Diretto da Pierluigi Montalbano

Ogni giorno un nuovo articolo divulgativo, a fondo pagina i 10 più visitati e la liberatoria per testi e immagini.

Directed by Pierluigi Montalbano
Every day a new article at the bottom of the 10 most visited and disclaimer for text and graphics.
History Archaeology Art Literature Events

Storia Archeologia Arte Letteratura Eventi

Associazione Culturale Honebu

Translate - Traduzione - Select Language

giovedì 30 settembre 2010

Rassegna culturale "Viaggio nella storia"



Eventi culturali
Inizierà domenica 17 Ottobre presso la Biblioteca comunale di Villanovaforru, con una relazione sull'alimentazione dei nuragici presentata dal direttore del museo, Dr. Mauro Perra, la rassegna culturale "Viaggio nella storia".
La manifestazione si snoderà lungo un percorso di 12 convegni con docenti dell'Università di Cagliari e ricercatori, e si concluderà a fine Maggio 2011.
Ogni appuntamento prevede la visita guidata ai siti di interesse storico e archeologico del territorio sede dell'evento, un convegno a tema con dibattito finale, il pranzo nei migliori agriturismo della zona e la pubblicazione di un articolo di sintesi, corredato di fotografie, in questo blog.
La partecipazione è libera, salvo prenotazione se si vuole pranzare in ristorante.
Ecco gli appuntamenti:
. 17 Ottobre, Villanovaforru, con Mauro Perra
. 24 Ottobre, Castello di Sanluri, con Valentina Lisci
. 7 Novembre, Barumini con Giovanni Ugas, Paola Mancini e Claudia Pau
. 21 Novembre, Cagliari con l'arte orientale e Ruben Fais
. 28 Novembre, Tharros con le città fenicie e Carla del Vais
. 19 Dicembre, Grotte Is Zuddas di Santadi con Pierluigi Montalbano
. 06 Marzo, Nurallao, la tomba di Ayodda, con Alessandra Saba
. 27 Marzo, Pozzo di Santa Cristina e Losa, con Pierluigi Montalbano
. 10 Aprile, Santa Vittoria di Serri con il "Popolo di Bronzo" di Angela Demontis
. 08 Maggio, Tharros, con Rossana Martorelli e Roberto Coroneo
. 22 Maggio, Isili, Nuraghe Asusa e Is Paras con Giovanni Ugas e Alessandra Saba
. 29 Maggio, Ales, Diocesi e museo, con Alessandra Pasolini.
Nel blog pubblicherò le locandine di ogni appuntamento, e per chi non disponesse di mezzi propri è prevista la possibilità di raggiungere i siti con un contributo di 10 Euro per il posto auto nella carovana che sarà allestita con partenza da Cagliari.

mercoledì 29 settembre 2010

La funzione dei nuraghe 2° e ultima parte


La funzione dei nuraghe
di Mauro Perra

Un altro studio ha riguardato il Pranu e Muru di Orroli, un altro tavolato basaltico che si trova intorno ai 550 metri di altitudine che comprende i comuni di Orroli e Nurri. È tagliato dal corso del fiume Flumendosa. Lungo l’orlo a precipizio del tavolato ci sono oltre 30 nuraghe, con una scala di valori gerarchici. C’è l’Arrubiu, un pentalobato, e altri nuraghe piuttosto semplici. L’Arrubiu è posto proprio sul guado che consentiva di passare da Orroli a Escalaplano, gli altri sono disposti lungo il margine, in prossimità delle scalas. L’Arrubiu è stato scavato intorno agli anni Ottanta e sono state fatte anche le analisi dei pollini. Questo studio botanico è importante perché oggi andando nella giara di Gesturi, o nella giara di Siddi, o nel Pranu e Muru di Orroli, troviamo luoghi spogli, privi di vegetazione. Ci sono solo piccole querce piegate dal maestrale e c’è da chiedersi come facessero a sopravvivere tante persone in questi luoghi. La storia dei pollini di questo nuraghe ci ha raccontato che quando il nuraghe fu costruito, intorno al XIV a.C., c’era una densa foresta di querce, ma dopo un secolo la foresta scompare. Dall’80% di pollini di piante arboree si passa al 20%. La spiegazione la forniscono i microfossili non pollinici.
Sono state trovate delle spore di funghi particolari (Chaetomium sp.) che crescono in occasione degli incendi. Il bosco è stato bruciato dai nuragici per far posto a radure adatte alla coltivazione di cereali, troviamo infatti pollini di cereali. Inoltre, lo studio delle ossa animali, ci dimostra che attorno al nuraghe si allevavano le tre specie caratteristiche del bacino mediterraneo: bovini, suini e ovicaprini. Analizzando le spore al microscopio hanno infatti scoperto un fungo (coprofita) che cresce negli escrementi degli animali. Evidentemente, come oggi, anche allora non si preoccupavano tanto dell’impatto ambientale. A dimostrazione di tutto ciò, all’interno del nuraghe Arrubiu si trova una piccola torre vuota, lastricata, alta 4.7 metri, costruita con pietre di piccolo taglio, È al centro di un sistema di torri ed è quindi sorvegliatissimo. Si tratta del silos della comunità, e il calcolo della capacità è risultato di circa 150 quintali, sufficienti a sfamare per un anno una popolazione di circa cento individui. Si deve tener conto che 25 quintali devono essere tolti per la semina annuale successiva. Probabilmente c’è un altro silos che non è ancora stato scavato, delle stesse dimensioni di quello già scavato. Con la flottazione dovremmo riuscire a trovare resti vegetali carbonizzati. Era quindi il granaio della comunità intera. Il vaso per conservare le derrate si chiama dolio. Questi contenitori potevano essere alti fino ad un metro e contenere fino a 3 quintali di cereali. Ne sono stati trovati tanti, purtroppo fracassati, ma nel fondo c’erano semini carbonizzati di grano tenero. Contenevano grano e orzo.

Nel nuraghe quadrilobato Lugherras di Paulilatino è stato trovato un silos identico, un granaio incassato dentro la muratura. Nel nuraghe Orolo sono stati trovati due granai dentro la torre centrale. Dalla capienza si potrebbe fare un calcolo per arrivare al consumo pro-capite e, quindi, alla stima della popolazione della comunità. Si tratterebbe di calcoli statistici, e andrebbero presi con le pinze, ma sono comunque dati sui quali lavorare.
In quell’epoca il tempo era misurato dal giorno e dalla notte, e dalle operazioni che si svolgevano durante l’anno, legate all’agricoltura e alla pastorizia. Tra queste è molto importante la mietitura. La macinazione (molitura) del grano veniva fatta con macine a mano e si pensa che fossero le donne a farlo, mentre i maschi si occupavano della mietitura. Le popolazioni avevano una dieta ricca di cereali e legumi (favino) e consumavano abbondanti dosi di carne, compreso il cervo e il cinghiale.

Nello strato del XIV a.C. del nuraghe Arrubiu c’è il vespaio che i nuragici hanno preparato su cui costruire il monumento. Quando si scava un nuraghe vengono ritrovati oggetti della vita quotidiana e oggetti rituali, come nel caso del vaso ritrovato infilato negli strati più antichi. I nuragici hanno fatto un buco nel pavimento del XII a.C. e lo hanno inserito nello strato del XIII a.C. compiendo, probabilmente, un rituale di rifondazione del nuraghe. Forse c’è stato un cambio di società, o forse l’Arrubiu perse la funzione di controllo del territorio e divenne un luogo per la conservazione delle risorse. Proprio negli strati del XII sono stati trovati tanti dolii contenitori di cereali.
Nello strato di base, quello del vespaio, si nota anche un altro rito nell’Arrubiu: hanno spaccato un vaso miceneo che, in base alle analisi chimiche delle argille, proviene da Micene o da Argo. Si tratta di un rituale di fondazione.
Dalla fine degli anni Ottanta, sono cambiati i metodi con i quali si affronta uno scavo. Oggi si setaccia la terra insieme all’acqua (flottazione). I materiali pesanti come il fango e le pietre cadono giù, e rimangono in superficie i resti carbonizzati. Fra questi, nella zona in questione, sono stati ritrovate tracce di vitis vinifera, quindi oltre ai cereali coltivavano la vite per fare il vino. Alcuni vasi sono stati analizzati chimicamente all’interno e hanno dato residui di acido tartarico, il primo componente del vino. Grazie al sistema della flottazione, in molti nuraghe si stanno trovando non solo i semi carbonizzati di grano e orzo, ma anche quelli della vite, di legumi e altro. Fino agli anni Settanta si scavava il nuraghe guardando nelle pietre, oggi sappiamo qualcosa in più sull’ambiente circostante grazie ai nuovi metodi utilizzati. Sappiamo cosa coltivavano e cosa mangiavano.
In uno strato del XIV a.C. del nuraghe Conca sa Cresia nella Giara di Siddi, sono stati trovati semini di grano tenero. Sono attualmente in corso analisi particolari di questi residui ed è prevista anche quella al c14. Una branca dell’archeologia, la zoo-archeologia, studia i resti di ossa animali delle popolazioni preistoriche. Questi resti di pasto ci hanno chiarito che l’allevamento era basato sulle tre specie mediterranee ma era integrato dalla caccia al cervo, al cinghiale e al Prolagus sardus, un grosso roditore senza coda oggi estinto. Gli zooarcheologi sono tanto bravi da riuscire a determinare l’età dell’abbattimento, il sesso, la specie a cui appartengono le piccole ossa. Nel nuraghe Arrubiu e a Gesturi nel nuraghe Bruncu Madugui, gli specialisti sono riusciti a trovare, su alcune ossa, le tracce di rosicatura di un cane al quale venivano, evidentemente, gettati i resti del pasto dal padrone.
Nel nuraghe Arrubiu, da un allevamento iniziale prevalente di bovini, che sono grandi mammiferi che preferiscono un ambiente boscato, si passa all’allevamento di ovi-caprini, animali che vivono in ambienti più poveri di piante.
Ogni società umana, oltre ad addomesticare piante e animali, addomestica anche lo spazio e il tempo. L’uomo si appropria dello spazio trasformando il territorio, costruendo nuraghe e cambiando il paesaggio. In tal modo si costituiscono società di tipo complesso con uomini che vivevano bene nel loro tempo e sfruttavano a fondo l’ambiente circostante.

