, debbono pretendere ipso facto il credito dell’esemplarità; nella ricerca sui Fenici in Sardegna e sui processi di interazione con le comunità indigene e pure con la necessità, che è anche dovere e impegno della ricerca, di proporre quadri preliminari di riferimento e di lettura critica, prudenza e misura sembrano quanto mai opportune.

domenica 20 novembre 2011

Il mondo dei nuragici - Giovanni Ugas


Aspetti della società sarda tra il XVI e il X a.C.
di Giovanni Ugas

E' cosa ben nota quanto sia straordinario il numero delle residenze fortificate dei capi protosardi, chiamate nuraghi, che controllavano e amministravano i territori cantonali e tribali tra il Bronzo medio e il Bronzo finale; nelle sole carte topografiche risultano oltre 5 mila, ma raggiungevano con molta verosimiglianza una cifra non inferiore a 7/8 mila a giudicare dai censimenti archeologici più recenti. Questi dati evidenziano l’esistenza di un sistematico controllo, amministrativo e difensivo dell’intero territorio sardo, sia pure diversificato in rapporto alla morfologia dei suoli, alla disponibilità economica e alle strategie generali. Per il loro aspetto formale e la pertinenza cronologica, i nuraghi sono distinti in arcaici o protonuraghi (datazione non calibrata: circa 1600-1330 a.C.) ed evoluti o classici (circa 1330-900 a.C.).
I protonuraghi, definiti talora anche nuraghi a corridoio, raggiungono già la cifra ragguardevole di circa 1200/1500 unità. Caratterizzati da corridoi e/o da camere ovali od oblunghe coperti da volte tronco-ogivali (e poi ogivali gradonate), i protonuraghi sono diffusi in tutto il territorio dell’isola e si distinguono tra loro per la diversa articolazione, come più tardi i nuraghi evoluti. Ora risultano semplici (con un solo vano per livello), ora sono formati da un bastione a più ambienti, talvolta difeso da una cinta turrita esterna (Biriola-Dualchi; Su Mulinu - Villanovafranca). I bastioni dei protonuraghi si mostrano come “palazzi” megalitici a più piani (due o forse tre nella fortezza di Su Mulinu), dal contorno concavo-convesso, e raggiungono già altezze considerevoli (non inferiori ai m 15), anticipando, nel loro aspetto, i più recenti bastioni turriti evoluti, come Su Nuraxi-Barumini, Arrubiu-Orroli e Santu Antine-Torralba, nei quali il mastio centrale può superare m 25.
Il numero decisamente inferiore dei protonuraghi con bastione circondato o non da cinta antemurale rispetto a quelli semplici indicano che, già nel XVI-XIV, la società protosarda aveva una sua articolazione interna ed era retta da capi di maggiore e minore rango.

