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venerdì 18 marzo 2011

Porti e approdi antichi nel Golfo di Cagliari, Rassegna organizzata da Italia Nostra.


Porti e approdi della Sardegna antica.
Ruben D’Oriano: la Gallura


E' in corso la rassegna organizzata dall'Associazione Italia Nostra Onlus, che vede la partecipazione di alcuni archeologi su temi riguardanti porti e approdi antichi nell'isola (vedi locandina nell'immagine). Ho assistito ai primi incontri e ho pensato di regalare ai lettori che non sono potuti intervenire, la sbobinatura delle relazioni, scusandomi fin da ora per la presenza di qualche piccolo errore, dovuto a mia imperizia per la difficoltà di trasformare il "file" registrato in "file" leggibile.


Le popolazioni nuragiche erano in contatto con genti che arrivano d’oltremare, per la precisione con la Grecia e altri luoghi dell’Egeo. Evidenze di commercio fra la Sardegna e le sponde orientali del Mediterraneo, come i lingotti di rame ox-hide, a forma di pelle di bue, prodotti a Cipro, testimoniano che nel Bronzo Recente, fin dall’inizio del XIII a.C., i contatti fra popoli distanti erano praticati. Anche Arzachena e Olbia mostrano tracce di questi commerci, evidentemente alcune di queste navi risalivano la costa orientale fino alla Corsica e al sud della Francia. I greci descritti da Omero nell’Iliade, sono i primi che arrivano in Occidente percorrendo tutto il Mediterraneo. Ciò è testimoniato dal materiale miceneo che è stato trovato in tutte le coste dalle sponde orientali fino alla Spagna. Per la prima volta nel Mediterraneo si diffonde il concetto mentale dell’intero Lago Mediterraneo. Fino a quel momento i contatti si sono svolti per brevi distanze, per luoghi contigui. Questi navigatori sono i primi a capire questa geografia complessiva delle sponde del Mediterraneo e si verifica un’esplosione dei traffici commerciali che consapevolmente attraversano l’intero bacino, dal vicino oriente fino allo Stretto di Gibilterra. La nostra storia della stratificazione di evidenze culturali nella Gallura, comincia con i fenici intorno al 750 a.C.