Intorno all’inizio del X a.C. si assiste ad un crollo progressivo dei nuraghe, e non vengono più costruiti. Quelli che sopravvivono vengono trasformati, come ad esempio Su Mulinu di Villanovafranca dove, in una delle camere del bastione centrale, viene ritrovato un grande altare in pietra, con vasca che riproduce un nuraghe. Un fenomeno simile avviene nella Giara di Serri dove, poco prima del 1000 a.C., i nuraghe vengono smantellati per costruire un enorme santuario e il tempio a pozzo. Una situazione simile l’abbiamo anche nel nuraghe murdoles di Orani. Assistiamo alla trasformazione dei nuraghe in qualcos’altro, come certamente avviene anche nella società. In questi luoghi di culto si iniziano a deporre degli ex-voto, i famosi bronzetti. Se osserviamo l’eroe con 4 occhi e 4 braccia notiamo che ha due scudi, due spade e dobbiamo pensare che l’artigiano abbia voluto rappresentare un essere sovrumano, un personaggio mitico. Insieme alle sculture in bronzo troviamo rappresentati i guerrieri in pietra, quelle statue giganti ritrovate a Monte Prama e attualmente in fase di restauro al centro di Li Punti, vicino a Sassari. Sono arcieri, portatori di spada e pugilatori, alti oltre due metri.
Gli studiosi si chiedono cosa stia succedendo, cosa ha provocato questi avvenimenti, queste trasformazioni. Sono segni che l’archeologo deve cogliere, soprattutto perché si tratta di un fenomeno diffuso in tutta l’isola.
Perché rappresentare se stessi come guerrieri, miniaturizzare i nuraghe e rappresentarli in pietra e in bronzo? È curioso che ciò accada proprio mentre i nuraghe crollano. Verrebbe da pensare che volessero richiamare un passato mitizzato. Qualcuno dei personaggi emergenti della nuova società ha necessità di legittimare la propria posizione egemone, e si rifà al passato mitico dei costruttori di nuraghe.
In conclusione si può affermare che i nuraghe hanno una vita lunga ed è sbagliato cercare di attribuire una singola funzione alle strutture. La destinazione d’uso cambia col tempo e a seconda delle esigenze della comunità. Cogliere la scansione temporale della vita dei nuraghe è fondamentale per capirne l’utilizzo.


Segnalo che il Dr. Mauro Perra sarà relatore il 17 Ottobre a Villanovaforru, in occasione del primo appuntamento, dei 12 previsti, con la rassegna culturale "Viaggio nella Storia". A breve inserirò la locandina nel blog.

Nelle immagini da archeologiasarda.com e wikipedia.org, il nuraghe Lugherras di Paulilatino e il nuraghe Bruncu Madugui di Gesturi.

Le foto del convegno di Villanovafranca sono di Sara Montalbano

La funzione dei nuraghe 1° parte di 2


La funzione dei nuraghe
di Mauro Perra.

L’interpretazione della funzione dei nuraghe costituisce un problema enorme per gli studiosi. Ci siamo sempre chiesti a cosa servissero questi oltre 7000 monumenti che caratterizzano il paesaggio sardo. Anzitutto bisogna osservare che questa cifra si riferisce ad un calcolo statistico, ma nella realtà potrebbero essere più numerosi. Già questa affermazione potrebbe suggerirci a cosa servissero.
Se fossero tutti templi si dovrebbe pensare che dedicassero tutto il tempo all’adorazione delle divinità, e non avessero altro da fare. Sappiamo che non erano tombe perché abbiamo le tombe dei giganti che sono contemporanee ai nuraghe. Sappiamo che in una fase successiva, intorno al 1000 a.C., vari nuraghe vengono utilizzati come luoghi di culto.
Le spiegazioni che sono state date sulla funzione dei nuraghe sono molteplici, compresa quella di osservatori astronomici.
Il padre dell’archeologia sarda, il canonico Spano, nella seconda metà dell’Ottocento diceva che erano prigioni. In una delle sue lezioni, il maestro degli archeologi sardi Giovanni Lilliu, disse che a Sassari uno studioso locale dei primi del Novecento sosteneva che i nuraghe erano utilizzati per farvi dei fuochi sulla sommità per scacciare le zanzare.
Fra le varie interpretazioni, la meno peregrina si basa sui dati che gli archeologi ottengono quando vanno a scavare. I nuraghe sono strutture complesse che hanno una pluralità di significati e una vita molto lunga, partono almeno dal XVI a.C. e a oggi hanno circa 3500 anni. Nel loro perdurare sono ricostruiti, trasformati, restaurati e, a partire dal x a.C., intorno ad essi si costruiscono villaggi, anche se sono già crollati, e si arriva fino ai nostri giorni. Tralasciamo i significati moderni, ma già in età punica e romana, i siti dove si trovavano i nuraghe venivano regolarmente utilizzati. In età bizantina alcuni di essi diventano dei luoghi di controllo del territorio. Nella Sardegna centrale, in età moderna, si notano i nuraghe al centro di un territorio, e dalla struttura si dipartono dei muretti a secco che dividono le tanche dei pastori e dei contadini. Dall’Ottocento i nuraghe sono diventati degli importanti punti di riferimento per riconoscere le proprietà dei pastori e degli agricoltori. Sono luoghi conosciuti dalle persone che popolano il territorio. In alcuni luoghi il nuraghe diventa memoria culturale di una determinata popolazione, di un paese che riconosce in quel monumento la propria storia.

Giovanni Lilliu, fra gli anni Cinquanta e Settanta, ha costruito una teoria, un’interpretazione dei nuraghe, basandosi su ciò che aveva scritto prima di lui l’archeologo Antonio Taramelli, il soprintendente per i beni archeologici della Sardegna. Lilliu utilizza un concetto medievale, estendendolo ai nuraghe: sono dei castelli, delle fortezze, con principalmente una funzione militare. Allo stesso tempo, dentro il castello vive il re pastore, il personaggio eminente della comunità che aveva costruito il nuraghe. All’interno viveva il rappresentante del potere politico con la sua famiglia. Attorno al nuraghe c’era il villaggio della popolazione comune. Quest’idea è stata costruita sulla base degli scavi che Lilliu ha condotto a Barumini dal 1948 al 1954. Nel 1955 pubblicò il volume poderoso sugli scavi e nel 1963 uscì con “La civiltà dei sardi”, nel quale spiegava le funzioni dei nuraghe.
Quest’idea è entrata nelle nostre percezioni e la prima cosa che ci viene in mente quando vediamo un nuraghe è pensare ad una fortezza o ad un castello.
Ad Orroli abbiamo il nuraghe Arrubiu. Gli archeologi, quando hanno tolto la terra e le pietre che erano crollate dalla sommità, le hanno misurate e catalogate, e hanno trovato le ultime pietre della torre centrale. Avendo il diametro iniziale e il diametro finale, sono riusciti a calcolare l’altezza, che sfiora i 27 metri, quanto un palazzo di 9 piani. Guardando l’ipotetica ricostruzione del nuraghe Arrubiu verrebbe da pensare che Lilliu aveva ragione. C’è da osservare che è stato trovato, presso il camposanto di Olmedo, un modellino in bronzo che riporta le stesse proporzioni del quadrilobato di Barumini, con la torre centrale alta circa il doppio di quelle laterali.