Per la difesa ordinaria delle residenze fortificate erano necessari gruppi di guardie nelle garitte degli ingressi, sugli spalti e per la difesa personale dei capi. Già nei protonuraghi dotati di cinta esterna (provvista in genere di almeno sette torri), come Su Mulinu e Biriola-Dualchi, era indispensabile una guarnigione di un centinaio di soldati, che all’occasione doveva essere rinforzata con l’appoggio della popolazione dimorante nei villaggi. I proiettili litici per fionda, le cuspidi di freccia in ossidiana, soprattutto le possenti spade e i pugnali in rame arsenicato di Sant’Iroxi, ci assicurano che fin dal 1600 i protosardi erano frombolieri, spadaccini e arcieri. Almeno a partire dalla fine del XIV a.C. si faceva uso anche di lance corte, come evidenziano le armature in bronzo piccole e affusolate trovate negli scavi.
In sostanza già al tempo dei protonuraghi esisteva un’articolata piramide sociale con al vertice i capi o “re”, di maggiore e minore potere, stabiliti in residenze fortificate, piccoli palazzi, dove venivano conservate e amministrate le risorse vitali del territorio. La forza lavoro risiedeva in villaggi privi di mura, in stato di palese subalternità rispetto a chi dimorava nei castelli. La struttura micro-palatina non era sostanzialmente diversa dal sistema politico che ruotava attorno agli alti bastioni turriti del Bronzo recente (fine XIV - metà XII a.C.), quando però dovette aumentare il potere dei re e quello dei guerrieri, oramai parte di una casta cristallizzata nell’ambito di residenze regie che perduravano per diverse centinaia d’anni, che garantivano il mantenimento del sistema politico e sociale e con ciò la loro ragione sociale.
Questa situazione conoscitiva relativa ai protonuraghi è importante perché fa emergere un dato inconfutabile: al tempo in cui gli Shardana nel XIV a.C. militavano nei contingenti egiziani stanziati a Biblo e Ugarit, in Sardegna vi erano guerrieri esperti sia nelle mansioni proprie delle guardie personali dei capi (dovevano usare pugnali e spade e forse avevano pratica di lotta), sia nelle diverse armi e tecniche di combattimento: frombolieri e arcieri per la guerra a lunga gittata, lancieri per la distanza media e corta, spadaccini (immancabilmente difesi dallo scudo) negli scontri a viso aperto, “corpo a corpo”.
La struttura politica interna non muta nei secoli successivi (XIII-XII a.C.) e ciò porta a un numero delle residenze di capi sempre più consistente, fino a diventare esorbitante. Come detto, intorno al XIII, i nuraghi assommano a circa 7500, cifra ragguardevole in rapporto alla superficie (Kmq 24.000, media 1 nuraghe ogni kmq 3), mentre i villaggi sono stimati intorno a 2500-3000, cioè circa 1 ogni 10 kmq). Allora la popolazione dovette raggiungere i 400.000-600.000 abitanti. Nel loro insieme, le residenze dei capi maggiori (re tribali e cantonali) e dei capi minori (principi dei sub-cantoni), risultano circa 3000-3.500 (più di un terzo dell’intero numero dei nuraghi). Durante il Bronzo recente, le tribù della popolazione iliese della Sardegna centro meridionale dovevano essere circa 40, a giudicare dal numero degli eraclidi re Tespiadi, nipoti dell’eponimo Iolao (Ilas in dialetto dorico) adombrato nella letteratura greca.
Il considerevole numero e l’ubicazione dei nuraghi nel territorio, anche nelle piane alluvionali dove mancano i grandi massi per costruirli, implicano l’esistenza di un sistema di popolamento controllato e centralizzato. I tre più importanti popoli dell’isola, gli Iliesi (o Iolei) nel centro sud, i Balari nel Nord-Ovest e i Corsi nel Nord-est, erano organizzati per tribù che dovevano godere di ampia se non di totale autonomia. Da alcuni passi della letteratura greca si può dedurre che i re delle dinastie iolee, cioè i capi delle tribù iliesi erano 40 o poco più. Un numero così rilevante di distretti tribali, confermato anche dalle popolazioni locali attestate in età romana, come i Siculesi, i Galilesi nel Sud e i Nurritani e i Lugudonesi a Nord, testimonia una notevole articolazione nel tessuto antropico sardo che doveva produrre una certa instabilità e forse conflittualità nei loro rapporti
A giudicare dal computo dei nuraghi con cinta turrita esterna, i capi delle tribù e dei cantoni insediati erano in numero limitato, mentre erano assai numerosi, circa duemila, forse in proporzione al numero dei villaggi, i capi minori che controllavano i bastioni polilobati, privi di difesa murari esterna dei sub-cantoni. Col tempo l’estrema parcellizzazione del territorio disponibile dovette portare a un collasso del sistema politico ed economico, costringendo all’emigrazione una parte della popolazione, soprattutto quella giovane, e creando così le premesse per movimenti migratori alla ricerca di nuove terre, come accadde per i popoli italici e non diversamente, io credo, per gli Shardana e gli altri Popoli del Mare.
Gli edifici monumentali turriti dell’architettura nuragica del XIII e XII a.C., ancora oggi caratterizzanti il paesaggio sardo, destavano la meraviglia degli scrittori greci che li ritenevano opera di Dedalo. Le residenze di capi (i nuraghi), i sepolcri (tombe di giganti), i templi dell’acqua e i templi in antis, insomma tutti gli edifici pubblici, presentano un aspetto megalitico di bell’effetto generato sia dalla disposizione dei conci quasi sempre a filari, sia soprattutto dall’impiego sistematico di slanciate volte di sezione ogivale nelle camere circolari, nei corridoi, negli anditi, e talora nelle nicchie, una vera e propria arte gotica “ante litteram” (Lilliu). Si tratta di un’architettura ciclopica, apparentemente arcaica, ma pienamente geometrica, razionale e al passo con i tempi, se non precorritrice, soprattutto nell’impiego della volta in edifici soprassuolo, che se non inventata fu di certo perfezionata dai Sardi.