A Posada sono attestati ritrovamenti archeologici, come ad esempio un’ancora fenicia, che confermano che questi levantini sono ospiti presso i villaggi nuragici per sviluppare vicendevolmente questi rapporti commerciali. Questa è una delle modalità dell’approccio dei fenici con l’occidente, ma c’è anche un altro approccio: a Olbia i fenici si stabiliscono con un insediamento proprio, nell’area oggi occupata dalla città. Si trova alla radice di un golfo molto riparato che si apre su una piana difesa da una corona di colline, in un sito ideale per l’antropizzazione. I fenici sentono quindi l’esigenza di stabilirsi in un insediamento proprio. Il materiale è stato trovato fuori contesto, nella zona dell’insenatura portuale. Fino a quel momento, l’area nella quale sono distribuiti i fenici si trova sempre presso i villaggi dei locali. Sono ospiti dei nuragici, come avviene a Sant’Imbenia, a Posada, e come avviene con i greci a Pitecusa. Evidentemente in questo periodo fioriscono i rapporti commerciali con i ricchissimi principi etruschi e laziali, e con la madrepatria Tiro che sovrintende a tutto questo movimento di commerci e stanziamento in occidente. I fenici sentono l’esigenza di stabilirsi con un villaggio proprio. Ci sono chiari elementi che ci parlano di rapporti floridi dell’insediamento fenicio di Olbia con gli indigeni dell’entroterra, i tardo-nuragici. Un esempio è costituito da una brocchetta in bronzo di stile fenicio, con l’attacco di un ansa che riporta decorata una palmetta in stile fenicio. È una sorta di prototipo di un oggetto prodotto dai nuragici che scelgono di copiare i manufatti orientali che transitano nel porto di Olbia. Sono oggetti di pregio in argento o bronzo, e li troviamo anche nelle tombe principesche del Lazio e dell’Etruria meridionale.
Per i greci e fenici che si spingono dall’oriente verso l’occidente, per commercio o per stabilire insediamenti propri, i partners indispensabili per avviare questa colonizzazione sono i locali. Non c’è mai un danno per gli indigeni, anche perché sia Tiro che le città greche, non sono popolate da milioni di abitanti, pertanto i navigatori sono sempre costituiti da qualche decina di persone. Per il prosperare economico e demografico di questi insediamenti, è vitale un rapporto buono con le popolazioni locali. Sono molti gli indicatori archeologici che ci fanno pensare a matrimoni misti, fenici o greci con indigeni. L’ideologia che vede la Sardegna colonizzata da “rapaci” fenici che la conquistano e sottomettono, è una stupidità storica.
Verso il 630 a.C. accade un cambio epocale: il sito di Olbia viene strappato ai fenici dai greci e cambia anche il panorama archeologico dei materiali ritrovati. Compare esclusivamente materiale greco per circa un secolo, fino al 510 a.C.
Un manufatto corinzio, fra i più importanti ritrovati in Sardegna, riporta un’iscrizione in greco, a dimostrazione che in questa fase Olbia è una città greca, la prima e unica nell’isola. Anche in questo periodo sono evidenti i rapporti fecondi con i locali. Sono stati scavati frammenti di ceramica indigena in uno strato di materiale greco. Non si tratta di contenitori di derrate alimentari, che quindi potrebbero essere oggetti di compravendita, ma è evidente che si tratta di manufatti di uso comune, e ciò suggerisce che in seno alla comunità greca insistono ancora gruppi di indigeni che producono materiali locali. Lo scenario di questo periodo abbraccia l’intero Mediterraneo: verso il 630 a.C., l’impero assiro preme ai fianchi di Tiro e Sidone, madrepatria dei fenici. Questa pressione determina un indebolimento degli insediamenti fenici in Occidente, ma gli stessi assiri si spingono anche negli insediamenti greci della Turchia, e uno di questi, Focea, decide di inviare parte degli abitanti in cerca di fortuna a Occidente, dove già da oltre un secolo si trovavano colonie greche. La prima area che trovano libera dall’influenza degli etruschi, dei greci dell’Italia meridionale e dei fenici è proprio la costa nord-orientale della Sardegna, dove l’insediamento fenicio di Olbia era distante e isolato dagli altri insediamenti fenici e, quindi, in condizioni di debolezza. I focei si sostituiscono ai locali nell’insediamento e Olbia diviene la chiave di volta per l’accesso a quel settore del Mediterraneo occidentale che non è urbanizzato, fra le attuali Genova e Barcellona, dove non c’è l’influenza etrusca, né quella cartaginese. Nel 600 a.C., quindi solo 30 anni dopo, i focei fondano Massalia, l’attuale Marsiglia, e nel 575 a.C. fondano Alalia, in Corsica. Questi fatti sconvolgono l’assetto delle rotte navali fino all’epoca praticate, infatti l’irrompere degli intraprendenti focei nel Golfo del Leone determina un’alleanza fra gli etruschi e i cartaginesi mirata a cacciare i focei stessi da quelle zone. La presenza della Olbia greca crea risvolti anche a largo raggio nella Sardegna del tempo.
L’area orientale dell’isola è meno fenicizzata, non ci sono insediamenti, e nei villaggi nuragici gli influssi fenici sono minori. Proprio in queste zone orientali, ad esempio a Orani, si trovano bronzetti tardo nuragici che evidenziano una chiara attenzione agli aspetti anatomici. Sono di chiara ispirazione greca, con un modellato che mostra muscoli, glutei, polpacci…Nelle zone occidentali della Sardegna i bronzetti sono più filiformi, meno interessati ad esprimere questi aspetti. Questo fatto, oltre alla presenza di ceramiche greche, è indizio di questa irradiazione degli scambi culturali e commerciali greci di Olbia con il mondo nuragico. Fra il 545 e il 510 a.C. si consuma la conquista della Sardegna da parte di Cartagine. Questa città è divenuta nel tempo la più potente colonia della Tiro fenicia in Occidente, e intraprende una serie di campagne militari per l’acquisizione territoriale della cuspide occidentale della Sicilia e dell’intera Sardegna, a danno dei cugini fenici che da oltre due secoli vivevano in Sardegna. Contemporaneamente affronta anche gli etruschi e i greci focei di Alalia e Olbia per strappare le rotte navali e commerciali tirreniche, e tutto ciò si concretizza nella battaglia del Mare Sardo del 535 a.C. quando i greci sono costretti ad abbandonare Alalia. Non è un caso che negli anni successivi a questa battaglia navale spariscono i materiali greci da Olbia e dalle zone limitrofe. I greci finiscono in Campania, ospitati a Sibari e a Poseidonia.