Nuraghe è una parola pre-latina che non deriva, dunque, dal contatto con i romani. La più antica attestazione l’abbiamo in un’iscrizione latina del I d.C. trovata sull’architrave del nuraghe Aidu Entos di Bortigali. C’è scritto ILI IUR IN NURAC SESSAR il cui significato ha a che vedere con Plinio che ci racconta di tre popolazioni: Ilienses, Balari e Corsi. “I diritti degli Iliensi della regione del Sessar”. Sessar è un toponimo indeclinabile, esattamente come Nurac. Non sono parole latine. Da Nurac derivano Nuraxi al sud e Nurake al nord dell’isola, in logudorese. La radice Nur è evidente in Sardegna dove abbiamo la regione della Nurra. Secondo Giulio Paulis questo termine significa “voragine”, “cavità a forma di pozzo”, come ci aveva suggerito anche Lilliu negli anni Sessanta. I nuraghe si trovano spesso in posizione eminente sul territorio, in posizione di controllo, in luoghi alti. Genna Maria di Villanovaforru è a 409 metri sul livello del mare, sulla sommità di una collina. Genna Maria viene dal latino e significa “porta o passaggio verso il mare”, infatti nelle belle giornate di aria pulita, dal nuraghe si vedono sia il Golfo di Cagliari che quello di Oristano. Abbiamo quindi un primo segnale: i nuraghe sono sempre inseriti in luoghi eminenti del paesaggio.
A partire dagli anni Ottanta si è cominciato a considerare il nuraghe non più come una cattedrale nel deserto, ossia monumenti isolati. Si è studiato il paesaggio intorno agli edifici, per cercare di comprenderne la funzione. Si è estesa la ricerca con i censimenti archeologici, cioè vedere quali altri monumenti e tracce dell’attività dell’uomo erano sparsi intorno a quei nuraghe apparentemente isolati. Nel territorio fra Laconi e Meana Sardo, intorno al nuraghe quadrilobato Nolza, situato su un pianoro a 740 metri sul livello del mare, si è scoperto che intorno al monumento più grande ed evidente c’era un territorio di circa 80/100 Km quadrati nel quale c’erano altri 16 nuraghe collegati al principale. C’era un sistema territoriale delimitato dal Rio Araxisi, che scende dal Gennargentu e si riversa nel Tirso. È un fiume dove anche in Estate si conservano le acque, tanto importante che nell’Ottocento, quando il fiume si gonfiava in autunno in seguito alle piogge, o in primavera a causa dello scioglimento della neve sul Gennargentu, era impossibile attraversare il guado per andare da Meana a Atzara e Sorgono. In una ricerca presso gli archivi dei paesi interessati, abbiamo scoperto una lettera che l’allora sindaco di Meana scrive al prefetto affermando di essere bloccati e impossibilitati ad attraversare il guado a causa della piena del fiume. Se ne deduce che il nuraghe Nolza, il più importante con 4 torri, era circondato da altri nuraghe a tre torri dislocati lungo gli snodi viari e le strade di penetrazione. I nuraghe monotorre controllavano i passi montani, luoghi di accesso obbligati per passare da un territorio all’altro, e i guadi, ossia i punti di attraversamento dei fiumi. Ad esempio, nel territorio in questione, abbiamo il Rio Bau Meana a nord, utilizzato fino all’Ottocento per attraversare il Rio Araxisi e raggiungere Sorgono da Meana, mentre a sud c’è il guado Bau Eassi. Da una parte e dall’altra dei guadi ci sono due torri, a controllo dell’attraversamento del fiume, e quindi del territorio. Tutti i 16 nuraghe sono collegati a vista fra loro.
Da questa ricerca salta fuori un territorio delimitato geograficamente da fiumi e controllato strategicamente da torri satellite poste in punti chiave, subordinate a strutture trilobate che fanno capo al quadrilobato Nolza. C’è una gerarchizzazione dei nuraghe che potrebbe riflettersi nella gerarchia politica del territorio.
Un’altra ricerca è stata fatta nel pianoro di Siddi, morfologicamente simile alla giara di Gesturi. Su tutto l’orlo dell’altipiano ci sono 16 nuraghe, mentre al centro c’è la tomba di giganti denominata S’omu e S’orcu. Lo scavo ha mostrato reperti dall’inizio del XIV a.C. fino a tutto il XII a.C. La giara di Siddi è stata abitata intensamente per circa due secoli da popolazioni nuragiche che facevano parte di un’unica organizzazione sociale, si tratta di un cantone nuragico.
Nella giara di Gesturi, tra i margini e il pendio, ci sono 62 nuraghe, di cui 17 sull’orlo del tavolato basaltico, in prossimità di quei luoghi di passaggio che vengono denominati “scalas”, particolari piccoli sentieri che consentono di passare dalla parte bassa alla parte alta del tavolato. Le giare, essendo in basalto, sono impermeabili e quando piove molto l’acqua trova sfogo nei precipiti della giara. In quei punti si vengono a creare dei rivoletti che vivono per alcuni mesi ma incidono sul terreno e creano le scalas. I nuraghe sono proprio lì, a guardia di questi sentieri.

Domani la 2° e ultima parte.

Segnalo che il Dr. Mauro Perra sarà relatore il 17 Ottobre a Villanovaforru, in occasione del primo appuntamento, dei 12 previsti, con la rassegna culturale "Viaggio nella Storia". A breve inserirò la locandina nel blog.

Nelle immagini tratte da sacoronaspa.it e flickr.com il nuraghe Genna Maria di Villanovaforru e il nuraghe Nolza di Meana

martedì 28 settembre 2010

I monaci orientali 3° e ultima parte


San Basilio e i monaci orientali 3°e ultima parte
di Rossana Martorelli


Basilio di Cesarea nacque in Cappadocia, ai confini con la Turchia nel 330, in pieno periodo costantiniano, e muore nel 379. La sua famiglia è cristiana e, oltre a rifugiarsi nel deserto, i monaci orientali facevano vita monastica anche in famiglia, assorbendone i primi insegnamenti. Grazie alla famiglia benestante studiò a Costantinopoli ed ebbe una notevole preparazione culturale. Gli autori classici (Cicerone ed altri), pur essendo pagani erano tenuti in grandi considerazione per lo stile e la retorica e, in alcuni casi, anche dal punto di vista etico. Nella capitale d’Oriente ebbe contatti con i vescovi e maturò esperienze che mise a frutto al ritorno nella città natale. Si staccò dai ruoli importanti e dagli incarichi politici e lasciò la famiglia per recarsi nel deserto, una costante dell’epoca. Venne sensibilizzato a questo tipo di vita e decise di dedicarsi alla vita monastica. Si accorse che non era possibile esprimere al meglio lo spirito monastico senza fare del bene agli altri. Dei monaci del deserto non condivideva lo spirito individualistico e decise di mettere in piedi una comunità, alla quale diede un taglio medico, ospitando i poveri e gli ammalati e fondando la cosiddetta “basiliade”, una sorta di città-ospedale, che diverrà in seguito il nucleo dell’attuale Cesarea. San Basilio ha scritto molte opere e ciò ha decretato la sua fortuna. Le più importanti sono: le regole morali (un manuale monastico) e le costituzioni monastiche (i principi della sua disciplina monastica). I principi fondamentali sono: i monaci sono tutti uguali, non esiste una gerarchia, devono vivere in povertà lasciando tutto al monastero; è previsto un coordinatore che amministra i beni (l’igumeno), offrono assistenza medica, copiano i codici, leggono le Sacre Scritture e pregano. Questa forma di monachesimo, mista fra eremitismo e vita comunitaria, trova fortuna anche in occidente e i monaci al loro arrivo vennero definiti basiliani. Solo con Papa Innocenzo III, intorno al 1200, l’ordine verrà codificato.

Le dediche delle chiese non sono mai casuali, le comunità agiscono per un martire o un santo legato alla comunità stessa; pertanto anche la chiesa di San Basilio è certamente dimostrazione di un legame fra questo monaco orientale e la comunità che si è creata intorno a lui.
Nel paese esistevano già delle strutture termali e gli scavi hanno mostrato ambienti romani di forma quadrangolare, vasche e canali per l’acqua. Nei tratti murari si notano elementi in mattone e in pietra. Il mattone non è comune in Sardegna, le costruzioni erano prevalentemente in pietra già dall’epoca nuragica; pertanto si tratta di materiale di importazione da Roma; infatti avevano il marchio “officine romane”. C’era anche una produzione in Sardegna ma era di poco conto. Una costante sembra essere l’uso del mattone per strutture termali. Quando arrivarono i monaci, alcune parti degli edifici erano crollate e le ricostruzioni furono eseguite in pietra, integrando i ruderi con murature eseguite con ciò che trovavano nelle vicinanze. Le terme sono sempre collegate ad altre strutture, spesso ville, perché i ricchi proprietari terrieri si facevano costruire residenze dove andare a trascorrere il tempo libero e le terme erano un bene di lusso. Essendo legate alla disponibilità dell’acqua durano nel tempo perché vengono utilizzate anche per altri scopi dalle comunità che si alternano nel tempo. Anche a Dolianova abbiamo la stessa situazione.

A San Basilio c’è una grande vasca e si notano modifiche strutturali degli edifici che suggeriscono varie attività legate al monastero. La villa ha diverse entrate mentre i monasteri sono luoghi chiusi e protetti, quindi si verifica spesso che gli accessi siano tamponati per la trasformazione da villa a monastero. La chiesa attuale di San Basilio è successiva al periodo dei monaci, ma è stata edificata dai monaci provenienti da San Vittore di Marsiglia, chiamati dal Giudice di Cagliari, anche se sicuramente la cappella dei monaci orientali si trova sotto le attuali strutture. Quando arrivarono ricevettero la chiesa di San Saturnino a Cagliari, che diventò la sede del priorato. Questa casa madre aveva una serie di filiazioni sparse nel territorio del Campidano fino ad arrivare nel Sulcis-Iglesiente. Attualmente San Basilio si presenta con un’unica navata ma all’inizio aveva due navate. Sono stati tamponati alcuni archi ed è stata aperta una finestrella. Le chiese a due navate sono molto comuni in Sardegna e in Corsica. Visto che nella liturgia latina la chiesa riproduce la forma della croce, normalmente si presenta con un unico lungo ambiente diviso in navate dispari, nel transetto si trovano l’altare e l’abside che rappresenta la testa della croce, dove stava la testa di Cristo. Le chiese a due navate non hanno centralità e ci si chiede il motivo di questa scelta. Essendo numerose, qualcuno ha pensato che una navata fosse dedicata al battesimo e l’altra alla liturgia, oppure che una delle navate fosse la cappella di un martire. Nel caso delle chiese monastiche si è ipotizzato che una delle navate fosse per i monaci e l’altra per i fedeli. A Cagliari, in Viale Buoncammino, c’è un’altra chiesa a due navate, dedicata ai santi Lorenzo e Pancrazio.
In conclusione possiamo affermare che una comunità di monaci orientali, vicina alle regole di San Basilio, si è stabilita nel territorio del paese di San Basilio, un luogo importante dal punto di vista militare ed economico. A Donori è stata trovata una lastra con scritte delle norme per i commercianti che dalla Trexenta si recava nel porto di Cagliari per vendere le merci. Sono menzionati vegetali e carne, e potevano essere consumati nella città o imbarcati per raggiungere mete lontane, ai tempi dell’imperatore Maurizio, quindi fra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, gli stessi anni in cui arrivano i monaci orientali. Resta ancora da dire che molti luoghi frequentati dai monaci orientali sono riconoscibili dalle pitture perché la simbologia e i soggetti sono caratteristici, pertanto quando gli archeologi sono fortunati e riescono a portare alla luce frammenti di intonaco o elementi che riportano tracce colorate si riesce spesso a ricostruire un pezzo di storia della comunità.