Occorre ricordare che in Oriente e in Grecia, solo assai più tardi, nel Ferro I avanzato, le volte in muratura furono adottate nelle camere circolari di edifici non funerari soprassuolo. Queste soluzioni costruttive, abbinate alla linea retta delle cortine o al profilo concavo-convesso dei bastioni (frutto dell’impiego del compasso e della fune e di rapporti armonici legati all’uso dell’unità metrica lineare di cm. 5,5), e più tardi alla bicromia e tricromia dei conci isodomi, al coronamento delle mensole dei terrazzi, offrivano ad un tempo un senso di geometria razionale, possanza e armonia, frutto di secolari esperienze nell’edilizia.
Non è esagerato affermare che, se gli architetti egizi furono i maestri insuperabili della copertura piana su pilastri e colonne, gli architetti sardi furono i maestri dei tholoi. E’ vero che in alcuni edifici dell’Argolide le volte micenee appaiono più grandiose di quelle dei nuraghi, come il tholos del “Tesoro di Atreo”, ma occorre rimarcare che tali volte sono il risultato di un rivestimento parietale ipogeico, non sono mai disposte su più piani e, non dovendo sopportare grandi carichi, non presentano particolari difficoltà per la statica complessiva degli edifici. In effetti, i Greci continentali e i cretesi, così come gli architetti anatolici e del Vicino e Medio Orientale, non usano le camere circolari con la volta negli edifici aerei, ma piuttosto impiegano colonne per realizzare le coperture degli ambienti più spaziosi (megara) dei loro palazzi.
Gli abitati nuragici sono sempre privi di mura di protezione, salvo forse alcuni casi da riportare al Bronzo Medio, come Frenegarzu di Bortigali e Monte Sara di Macomer) o piccoli nuclei insediativi arroccati su speroni di roccia. E’ un caso isolato il grande recinto, ancora da indagare, provvisto di torri che circonda il villaggio ubicato attorno nuraghe Losa di Abbasanta. Le abitazioni ordinarie sono formate da capanne singole, di pianta ovale o oblunga nel protonuragico (Bronzo Medio), sistematicamente circolare nel Bronzo recente, in sintonia coi nuraghi evoluti. L’edilizia nuragica non attesta colonne o pilastri, nonostante le loro frequenti documentazioni nei preesistenti sepolcri ipogeici prenuragici, se non nell’atrio delle abitazioni della piana del Campidano meridionale costruite con zoccoli di pietre piccole e muri di mattoni di fango. Si tratta di edifici complessi a vani quadrangolari, preceduti da pilastri con capitelli a gola (Monte Zara – Monastir) ascrivibili alla fine del Bronzo recente II e agli inizi del Bronzo Finale (XII a.C.). Il Campidano è il retroterra del golfo di Cagliari, la regione più adatta all’agricoltura e la più aperta agli influssi esterni. Nell’insediamento di Monte Zara in Monastir sono state messe in luce alcune case con pilastri e capitelli a gola di fine XIII-XII a.C. A questo periodo si fanno risalire anche le prime aggregazioni, delle capanne circolari, come a Serra Orrios di Dorgali, con raccordi murari aggiunti spesso a capanne preesistenti.
Con l’avvento di regimi politici di tipo aristocratico, nel Ferro I sardo, a partire dal 900 a.C., le abitazioni pluricellulari a corte centrale dei villaggi protosardi si presentano generalmente a vani quadrangolari e comprendono, talora, un piccolo ambiente termale rotondo, in origine coperto a tholos (Su Nuraxi di Barumini, Sedda Sos Carros di Oliena). A questi edifici rotondi, con un sedile a giro e al centro un grande bacile, sono state attribuite diverse destinazioni d’uso ma la presenza del forno per riscaldare l’acqua e di vasche, canali e doccioni non lasciano dubbi sulla loro funzione termale.

Nelle immagini: Fronte Mola, Monte Baranta e capanna Asusa.