Cartagine si limita a controllare economicamente la Sardegna e, particolarmente ad Olbia, non si assiste ad un arrivo in forze dei cartaginesi. I dati archeologici forniscono dati che suggeriscono un blocco delle importazioni dall’esterno. Questo accade solo per circa 150 anni, fino al 348 a.C.
Nel V a.C. inizia ad affacciarsi sul Tirreno una nuova forza: Roma. Sappiamo dalle fonti letterarie e da indizi archeologici che Roma nel 368 a.C. fonda Feronia, un insediamento nell’area di Posada. In quel periodo Cartagine non ha in quelle zone un insediamento poderoso, e quel tratto di costa si trova proprio di fronte al litorale di Roma. Cartagine reagisce inviando delle truppe e mettendo fuori gioco l’insediamento romano nella costa. Nel 348 a.C. stipula un accordo con i romani con cui pattuisce che questi non possono approdare in Sardegna, e quindi non possono commerciare, senza il controllo di Cartagine. Per assicurarsi che l’accordo venga rispettato, Cartagine deve rinforzare la difesa della costa orientale, soprattutto nei punti strategici. I dati archeologici mostrano infatti una presenza massiccia, una vera e propria deduzione coloniale, ossia edificano una città che presenta caratteri ellenistici. Quando parliamo di una città dell’antichità, non dobbiamo avere la visione odierna della struttura urbana. La città antica, intesa in senso urbanistico e monumentale, era quella ellenistica con degli elementi ben delineati. Le mura e le piazze mostrano indizi di un impianto urbanistico a pianta ortogonale, con santuari nei punti più alti e sul porto, in cui persiste il culto precedente, i templi erano infatti già esistenti, sia nella fase fenicia che in quella greca.
Si nota la presenza di laboratori artigianali per il ferro, per la ceramica, per la tinteggiatura dei tessuti con la porpora, e ci sono necropoli fuori dell’area urbana. Negli strati di fondazione di questa colonia cartaginese, si trova una discreta presenza di materiale laziale, quindi dobbiamo pensare che gli scambi con la costa tirrenica continuarono per un bel periodo. Ancora una volta è importante il rapporto con gli indigeni, con la presenza di molte ceramiche di produzione locale che suggeriscono l’inurbamento di genti indigene nella città fenicia.
Presenze non altrettanto rilevanti come numero, ma anche esse importanti, sono segnalate a Santa Teresa di Gallura. Il porto di Olbia è collettore delle produzioni per l’hinterland, ed è redistributore delle merci che arrivano d’oltremare. Insieme alle merci arrivano gli uomini, le idee, le novità, le religioni e tutte le varie influenze culturali.
Nel corso del III a.C., Cartagine entra in conflitto con l’espansione territoriale avviata da Roma e le due potenze si confrontano anche dal punto di vista economico, oltre che commerciale. Il consolidamento dei possedimenti cartaginesi anche nella penisola iberica, la pone come rivale dell’astro di Roma e si arriva alle ben conosciute guerre puniche. Fra la I e la II guerra punica, Roma approfitta del momento di debolezza della rivale e si impossessa della Sardegna, usufruendo anche di una sorta di malcontento delle popolazioni locali e delle precedenti città fenicie, vessate da forti tributi per il sostegno delle guerre di Cartagine. È possibile che le città cartaginesi della Sardegna siano passate volentieri dalla parte di Roma che, pur essendo all’epoca una delle città più popolose del Mediterraneo, non poteva certo presidiare tutti i centri sardi, infatti Olbia ancora per circa 150 anni rimase a tutti gli effetti una città punica. Vediamo lentamente il diffondersi degli elementi di cultura romana, con la presenza di personaggi di Roma nei posti di rilievo dell’amministrazione pubblica, ma la punicizzazione delle città rimane ben radicata. Le tipologie tombali, ad esempio, rimangono quelle tipiche della tradizione cartaginese, con tombe a camera scavate nella roccia, che a Olbia persistono fino alle soglie del I a.C.
La divinità, Melkart per i fenici ed Eracle per i greci, rimane la stessa perché i romani rispettano i culti precedenti. Col passare del tempo Roma fa delle scelte che la portano ad essere, nel I a.C. la prima potenza globale, e riesce a comprendere nelle sue fila molte fra le popolazioni di tutto il bacino Mediterraneo. Un’unica gestione politica, economica e militare, abitata da popolazioni molto diverse. Ciò determina per Roma l’esigenza di organizzare le produzioni e i commerci su scala globale. Gli aspetti economici cambiano rispetto al passato e le attività si spostano verso i porti, con un incremento dell’urbanizzazione costiera. Ai tempi di Cesare e Augusto, Olbia appare come una città pienamente romanizzata, e le tracce archeologiche cartaginesi scompaiono. Già da prima nei porti mediterranei si nota la multiculturalità, ma nell’epoca romana si accentua questa evidente globalizzazione dei centri nevralgici deputati ai commerci.
Olbia, fino a quel momento un porto di medio livello nel Mediterraneo rispetto ad Alessandria d’Egitto, ci offre un’enormità di dati che mostrano una compagine umana etico-culturale proiettata verso l’esterno, con iscrizioni e manufatti che ci portano al mondo greco, egizio, cipriota, della Siria e dell’Italia in generale. L’età romana vede interessati altri centri nella zona di Olbia, ad esempio Santa Teresa per il granito, La Maddalena, San Teodoro…
Tutti gli imperi hanno una loro parabola ascendente e una parabola discendente, e l’impero romano segue le stesse caratteristiche. Nel III d.C. c’è una decadenza che, tuttavia, nel IV d.C. mostra qualche segno di ripresa sul piano politico, ma il declino economico continua a manifestarsi in entrambi i secoli. Le azioni di contrasto verso Roma, da parte delle popolazioni dell’Italia, si fanno sempre più incisive e nel V d.C. comincia la disgregazione territoriale dell’impero. Una svolta decisiva arriva con il sopraggiungere dei Vandali che, dopo aver attraversato Inghilterra, Francia e Spagna, si insediano in nord Africa e iniziano a puntare sul Tirreno affamando Roma colpendo i centri di produzione e smistamento delle risorse alimentari. In questo quadro si colloca l’affondamento di 11 navi onerarie ormeggiate nel porto di Olbia, scavate dagli archeologi e parzialmente in mostra al museo di Olbia. Per circa un secolo i Vandali mantengono il possesso dell’isola ma non hanno nessun interesse a riattivare il porto di Olbia, poiché il regno dei Vandali è circoscritto a Sardegna, penisola iberica e nord-Africa. Non avendo nessun interesse verso l’Italia, il porto di Olbia non è funzionale alle loro attività e inizia una lunga decadenza.