Fonte: Atti del convegno di San Basilio nella rassegna "Viaggi e Letture" a cura di Pierluigi Montalbano

lunedì 27 settembre 2010

I monaci orientali 2° parte


San Basilio e i monaci orientali 2° parte di 3
di Rossana Martorelli

La Sardegna diventa bizantina ma fa parte della provincia d’Africa. Giustiniano ha tre linee di programma:
1)i confini erano estesi e bisognava proteggerli con l’impianto di una serie di fortezze. Una prima linea lungo il confine in Bulgaria, Ungheria, Romania, altre fortezze in Turchia (per difendersi dalla temibile Persia), lungo la Siria e in Africa settentrionale. In Sardegna dapprima si fortificano le città, che all’epoca erano portuali, e in seguito si protessero le vie principali, da Cagliari a Porto Torres e da Cagliari a Olbia passando per l’interno, quindi attraverso la Marmilla, la Trexenta e costeggiando il Gennargentu. La Sardegna era il granaio dal quale provenivano le derrate alimentari per l’esercito e nei prodotti agricoli possiamo inserire anche l’attività vinicola. Nelle zone collinari si praticava l’allevamento e si sentì la necessità di proteggere questa area strategica. Spesso si recuperarono le vecchie ville romane, che vennero assegnate a funzionari militari dell’impero bizantino. Oltre agli ufficiali e alle famiglie, nelle nuove fortezze si sistemò la guarnigione militare e tutti coloro, come coloni e agricoltori, che dovevano contribuire alle vettovaglie. Queste ville quindi avevano una duplice funzione: controllo militare della via e mantenimento delle attività agricole. Se i nemici fossero riusciti a forzare la prima linea difensiva bisognava sbarrare la strada con un’altra linea fortificata. Nasceva così una linea parallela di altre fortezze e postazioni di guardia.
2)Il secondo obiettivo era l’unificazione religiosa. Decise dunque di eliminare l’arianesimo e mettere tutto l’impero bizantino sotto l’autorità della Chiesa di Roma. Solo nel 1054 ci sarà la scissione fra bizantini e ortodossi. Il territorio fu completamente cristianizzato, anche se qualche sacca di paganesimo rimase comunque, soprattutto nei territori interni. In questo periodo si assisteva alla vicenda di Gregorio Magno, uno dei papi più importanti della storia. Nella sua opera di evangelizzazione cercò di raggiungere anche i luoghi più lontani, aiutandosi con messi che arrivarono fino all’Irlanda. In Sardegna si nota una fitta corrispondenza con il vescovo di Cagliari Gianuario, continuamente rimproverato da Gregorio perché non si preoccupava delle campagne. Pare che le sacche di paganesimo fossero numerose e che le zone interne non avessero una guida, facendo riferimento soprattutto ai Barbaricini che, come si legge negli scritti, adoravano pezzi di legno (totem) e pietre (menhir). È in questo periodo in cui si iniziò la costruzione di chiesette in campagna. Apparentemente isolate, fungevano da raccordo per i vicini paesi e per le ville dei militari. A volte all’interno delle ville abbiamo ambienti adibiti a luoghi di culto.
3)L’ultimo aspetto fu quello di scrivere un corpus di leggi, il Corpus iuris civilis, ancora oggi alla base del diritto che studiamo noi, e applicarlo a tutto l’impero.

La Sardegna rientra nei due primi filoni: la militarizzazione delle postazioni con gestione anche economica del territorio, e la cristianizzazione con l’edificazione di diverse chiese campestri. Fra le chiese costruite nel periodo bizantino in Sardegna si ricordano San Saturnino e San Giovanni a Tharros. L’arrivo degli arabi fu un grosso problema per l’impero bizantino. Questo popolo partì dalla penisola araba agli inizi del VI secolo indirizzandosi verso il Mediterraneo, considerato il baricentro economico del mondo antico. Conquistò Gerusalemme, Damasco, altre terre nel medio oriente, puntando su Costantinopoli, ma le imponenti fortificazioni della città erano invalicabili. Si indirizzarono allora verso l’Africa settentrionale, arrivando a conquistare Cartagine nel 697 d.C., capitale della provincia d’Africa della quale faceva parte anche la Sardegna. Sebbene alla fine del VII secolo tutta l’Africa settentrionale sia caduta sotto gli arabi, la Sardegna riuscì a difendersi e a mantenere l’indipendenza, diversamente da Cartagine, che fu distrutta e mai più ricostruita (i suoi resti oggi sono visitabili vicino a Tunisi).
La Sardegna in questo periodo ha come referente Costantinopoli, ma vista la lontananza e il fatto che Mediterraneo era infestato dalle navi arabe, iniziò una fase di incremento economico locale. Per sopravvivere non si poteva più comprare dall’esterno e regioni come la Trexenta divennero importanti perché favorirono la produzione locale di agricoltura, allevamento e ceramica.
Mentre i Vandali e gli Ostrogoti lasciarono praticamente libera la possibilità di scelta religiosa, limitandosi ad esiliare gli infedeli, gli arabi distrussero chiese e conventi e, soprattutto in oriente, chi riuscì a fuggire portò in salvo tesori e immagini sacre. Il tragitto di questi religiosi in fuga passò per l’Africa settentrionale per arrivare nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Sardegna. Fu così che arrivarono quei monaci orientali che prima avevano i monasteri nella penisola anatolica, in Siria e in Palestina. Tuttora in Sicilia sono conservate moltissime testimonianze. Fino all’XI secolo rimane problematico risalire agli avvenimenti e possiamo parlare di periodo buio in Sardegna. Fa parte dell’impero bizantino ma l’organizzazione risente della lontananza di Costantinopoli e inizia una disgregazione. Progressivamente si formano i 4 giudicati di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura. Il giudicato di Cagliari è quello che cade per primo e verrà diviso fra i pisani, mentre nell’ultima fase arrivarono i catalani e gli aragonesi. C’è dunque un passaggio di culture perché si passa dai romani, ai vandali germanici, ai bizantini mediorientali, ai giudicati locali, ai pisani toscani e agli spagnoli.
Quando arrivarono i monaci orientali, il monachesimo era già conosciuto in Sardegna ma era di tipo occidentale. I primi arrivarono con Fulgenzio nel periodo dei vandali, uno dei 200 esuli, che introduce il monachesimo di tipo agostiniano. Il sistema si basa sulla preghiera, sul colloquio diretto con Dio, ma si lascia qualche spazio per il lavoro materiale e si lavora soprattutto nel campo culturale. Ci sono biblioteche e si copiano i codici.
Qualche decennio dopo, Gregorio Magno, con le sue lettere, influenzò molto il monachesimo, lasciando testimonianze di comunità monastiche che venivano fondate da privati cittadini nelle proprie case. Spesso si trattava di volontà testamentarie, ossia chi moriva offriva la propria casa affinché si fondasse una comunità maschile o femminile. Anche l’epoca di Gregorio Magno è attribuibile al monachesimo occidentale, in particolare di tipo cenobitico, dove le persone vivevano in comunità e non in solitudine. Il monachesimo greco è, già in partenza, ascetico. Nacque alla metà del III secolo e si sviluppò sotto Costantino, soprattutto nel deserto dell’Egitto. La spinta fu data dal fatto che Costantino che, quando fu eletto imperatore, introdusse la tolleranza religiosa, favorendo le cosiddette conversioni facili perché il cristianesimo diventò quasi una moda. Alcune persone non gradirono questa svolta perché vedevano cristiani non convinti e i più estremisti lasciarono le grandi città come Alessandria, uno dei poli culturali più importanti dell’antichità, per andare nel deserto. Non avendo di che vivere morivano facilmente e per sopravvivere costruivano delle piccole celle isolate, mentre non c’erano monasteri comunitari. Questo monachesimo ascetico è fatto di meditazione, contemplazione e preghiera, non era previsto il lavoro manuale. In seguito vennero fondate comunità simili a quelle occidentali ma l’aspetto ascetico rimase a lungo tempo.
Fra le testimonianze del monachesimo orientale in Sardegna è un’epigrafe in greco che risale all’età bizantina eseguita su un sarcofago romano più antico. Viene menzionata una “greca monastria”, interpretato come “monasteri greci”, ossia bizantini orientali. Abbiamo anche delle fonti scritte che ci parlano di comunità di monaci orientali a Cagliari, forse temporaneamente.
Un sito importante per il monachesimo orientale è in Egitto, si chiama “Abu Mina” e corrisponde a San Mena, dove attorno al primo monastero si è creata una città, che ha come fulcro una chiesa, il monastero e nelle immediate vicinanze una fonte alla quale i fedeli si recavano per risanarsi in quanto si attribuivano alla sua acqua proprietà mediche. Una delle testimonianze archeologiche è costituita da un’ampollina che raffigura San Mena vestito da militare. Morto in oriente, la leggenda vuole che alcuni soldati che dovevano andare a combattere vicino ad Alessandria portarono sopra un cammello il sarcofago con le reliquie del santo, ma lungo il tragitto l’animale si fermò in un punto ben preciso dove in seguito costruirono la chiesa. Infatti, san Mena è sempre rappresentato mentre prega fra due cammelli. Questa tipologia di ampolline è stata ritrovata anche in Sardegna, probabilmente portate da pellegrini. La circolazione di idee attraverso i viaggi è stata certamente una delle maggiori cause della diffusione del monachesimo orientale anche in Sardegna. Ai monaci orientali viene collegata una serie di luoghi per il tipo di intitolazione; ad esempio Elia era orientale e così viene chiamato il promontorio di Cagliari che da sul mare. In cima c’era un tempio fenicio dedicato ad Astarte ma già nell’Ottocento Giovanni Spano ricordava l’esistenza di un piccolo cenobio abitato da monaci orientali eremiti.
A Siligo c’è Santa Maria di Mesomundu, una chiesetta posta lungo la SS 131, inserita in un complesso termale romano. Di questo luogo abbiamo una notizia importante: quando il giudice di Torres nel 1063 chiese al monastero benedettino di Montecassino l’invio di alcuni monaci per portare in Sardegna la disciplina monastica. I monaci erano già in Sardegna da diversi secoli, ma non quelli benedettini, arrivati più tardi. Il primo luogo che ospitò questi benedettini fu proprio Siligo, che venne tolto ad una comunità orientale. Questa situazione avvenne anche in molti altri luoghi a causa della scissione che avvenne in quel periodo fra la chiesa orientale e quella occidentale. La chiesa di Roma si impegnò proprio nell’eliminare le comunità orientali e concedere le terre ai monaci occidentali, i benedettini. Forse anche la domus de janas di Sant’Andrea Priu, dove nell’ultimo ambiente ci sono una serie di decorazioni di ispirazione orientale, subì la stessa sorte.
Un’iscrizione ritrovata a Cagliari riporta le lettere Monachou ed è riferita certamente ad un monaco greco. Alcune comunità orientali riescono comunque a sopravvivere e ne abbiamo notizia fino al periodo giudicale finale.
San Basilio è un luogo importante per il monachesimo orientale. Importante luogo economico e strategico militare, con fertili terreni coltivabili, fu un importante granaio dell’isola. Costituiva una delle seconde linee di fortificazione dopo quelle costiere. Si è pensato che in questo luogo ci fosse una comunità di monaci orientali soprattutto per via del nome. Quando i monaci arrivarono, difficilmente si stabiliscono nelle aree urbane, mentre preferirono dei luoghi isolati dove dedicarsi prevalentemente alla contemplazione e alla preghiera nel silenzio. Inoltre, una delle attività principali di questi monaci diventerà l’agricoltura e quindi si stabilirono generalmente in campagna.