Dal 450 al 1000 d.C. i centri presenti in Sardegna continuano la loro quotidianità, ma non fanno più parte di quel mercato globale che l’impero romano aveva organizzato. Nel 550 d.C. l’impero bizantino riesce a cacciare i Vandali e a riprendere possesso della Sardegna, ma per problemi che sorgono in oriente non può più permettersi il lusso di mantenere il controllo dell’isola e in questa fase la Sardegna deve procedere da sola. Intorno al 1000 d.C., si costituisce il fenomeno dei Giudicati, ossia le 4 potenze locali organizzano un sistema politico ed economico autonomo e Olbia si trova ad essere il principale centro del Giudicato di Gallura. Questi 4 regni entrano in conflitto fra loro e si alleano chi con Pisa e chi con Genova per la lotta per la supremazia sulla Sardegna.
Olbia sceglie Pisa come interlocutore e inizia a ripresentarsi nelle rotte verso l’oriente. Siamo alla vigilia delle crociate, un periodo che darà impulso al risorgere dei collegamenti fra oriente e occidente, e si presenta il problema di ripristinare il porto e di mantenerlo in perfetta efficienza. Si compie un’opera di ristrutturazione degli impianti esistenti e si cambia leggermente la linea di costa per migliorare l’approdo. Tutto ciò cambia quando avviene la conquista da parte della corona aragonese che sbarca in armi in Sardegna nel corso del XIV d.C. e determina una seconda fase di grave declino per Olbia e il suo porto. Il baricentro degli scambi si sposta nuovamente dal Tirreno verso il mare che divide Sardegna, nord-Africa e penisola iberica. Ancora nel 1850 Olbia si presenta con una struttura urbana che conserva il perimetro del periodo punico e romano. L’espansione avviene con l’unificazione dell’Italia quando la Sardegna che dal 1700 era sabauda, viene coinvolta nuovamente nei traffici tirrenici. Olbia diviene nuovamente centro strategico e lo sviluppo territoriale e demografico diventa evidente.
La storia del territorio di Olbia potrebbe concludersi con alcune osservazioni. Lo studio del passato non è fine a se stesso, ma si occupa dell’analisi delle azioni degli individui del passato per capire come funziona la vita dell’uomo. Si possono studiare anche i gruppi sociali che interagiscono e compiono insieme un cammino verso il futuro. Mi interessa, quindi, proporre tre riflessioni: una pessima letteratura, pseudo scientifica e giornalistica, che si va accreditando presso una certa fetta dell’opinione pubblica sarda, spinge verso la ricerca dei miti e delle leggende, e va ad identificare emotivamente i sardi di oggi con i nuragici. Propone le fasi culturali successive fenicia, punica e romana come se questi popoli fossero conquistatori e colpevoli di aver cancellato la memoria storica nuragica. Questa è una colossale stupidaggine, perché qualsiasi popolazione oggi vivente, in qualsiasi angolo del mondo è il frutto genetico e culturale di tutti quelli che si sono avvicendati in quella terra nei millenni precedenti. I nuragici non ci sono più, così come non ci sono più i micenei, gli etruschi e gli altri antichi popoli. Queste genti sono diventate “altro” durante i secoli, si tratta di una mescolanza continua di geni e culture.
È stato pubblicato da poco un libro sull’onomastica romana. Su 800 nomi propri o di famiglie, quelli di ascendenza nuragica sono solo 25. Dobbiamo quindi spogliarci da questo modo di vedere la civiltà nuragica come “i nostri progenitori gloriosi”. Siamo figli di tutte le popolazioni che sono sbarcate sull’isola e non possiamo identificarci solo con quel popolo. Allo stesso modo i toscani non sono figli degli etruschi, così vale per i romani e per i greci. Questo tipo di divulgazione mediatica deve terminare ma, purtroppo, questa mentalità è stata seguita anche da illustri archeologi sardi.
La seconda riflessione riguarda uno dei più importanti problemi della nostra società:l’immigrazione. Lo spostamento di genti dai luoghi dove si muore di fame o di guerra, verso dove non si muore, non è mai stato fermato da nessuno, e non lo fermerà nessuno neanche in futuro perché chi scappa dalla morte è estremamente più motivato di chi, invece, vive tranquillo. I personaggi più potenti della storia dell’occidente, compresi i grandi imperatori romani, erano persone illuminate che rivestivano un ruolo che li vedeva padroni del mondo. Non si sono minimamente sognati di opporsi ai cosiddetti “barbari” e impedire il loro ingresso nell’impero. Roma adottava strategie diversificate: in alcuni casi li combatteva, ma più frequentemente li integrava, utilizzandoli come “cuscinetto di confine” con le popolazioni più lontane. La mescolanza genetica e culturale è vitale per la specie umana, e chi non accetta il ricambio, genetico e culturale, è destinato a scomparire. Le società che si chiudono in se stesse compiono un suicidio. Questa è l’evoluzione dell’uomo: scambio di cultura e scambio genetico sono le basi della storia dell’umanità. Naturalmente si adottano strategie per rendere fluidi i meccanismi ed evitare gli scontri accesi, ma opporsi è sciocco, masochistico, inutile e, alla lunga, dannoso.
La storia del Mediterraneo, il più grande lago del pianeta, è segnata da una realtà inoppugnabile: è la culla delle civiltà della Terra. È il luogo nel quale è avvenuto il picco culturale che ha visto la nascita dell’agricoltura e tutte le successiva evoluzioni. Questo mare è sempre stato un minestrone di culture che si incontravano, di modi di vedere, di idee diverse che venivano a contatto. La crescita è derivata dalla mescolanza dei popoli.
La terza riflessione riguarda l’identità. Questo concetto non esiste, si tratta di una convenzione. Cosa significa essere sardi o appartenenti ad un’altra identità? Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono un popolo da un altro?
Possiamo teorizzare che sia la lingua piuttosto che le feste che celebra?
Potrebbe essere ciò che mangia?
Provate a pensare semplicemente alle differenze di alimentazione fra La Maddalena e Cagliari e capite che l’identità non esiste. È la stessa identità nostra di individui che non esiste: noi siamo diversi da noi stessi a 18 anni. L’individuo che ero io 20 o 30 anni fa è un estraneo. L’identità culturale, nazionale, regionale…non c’è. Si parla tanto di identità, di italiani, e certamente alcune cose ci accomunano. Tuttavia bisogna stare attenti, perché i confini dell’identità ci sfuggono proprio perché trattiamo un concetto che non esiste. La lingua potrebbe essere un elemento di confine, oppure la religione, o forse l’identità di appartenere al genere umano, ossia alla stessa specie, ma questi confini sono sempre convenzioni.