domani la 3° e ultima parte

Fonte: Atti del convegno di San Basilio nella rassegna "Viaggi e Letture" a cura di Pierluigi Montalbano

domenica 26 settembre 2010

I monaci orientali


San Basilio e i monaci orientali 1° parte di 3
di Rossana Martorelli

L’archeologia cristiana parte convenzionalmente dalla nascita di Cristo e arriva fino a Papa Gregorio Magno, nel VI-VII secolo, un personaggio che ha avuto un ruolo importante anche in Sardegna. L’archeologia medievale si fa iniziare convenzionalmente dall’occupazione dei Vandali, alla metà del V secolo, e si conclude con la scoperta dell’America, alla fine del XV secolo, in quanto la scoperta del nuovo mondo sposta il baricentro economico dal Mediterraneo all’Atlantico.
Betlemme e Gerusalemme sono i centri interessati alla nascita e morte di Cristo e proprio in quest’ultima città si forma la prima comunità cristiana, con discepoli e apostoli che iniziano a viaggiare e a portare le idee ovunque. Emblematici sono Pietro e Paolo, che moriranno a Roma. Paolo compì 4 viaggi missionari che lo portarono a visitare il Mediterraneo orientale e buon parte di quello Occidentale. Secondo una diffusa tradizione, ma assolutamente priva di fondamento, il Cristianesimo sarebbe arrivato in Sardegna proprio con San Paolo che, navigando verso la Spagna, avrebbe toccato il porto di Cagliari introducendo il cristianesimo. Quando inizia la vicenda di Cristo, il Mediterraneo era interamente compreso nell’impero romano. Anche l’Europa era romana, tranne parte delle attuali Germania, Ungheria e Russia, ossia i luoghi da cui partiranno le popolazioni barbariche che porranno fine all’impero romano. Cristo nacque quando era imperatore Augusto e morì sotto l’impero era nelle mani di Tiberio. La Sardegna era una delle province romane e quindi assorbì gran parte delle idee religiose del cristianesimo, andando a sostituire le precedenti divinità pagane. Già all’epoca di Tiberio abbiamo la prima diffusione delle idee cristiane in Sardegna. Fonti antiche segnalano una colonia di ebrei e di seguaci del culto egizio di Iside deportata in massa in Sardegna. Il cristianesimo nasce nell’ambito della comunità ebraica; pertanto è verosimile che proprio tramite questo primo nucleo di ebrei arrivati nell’isola sia stato introdotto nei pensieri delle comunità sarde. Abbiamo testimonianze archeologiche di questa comunità ebraica, come ad esempio una lucerna con la rappresentazione del candelabro ebraico. In Sardegna venivano anche deportati i condannati ai lavori forzati per lavorare nelle cave di granito e nelle miniere, forse a Metalla. Sotto l’imperatore Commodo, infatti, abbiamo fonti che parlano di una grande quantità di cristiani che furono deportati in Sardegna, fra i quali Papa Callisto, poi liberati dalla concubina dell’imperatore, simpatizzante per i cristiani, che convinse le autorità a far ritornare molti di questi cristiani.
Le fonti dicono che Ponziano, papa vissuto alla metà del III secolo, fu deportato “in un’insula nociva presso l’isola di Sardegna”. Ponziano è uno dei due papi che hanno conosciuto il proprio successore (l’altro è Celestino V), poiché quando fu deportato, per non lasciare i cristiani senza una guida, rinunciò al suo mandato e fu sostituito da Fabiano. Quest’ultimo, alla morte di Ponziano, si recò in Sardegna per prenderne le spoglie e trasferirle in una catacomba romana, quella di Callisto. L’epigrafe della lapide funeraria è scritta in greco e recita Pontianos Episcopos.
Al 314 risale la più antica testimonianza certa della presenza di cristiani in Sardegna. L’antica Karales aveva un vescovo di nome Quintasio, capo di una chiesa locale, e di un prete, Ammonius, che partecipò insieme al vescovo, ad un concilio indetto dall’imperatore Costantino ad Arles, in Francia, per discutere una delle tante eresie che si stavano sviluppando in quel periodo. Il cristianesimo si diffonde prima nelle città portuali, quelle che hanno più contatti con l’esterno. In un cubicolo sotterraneo scavato nel cimitero di Bonaria a Cagliari ci sono delle pitture murali, oggi quasi completamente scomparse, che fortunatamente furono copiate da archeologi della fine dell’Ottocento. La prima scena raffigura il mito di Giona, tratto dall’Antico Testamento. Il profeta aveva ricevuto da Dio il compito di andare a convertire all’ebraismo gli abitanti della città di Ninive, ma Giona si rifiutò e si imbarcò clandestinamente su una nave che, una volta in mare aperto, si imbatté in una tempesta. Gli antichi pensavano che le calamità naturali fossero una punizione di Dio e, scoprendo Giona, gli attribuirono le colpe e lo gettarono in mare. Giona venne inghiottito da un mostro marino, rimase tre giorni nella sua pancia ma poi viene rigettato fuori e decise di andare a compiere la missione. Evidenti sono le analogie con Cristo, incaricato di compiere una missione, nel sepolcro per tre giorni e poi risorto.

Nell’altra scena si vede una barca alle prese con una tempesta. Alcuni individui cercano faticosamente di salire su una passerella, ma non tutti riescono nell’impresa. Nella simbologia antica la barca è la Chiesa e riuscire a salire sulla barca significa salvarsi, ma non tutti riescono ad essere dei buoni cristiani, ossia non si comportano secondo i principi cristiani. Probabilmente questa immagine è stata eseguita nel periodo di passaggio fra paganesimo e cristianesimo, quando c’era indecisione.
La Basilica di San Saturnino nasce a Cagliari su una necropoli prima pagana e poi frequentata dai cristiani. Alla città di Cagliari si lega in parte anche la vicenda di S. Efisio. Nella sua prigione (il cd. “Carcere di Sant’Efisio”) c’è una colonna e la tradizione vuole che le catene che legavano il santo fossero proprio incernierate in questa colonna, come a Roma, dove è la colonna alla quale si ritiene fosse legato San Pietro. Altri santi antichi sono San Lussorio, a Fordongianus, dove nella cripta sotto la chiesa attuale sono i resti delle tre sepolture che si pensa fossero di Lussorio, Cesello e Camerino, legati dai documenti agiografici agli antichi cristiani. Nell’epigrafe murata su un fianco della chiesa si legge: “qui si sparse il sangue del beatissimo Lussorio”.
Porto Torres è legata, invece, alla memoria del suo martire San Gavino ma dalle fonti apprendiamo che ne ebbe altri due (Proto e Ianuario).
I martiri sono coloro che pur di non rinunciare alla propria fede hanno sacrificato la vita. Nella cristianità antica si conoscono anche i traditori, i cosiddetti “lapsi”, ossia coloro che per salvare la propria vita all’ultimo momento hanno dichiarato di non essere cristiani. Ci sono anche i “confessori”, persone che hanno salvato la vita per condizioni indipendenti dalla loro volontà, magari perché finiva la persecuzione. Ogni religione ha questi martiri, poi diventati oggetto di culto. e attorno alle tombe di questi personaggi furono costruite delle chiese, monumentalizzate ed eseguite delle pitture. I pagani avevano il loro eroe Ercole, i cristiani i martiri. Oltre i martiri ci sono i santi, ossia coloro che, pur non essendo legati ad un martirio, vivono una vita esemplare e muoiono di malattia o di povertà, non necessariamente uccisi. Anche in questi casi si parte da una semplice tomba, attorno alla quale poi si fa un percorso per agevolare il passaggio dei pellegrini per la preghiera, poi si edifica una chiesa, che funge da polo di attrazione per la comunità e gradualmente si formano villaggi e città.
Le religioni hanno al loro interno una simbologia ben precisa: fra i cristiani sono diffuse le croci e il pesce, simbolo di Gesù perché nel II secolo era stato composto in Asia Minore un poemetto che inneggiava al Cristo, alla resurrezione e ai concetti principali del cristianesimo nascente. Le lettere iniziali di tutti i versi, lette in verticale davano la scritta “ichtys”, termine greco che indica “pesce”. Ancora oggi “ittico” indica tutto ciò che riguarda i pesci e da allora, quando si voleva rappresentare simbolicamente il Cristo, si ricorreva all’immagine del pesce. Siamo in un periodo in cui la religione cristiana è ancora illecita e si sente la necessità di creare una sorta di codice di lettura. Ci sono anche marchi di fabbrica, generalmente in ceramica, per pani eucaristici, utilizzati per la comunione, come ad esempio quello ritrovato in un piccolo centro vicino a Cabras, San Giorgio. Oggi non c’è più ma sono stati ritrovati i resti di una chiesa e di un archivio. In questo oggetto c’è un individuo con l’aureola e la scritta intorno ci dice che è San Giorgio. Allora non esistevano le ostie e la comunione veniva data con dei pezzi di pane, come si fa ancora oggi in Grecia e in quei luoghi dove si svolge la liturgia ortodossa bizantina.
Nel V secolo l’impero romano si disgrega e rimane solo la parte orientale. I Vandali, dal nord Europa, passano attraverso la Francia, la Spagna, lo Stretto di Gibilterra e conquistano l’Africa Settentrionale, forse fino ad Alessandria d’Egitto, formando un regno di cui farà parte anche la Sardegna che, quindi, si stacca dall’impero romano. L’isola rimarrà a lungo una provincia d’Africa.
I Vandali erano ariani, ossia cristiani che però non credevano a tutti i dogmi della Chiesa di Roma, ad esempio nella verginità di Maria e davano a Cristo un aspetto umano. I cattolici riconoscono tre entità consustanziali: Padre, Figlio e Spirito Santo ed è ciò che si recita nel Credo. Gli Ariani vedono il Figlio non all’altezza del Padre e prevaleva la parte umana. Inoltre non credevano nel papa e nei martiri.
Alcune popolazioni erano tolleranti, come i Goti, pur occupando l’Italia, non hanno mai creato problemi ai cattolici; invece i vandali, che non amavano combattere e non erano abili governanti, assunsero l’arianesimo come propria identità nazionale e condussero la loro politica mischiandola con la religione, prendendo una decisione rigorosa: chi non era ariano doveva lasciare il territorio. Fu così che circa 200 vescovi e fedeli africani furono mandati in esilio in Sardegna e poi in Corsica. Questa nuova ondata di religione cristiana che arrivò, e in parte si fermò a Cagliari, occupò anche l’interno dell’isola e diffuse nelle campagne il cristianesimo. Le zone più arretrate, lontane dalla città, ricevettero dunque un impulso da questi vescovi e si convertirono, mentre nelle vicinanze del Gennargentu, i Barbaricini mantennero il loro paganesimo per molto tempo ancora.
Vicino a Santa Caterina di Pittinurri (Oristano) c’è il complesso di Cornus con una chiesa, il battistero, la residenza del vescovo e una chiesa per le cerimonie funebri circondata dal cimitero. L’archeologia, con lo studio dei materiali, consente di datare queste strutture all’epoca dell’arrivo dei vescovi africani.
Giustiniano, imperatore di Costantinopoli, decise di eliminare i vandali e le altre popolazioni barbariche e di riconquistare i territori per ricomporre l’intero impero romano. La Francia e la Spagna rimasero comunque in mano rispettivamente dei merovingi e dei visigoti.

Nei prossimi giorni le ultime due parti.

Fonte: Atti del convegno di San Basilio nella rassegna "Viaggi e Letture" a cura di Pierluigi Montalbano

venerdì 24 settembre 2010

navi e medicina antica


Italia. Il relitto del Pozzino svela i segreti della medicina antica
di Martina Calogero


Al largo della costa toscana, nel 130 avanti Cristo, affondò un’elegante imbarcazione greca con un massiccio albero in legno di noce che trasportava cristalleria siriana, ma soprattutto medicinali. Il ritrovamento del suo carico avvenne venti anni fa ma solo oggi gli archeobotanici hanno svelato la composizione dei farmaci usati in Grecia nell’antichità: infatti, le analisi del Dna hanno rivelato che ogni compressa conteneva dieci estratti di piante diverse, dal sedano all’ibisco.

Nel corso del IV International Symposium on Biomolecular Archaeology di Copenaghen, tenutosi dal 7 all’11 settembre 2010, Alain Touwaide, studioso dello Smithsonian Institution’s National Museum of Natural History di Washington, ha raccontato che nel 1989 è stata individuata nell’imbarcazione una scatola quasi intatta contenete farmaci. Così, è stato possibile studiare i frammenti di Dna contenuti nelle due compresse conservate meglio e mettere in confronto i risultati con le sequenze archiviate nel database GenBank dei National Institutes of Health statunitensi. Il sistema ha identificato nel farmaco tracce di ravanelli, cipolla selvatica, carota, sedano, quercia, achillea, erba medica e cavolo. L’analisi ha anche rilevato estratto di ibisco, forse importato dall’Oriente.

La maggior parte di queste piante sono conosciute per il largo utilizzo che ne facevano gli antichi nella cura di diverse malattie. Per esempio, il medico e farmacologo Pedanio Dioscoride, vissuto a Roma nel primo secolo dopo Cristo, descrive la carota come un toccasana per una serie di problemi di salute, quali il morso dei serpenti e l’infertilità. I dati forniti dallo studio hanno anche alimentato alcuni dubbi: infatti, l’analisi delle antiche compresse ha evidenziato la presenza di semi di girasole, una pianta che sinora si pensava non crescesse in Europa prima della scoperta dell’America. Se verrà confermata questa ipotesi, i botanici saranno costretti a rileggere la tradizionale storia del girasole e della sua diffusione, anche se per adesso è impossibile stabilire che non si tratti solamente di una contaminazione moderna.

Fonte: Archeorivista

Gli Ittiti


Gli Ittiti

Il 2 luglio 1834 l'architetto Textier fu inviato in Anatolia per conto del Ministero della Cultura francese e scoprì, nei pressi del villaggio di Bogazkòy, a 150 km da Ankara, le rovine di un'antica città. Soggiornò nei pressi una decina di anni, compose numerosi disegni e rimase colpito da una serie di rilievi scolpiti nella roccia di un vicino massiccio, lo Yazilikaya (la roccia iscritta) che raffigurano divinità ed uomini armati, donne con vesti fluenti, animali selvaggi ed esseri mostruosi.
I resoconti di Textier vennero pubblicati nel 1835 e fanno il giro del mondo, attirando curiosità ed attirando un gran numero di visitatori. Alle clamorose scoperte di Textier ne seguono altre, altrettanto importanti, sempre nei pressi di Bogazkòy. I rilievi ricordavano le antiche figurazioni mesopotamiche. Che civiltà produsse simili opere d'arte?
La risposta venne dalla decifrazione delle scritture cuneiformi del Vicino Oriente. Nei pressi di Bogazkòy e di Yazilikaya, infatti, erano emersi segni geroglifici incisi che conducevano ad un'antica lingua, affine all'ittita, parlata nella parte meridionale ed occidentale dell'Anatolia a partire dal II millennio a.C. Nel 1874-1875 l'assiriologo Smith rinvenne una serie di rilievi e di simili iscrizioni geroglifiche a Gerablus, sulle rive dell'alto Eufrate, non lontano dall'odierna Turchia e Siria. Il sito venne identificato con l'antica Karkemish, il cui nome appare nelle fonti assire, egizie e bibliche. Alcuni attribuirono i geroglifici agli ittiti e si stabilì che questa potente e sconosciuta popolazione risiedeva nell'area siriana e nell'Anatolia sud-orientale.
Nel 1902 uno studioso norvegese annunciò di aver scoperto una nuova lingua indoeuropea esaminando due tavolette in terracotta con segni cuneiformi, rinvenute quindici anni prima in Egitto, a Tell el-Amarna, capitale di Akhenaton. Queste tavolette facevano parte di una corrispondenza diplomatica dello stesso faraone e di suo padre Amenhotep III. Una delle due tavolette, redatta in una lingua incomprensibile, era indirizzata al re di un paese chiamato Arzawa. Questa lingua era simile alla lingua delle tavolette rinvenute a Bogazkòy.
Nel 1906 l'assiriologo Winckler e l'archeologo turco Makridi iniziarono lo scavo archeologico a Bogazkòy. Vennero immediatamente alla luce numerose tavolette scritte sia nella sconosciuta lingua di Arzawa, sia in accadico. Alcune di esse riportavano la corrispondenza e le bozze degli accordi politici intercorsi tra il re della città ed altri sovrani, tra cui il faraone. A questo punto fu chiaro che Bogazkòy non era stata una città qualunque, ma una grande capitale antica, Hattusa, capitale della terra di Hatti, sede di re che furono tra i più potenti sovrani durante i secoli che vanno dal XIV al XIII a.C. Una delle tavolette rinvenute durante la campagna di scavo del 1906, in particolare, offre la misura del potere raggiunto dalla gente di Hatti. Si tratta di un frammento fittamente iscritto che contiene un documento straordinario: il più antico trattato di pace finora noto, siglato nell'anno 1259 o 1258 a.C. dal re Hattusili III e dal faraone egiziano Ramses II a seguito della battaglia di Kadesh, sull'Oronte. Una copia di questo trattato di pace è ora esposta nell'atrio dell'edificio delle Nazioni Unite a New York. In essa si stabilisce un patto di non aggressione reciproca, l'impegno ad una comune difesa contro terzi, un accordo sull'immunità dei rifugiati. I documenti originali del contratto, iscritto su lastre d'argento e convalidate dal sigillo reale, sono andati perduti ma si sa che queste lastre erano conservate nei santuari delle rispettive capitali.
Gli scavi ad Hattusa, iniziati nel 1906, sono ancora oggi in corso ad opera dell'Istituto Archeologico Germanico. La capitale era circondata da una poderosa cinta muraria di oltre 6 km di lunghezza. Una prima cinta, più breve, racchiudeva una superficie di 75 ettari. Tra il XIV ed il XIII secolo a.C. vennero edificate le nuove mura cittadine su una serie di ripidi massi rocciosi che ampliarono la superficie cittadina a 181 ettari. A sud si ergeva la città alta, al centro, su uno sperone di roccia, la fortezza grande, dove sono emersi anche i resti di un vasto palazzo reale con ambienti residenziali, i magazzini, la sala delle udienze. A nord, nella vallata, si trovava la città bassa con l'area sacra dominata dal tempio monumentale dedicato alle due principali divinità del paese: il dio del Cielo e la dea del Sole. Le mura erano interrotte da tre grandi varchi: la Porta dei Leoni, la Porta delle Sfingi e la Porta dei Re.
Gli archivi del palazzo di Hattusa hanno restituito circa 30.000 tavolette dalle quali si è potuto comporre un quadro preciso sull'organizzazione sociale, politica e religiosa della civiltà ittita.
Il regno degli ittiti sorse nel XVII a.C. in Anatolia centrale.
Nel periodo di massima espansione (XIV-XIII a.C.) comprese gran parte dell'attuale Turchia e della Siria. Politicamente il regno di Hatti era uno stato feudale, composto da "terre interne" e da una serie di stati vassalli o "terre esterne". A capo di questo stato era un re che, al contempo, amministrava la terra, svolgeva funzioni da sommo sacerdote, giudice e capo dell'esercito. La carica regale era trasmessa di padre in figlio. Le decisioni politiche più importanti venivano discusse e deliberate nel bangu, assemblea della nobiltà ittita.
Ogni cittadino versava un contributo in giornate lavorative od in natura per mantenere la corte ed il tempio. Gli ittiti avevano anche degli schiavi, di solito prigionieri di guerra, ai quali spettava una certa protezione legale. L'esercito era composto da fanteria e carri da combattimento su cui viaggiava un auriga, un arciere ed un portatore di scudo.
Il tramonto degli ittiti avvenne attorno al 1200 a.C. a causa di liti dinastiche, una decadenza interna, una serie di terremoti e l’invasione dei popoli del mare. Un incendio devastante rade al suolo l'imponente palazzo di Hattusa. Nello scavo gli archeologi non hanno ritrovato alcuna traccia o resto di arma, di arredo o recipiente che possa testimoniare della vita che si svolgeva, un tempo, all'interno del palazzo.