3 commenti:

  1. Non entro nel merito dell'articolo di D'Oriano perché ogni autore è libero di affermare le proprie idee archeologiche e di proporle in pubblico, saranno poi le competenze e la preparazione dei lettori a scegliere ciò che è "verità" da ciò che non lo è.
    Ma vorrei entrare nello specifico della terza riflessione del relatore, quella riguardante l'identità. Sono in forte contrasto col pensiero dell'archeologo. Ritengo l'identità, sarda piuttosto che bavarese o basca, un pilastro della vita quotidiana. Non voglio affermare che i sardi siano migliori dei pugliesi, o inferiori ai siciliani, ma sono profondamente convinto che le differenze culturali, linguistiche, territoriali, sociali, etiche...siano necessarie per la sopravvivenza di ogni comunità. E' un pilastro che si costruisce fin dall'infanzia e deve essere manipolato solo da esperti conoscitori del problema.
    Sono i confini spaziali tracciati nelle carte geografiche ad essere errati, specie quando sono frutto di scelte politiche fatte a tavolino che non tengono conto della morfologia del territorio, delle condizioni di vita e di altri parametri rilevanti. Questi errori hanno generato guerre civili che ancora mostrano tracce visibili, come nella ex Jugoslavia, quando non si è tenuto conto dell'identità dei popoli e si è creato un mix esplosivo che non poteva durare a lungo.
    Suggerisco all'archeologo di continuare con la ricerca scientifica e con le pubblicazioni di libri e articoli a tema, ma di abbandonare temi sociali e antropologici, soprattutto quando si ha una visione della società che non corrisponde alla realtà ma al proprio background culturale.