Nell'immagine la città di hattusa, capitale del regno ittita
Fonte http://blog.libero.it/Chimayra/trackback.php?msg=8252559

giovedì 23 settembre 2010

Studio su una tribù nuragica ultima parte

di Mario Frau

I sardi e gli etruschi erano consanguinei, ovvero buoni cugini, come sostiene Lilliu nel libro intitolato “Gli etruschi e i cugini nuragici”. Anch'essi in Etruria e a Roma, quando erano al potere, condivisero responsabilità politiche ed economiche. Tutti i sardi e gli etruschi che si salvarono dalle guerre del periodo, rientrarono in Sardegna e ripresero a vivere con molta umiltà nelle terre dei loro avi, ma l'avventura non era ancora finita in quanto i romani, dopo aver distrutto e cancellato anche Cartagine, trasformarono in uno dei tanti granai di Roma anche i numerosi villaggi che si trovavano ad Aioddha e in tutte le terre circostanti, in quanto avevano trovato anche in quelle contrade i Lucumoni Sardi, ossia gli stessi nemici che avevano a Roma e in etruria.
I romani avviarono in queste terre una politica di controllo militare delle popolazioni non urbanizzate dell'interno, contro le quali, nei primi secoli della conquista, attivarono vere e proprie operazioni belliche. In una delle tante azioni militari, rasero al suolo il villaggio federale di Santa Vittoria di Serri, e gli altri villaggi che si trovavano numerosi nella zona di Aioddha e Guzzini, e occuparono le miniere e le fonderie di Rapinosa-Gadoni e di Corru e Boi.
Fecero passare in queste contrade la via Ab Ulbia-Caralis per mediterranea, e ubicarono nelle vicinanze dei villaggi distrutti le statio di Biora, Baracci e Valenzia, nella vallata di Serri, Isili, Nurallao e Nuragus, mentre la statio di Domus Novas venne ubicata nel territorio di Ovodda e quella di Sorabile nel territorio di Fonni. Chi alzava le mani e si arrendeva ai romani andò a vivere in una di queste cittadelle, mentre gli altri rientrarono nelle zone interne da dove erano partiti i loro avi, e per sfamarsi mangiavano selvaggina e animali domestici. In questo immenso territorio numerosi animali si trovavano allo stato brado, e il pane era confezionato con argilla finissima, ghiande, castagne e nocciole macinate, per poter meglio digerire il cibo in quanto non potevano più contare sul grano che proveniva da Ayoddha.
Detto questo, non è difficile capire il motivo per cui gli storici romani, in particolar modo Plinio il Vecchio, sostennero che nelle su menzionate terre abitavano gli Iliesi, in quanto anche il nome di questo popolo, così come era avvenuto precedentemente con gli etruschi e con i cartaginesi, era stato annientato e solo oggi riappare dall'analisi filologica e linguistica dei toponimi relativi ai comuni suddetti. Da tutto quanto detto, siamo di fronte a semplici analogie, o alla presenza di un popolo nuragico che visse nelle zone interne della Barbagia, a seguito di flussi migratori?
In conclusione, l'ipotesi della presenza di questo popolo nelle zone interne della Barbagia e nel territorio preso in esame, se per certi versi può essere suggestiva, all'esperto potrebbe risultare assai problematica. Certamente, avere la presunzione di certezze non è nei miei intendimenti, se mai può riguardare altri soggetti, specialisti o accademici. Il mio, è appena il caso di ribadire, vuole fornire un contributo a questo tipo di ricerca dal quale altri possono muovere per uno studio più approfondito. In ogni caso, resto convinto della presenza di questo popolo nuragico nell'area esaminata, per tutte le motivazioni prima indicate, come dimostrano i toponimi, le vestigia archeologiche e le ricerche degli studiosi fra i più illustri. Non v'è dubbio che a tutt'oggi quelle migrazioni continuano: si tratta di disperati delle carrette del mare che non migrano più in Occidente alla ricerca di nuove terre, di rame e di ossidiana, ma sono i disperati che provengono dalle medesime terre, spinti dalla fame, alla ricerca di cibo e libertà.

Studio su una tribù nuragica 2° parte di 3

Studio ricerca di un popolo, tribù o confederazione nuragica che visse nei comuni di Ollolai, Ovodda, Nurallao
Di Mario Frau