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  2. Caro Rubens d'Oriano,

    guarda che l'idiotissima idea che il nemico viene dal mare si è affermata a causa di Giovanni Lilliu e dei suoi pedissequi allievi.

    PS: assieme a questa Lilliu e i suoi pedissequi allievi hanno sentenziato tante altre corbellerie, prima di tutto l'idea del nuraghe fortezza , madre di ogni sciochezza!!

    cordiali saluti

    Mauro Peppino Zedda

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  3. Caro Mauro, purtroppo alcuni studiosi, poco esperti di tattiche militari e navali, si lanciano in proposte avventurose che naufragano alle prime riflessioni. La Sardegna dell'età del Bronzo era inattacabile via mare per almeno tre motivi:
    1) Non esistevano imperi in grado di allestire una flotta militare tanto maestosa da attraversare l'intero Mediterraneo solo per invadere la Sardegna (ben conosciuta a quell'epoca).
    2) Nessuno poteva approdare in Sardegna senza essere immediatamente accerchiato (ancora prima di tirare la barca in riva) da centinaia di guerrieri armati fino ai denti che avrebbero scoraggiato qualunque intrepido invasore (le navi in arrivo sono distinguibili da qualunque porto almeno alcune ore prima di approdare).
    3) La Sardegna commerciava pacificamente (ed è la ragione più evidente).

    Per quanto riguarda la teoria dei nuraghe fortezza sono più cauto. Quelli polilobati hanno anche funzione militare, e sono generalmente ubicati in luoghi strategici protetti da linee difensive (non cinte murarie) controllate da nuraghe più piccoli posti lungo i confini del territorio di pertinenza.
    A mio parere i nuraghe sono edifici con funzioni ben distinguibili secondo la posizione. Queste funzioni vanno da quella di controllo del territorio a quella di tempio, da quella di riserva di derrate alimentari a quella di luoghi idonei a celebrare riti religiosi o civili piuttosto che edifici dedicati alle divinità sotto i quali i nuragici si riunivano per chiedere protezione. La trasposizione di questi immensi edifici avvenuta intorno al X a.C., quando vengono miniaturizzati e inseriti nelle capanne circolari, ci fa capire che gli dei dei nostri antenati erano sublimati nelle torri, piccole o grandi che fossero.
    Attenzione però...non erano fortezze come non erano templi! Anzi, meglio, rivestivano spesso entrambi i ruoli, come affermo ormai da oltre 4 anni. Ricordo che le prime volte venivo accusato di superficialità, mentre oggi illustri archeologi affermano la stessa teoria.

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