Nelle officine di questo villaggio federale veniva poi completata la lavorazione di questo metallo fino ad ottenere il bronzo da cui si ricavavano gli oggetti vari e bronzetti sardi, che poi venivano commercializzati in loco e in tutto il bacino del Mare Mediterraneo. Per migliore conoscenza, rimando ai testi del barone M.Von Oppenhein.
L'origine della gente Halafiana e di Arpatsyach è sconosciuta come pure i motivi per i quali, molto prima dei Fenici, essi decisero di intraprendere le vie del mare. Nel loro peregrinare nel Mare Mediterraneo, dopo le isole già citate e tra alterne vicende, queste popolazioni dovettero presumibilmente giungere sino i Sardegna, come dimostrano le singolari somiglianze con la civiltà di questo popolo, ed in modo particolare con le analogie, anche di carattere geografico, presenti nei territori richiamati. Il commercio del rame e degli oggetti vari, derivati delle pelli e della carne, lo sfruttamento delle miniere di Corru e Boi, nel comune di Fonni, e di Raminosa nel comune di Gadoni, con annesse fonderie di minerali che si trovano nelle vicinanze delle rispettive miniere, fa supporre che questo popolo fosse coadiuvato dai shardana per quanto attiene ai trasporti marittimi, e in un secondo tempo anche dagli etruschi, con i quali fondarono insieme, tra le altre città, anche Tharros, da cui derivano anche i nomi dei fiumi Tirso e Taloro.
Da un punto di vista filologico, ritengo utile prendere in esame il toponimo relativo a Oddhine, località sita nel comune di Cuglieri. Le più antiche cartine geografiche della Sardegna, denominare questa località e il porto omonimo, riportano, tra gli altri, il nome di Portu Olla, in origine chiamato col nome del popolo o capotribù che ha guidato la spedizione fino ad occupare militarmente tutte le località oggetto di questa ricerca. Il fiume che in questa cartine viene chiamato Oglio, in origine fiume Holla, fa supporre che sia i coloni, sia i tecnici e i costruttori delle torri, dei villaggi e delle strade antiche, venissero sbarcati qui dalle navi shardana, o di loro proprietà. Per giungere nelle località appena descritte, queste popolazioni guadavano il fiume Tirso nei periodi in cui le precipitazioni erano più intense all'altezza del territorio di Illorai, ancora oggi chiamato in lingua sarda Iddhorai, cioè col nome oggetto della ricerca. Anche il nome del guado, dove si trovano le acque termali, sono tuttora denominate Oddhini, cioè con lo stesso nome della località di Cuglieri appena citata. Questo popolo, quindi, scoprì e sicuramente utilizzò queste acque per usi terapeutici, costruendovi le saune molto tempo prima dei romani. Stesso discorso vale per un'altra località termale, chiamata anch'essa Oddhini, in territorio di Orani, in prossimità della vecchia strada che da Ottana porta alla cantoniera di Iscras. Da Oddhini, la strada Sardanica, proseguiva attraverso il territorio dove oggi si trovano i comuni di Orani e Sarule, fino a collegarsi col villaggio di Oddhai, toponimo da cui deriva il nome di Ollolai. Il fiume Taloro, nel periodo delle grandi precipitazioni, e in genere durante l'inverno, veniva guadato tra Lodine e Fonni. La strada Sardanica attraversava poi Sorabile, nel comune di Fonni, e Pedras Fittas, nel comune di Ovodda, saliva poi lungo la riva sinistra del Rio Aratu, lambiva il villaggio nuragico di Sos Corros, attraversava passo Tascusi, i villaggi nuragici di Ruinas, nel comune di Desulo e Ligrusta nel comune di Aritzo. La strada scendeva poi lungo la riva destra del Flumendosa, in località Norcui deviava verso la miniera di Raminosa Gadoni e si collegava con Nuraxiadoni, comune di Villanovatulo, col villaggio nuragico di Nieddiu e con la tomba megalitica di Ayoddha nel comune di Nurallao. Durante la transumanza delle greggi, che avveniva regolarmente anche nel periodo nuragico, tra i pastori dei territori dove oggi si trovano i comuni di Ollolai, Ovodda, Tiana e Desulo con quelli di Nurallao e Nuragus, questo popolo scoprì la miniera di Raminosa, costruì la fonderia fa la fusione del rame e dei materiali vari della miniera a Serrailixi nel comune di Nuragus. In quel periodo, tutto questo vastissimo territorio prese il nome del popolo che lo occupò, cioè Ayoddha.
Nel periodo estivo e di bassa precipitazione, il fiume Taloro veniva guadato a Omoddhai, attuale Badu Omollai, toponimo identitario da cui deriva il nome di Ovodda e di altre località dello stesso territorio, tra le quali Loeri, Hiloleri, Holeri e Holaddo. Detto toponimo, il quale indicava anche il nome della vallata, oggi invasata unitamente al guado dalle acque del lago, impropriamente chiamato Cucchinadorza, in quanto sarebbe stato più giusto di nominarlo col nome antico che proviene dal periodo nuragico, cioè Lago Omoddhai. La strada nuragica che si collegava alla su menzionata vallata, e al lago, veniva dalla strada Cuglieri-Illorai attraverso Ottana e Olzai. Dopo Badu Omollai la strada Sardanica, oggi percorribile solo a piedi o con animali, dopo aver superato una località denominata S’Issalamala attraversava il territorio dove oggi si trova il comune di Ovodda, e da qui si collegava con diversi villaggi tra i quali: Sa Corrada, Magusu, Nieddiu, Barioleddu, Maguri, Lo pene, Holeri, Holaddo, Hosseli, Hinonele, Sos Corros, Istedorru, Orohole e altri.
L'altra strada nuragica molto importante era quella di Badu Ammollai (Ameddhai), toponimo di origine sumera, che si trova 3 km a monte del Badu Omollai, che collega il villaggio nuragico di Hoddai (Ollolai), e degli altri di quel territorio, con quelli su elencati nel comune di Ovodda. Dopo Badu Amellai, la strada è percorribile per un breve tratto in macchina, ma il resto soltanto a piedi o con animali. Dopo aver superato una località denominata Gomartile, toponimo anche questo di origine sumera, si collega con tutti gli altri villaggi su menzionati, e con tutte le altre strade nuragiche che collegano Ayoddha e la costa orientale della Sardegna, dopo aver attraversato il villaggio di Ruinas, nel comune di Desulo, e un altro villaggio molto importante, recentemente scoperto ad est del Gennargentu nel comune di Arzana, e denominato Orruinas. Le strade nuragiche del comune di Ovodda si collegavano poi con Torrei e Gdditorgiu, località del comune di Tiana e Ovodda, molto interessanti dal punto di vista archeologico, in quanto nel raggio di circa 7 km si possono contare una decina di villaggi molto antichi e diversi toponimi di origine sumera. Anche questo nome ricorda la presenza dei Tursha, Tirrenici, Tyrsenoi, in quanto come già detto in altra parte della ricerca, probabilmente si trattava di una componente dei shardana, la quale si occupava delle miniere, della progettazione delle strade, delle torri e dei villaggi.
Torrei ricorda la componente di tecnici di quel periodo, i quali adoravano la dea Tinia e in quel territorio, non a caso, si trova il comune di Tiana che ricorda il nome della dea adorata dagli etruschi. Tiana si trova anche in Mesopotamia. Per un certo periodo, molta gente era attratta dalla fertilità di queste terre, ma soprattutto dalla superiorità dei shardana i quali esercitavano anche un servizio di trasporto via mare, la qual cosa per quei tempi era veramente straordinaria ed encomiabile. Successivamente, quando entrò in crisi l'economia basata sui commerci di generi alimentari e dei minerali vari, con l'impoverimento progressivo anche della flotta navale shardana, la maggior parte degli abitanti della Sardegna ed in modo particolare nelle zone interne, emigrò in massa in Toscana. Gli etruschi erano diventati molto ricchi anche attraverso lo sfruttamento delle risorse minerarie della Sardegna e dell'isola d'Elba. In Etruria si ritiene siano arrivati anche i loro congiunti dalle terre d'origine e dalla Lidia, in quanto furono i primi, tra gli abitatori dell'Italia, ad avere una flotta navale.
Essi, nell'arco di pochi secoli, sommersero la popolazione indigena e la sottomisero con le loro armi più progredite e la loro tecnica più sviluppata. La loro civiltà era superiore a quella degli indigeni, come dimostrano i crani trovati nelle tombe, che mostrano opere di protesi dentarie abbastanza raffinate. Le città costruite nell'interno dai sardo-etruschi: Tarquinia, Arezzo, Perugia, Veyo, Populonia e altre, erano molto più moderne di villaggi e delle torri che pure avevano contribuito a costruire in Sardegna i loro avi. Queste città avevano i bastioni per difendersi, mentre i nuraghe avevano il corridoio, le strade, le fogne, la rete idrica e le saune, e adottavano un vero e proprio piano di fabbricazione. In un villaggio nuragico che si trova vicino a Corru e Boi denominato Gremanu, c'è un tentativo di costruzione della rete idrica; queste popolazioni, quindi, sfruttarono le acque termali e molto probabilmente costruirono anche le saune. Politicamente le città etrusche imitavano le città Stato dei shardana, ma non riuscirono mai ad unirsi come fece a Roma con le rivali Latine e Sabine. I piccoli stati etruschi invece di unirsi contro il comune nemico si lasciarono abbattere uno per uno. I romani, una volta che ebbero sopraffatto gli etruschi, dopo essere andati a scuola da loro e averne subito la superiorità in campo tecnico e organizzativo, non solo li distrussero ma cercarono di cancellare ogni traccia della loro civiltà, così come fecero in seguito con Cartagine e con le suddette popolazioni nuragiche. I romani mandavano alle scuole di Tarquinia i loro ragazzi per essere formati specialmente in medicina e ingegneria, ma poi li odiarono e fecero loro guerra. Ci rimisero eserciti su eserciti, ma poi i romani penetrarono nelle loro case e riservarono ai sardo-etruschi un trattamento particolarmente severo, quando, dopo aver subito da loro molte umiliazioni, si sentirono abbastanza forti da poterli sfidare. Raramente si è visto nella storia un popolo scomparire e un altro cancellarne le tracce con così ostinata ferocia. È questo un motivo importante per cui di tutta la civiltà etrusca è rimasto poco.

...domani la 3° e ultima parte.

mercoledì 22 settembre 2010

Studio su una tribù nuragica 1° parte di 3


Studio ricerca di un popolo, tribù o confederazione nuragica che visse nei comuni di Ollolai, Ovodda, Nurallao
di Mario Frau


In primo luogo mi preme sottolineare che questa ricerca non vuole avere alcuna pretesa specialistica, ma ha il solo scopo di fornire un modesto contributo su temi tanto complessi su cui, peraltro, non c'è accordo neppure tra gli specialisti veri e propri. Essa è nata, principalmente, da due esigenze: da una parte, da uno studio bibliografico e, dall'altra, da una conoscenza diretta dei termini e toponimi ancora in uso nel mio ambiente di origine e, in generale, nelle zone della Barbagia interna. Ed è nell'ambito di questo percorso che orientò le mie argomentazioni.
Analizzando da un punto di vista storico, linguistico e filologico di toponimi dei comuni di Ovodda, Ollolai, Nurallao, ossia Omoddhai, Oddhai e Ayodda, si evince che essi, oltre che avere la radice in comune, avevano anche storia, usi e costumi similari, derivanti cioè dal nome dello stesso popolo, tribù o confederazione.questo popolo è di origine Mesopotamica, aveva il bucranio e l'ascia bipenne come bandiera e adorava il dio toro, che aveva come sposa la Mater Mediterranea. In questa ricerca mi propongo di evidenziare la storia di questo popolo, che si stabilì inizialmente nei territori dei comuni citati ed in altri centri del secondo millennio a.C.
Esso si stabilì inizialmente nei territori dove oggi si trova nei comuni di Ovodda, Tiana e Desulo, compreso tra i fiumi Taloro, Tino, Aratu e Flumendosa, i quali si chiamavano Daloro, Dini e Dosa. Soltanto il nome del Rio Aratu è rimasto immutato e molto probabilmente si tratta del nome della dea Arata, adorata e venerata dai Sumeri. Queste popolazioni occuparono anche l'intero territorio del comune di Ollolai, sia la riva destra del fiume tra loro sia le zone a monte del medesimo fiume fino alle propaggini del Gennargentu, dove il fiume nasce in territorio di Fonni. C'è da considerare che nei periodi in cui il fiume Taloro diminuiva la portata dell'acqua, esso poteva essere facilmente attraversato nei riguardi di Omoddhai e Ameddhai, e questo permetteva loro di raggiungere gli altri vastissimi territori di loro dominio, anche a sud di Passo Tascusi, e si estendeva per un centinaio di chilometri, compreso il territorio del comune di Nurallao sino a quello di Gallilensi, nome di un altro popolo nuragico con il quale confinavano in Sarcidano. Il medesimo fiume, a monte, poteva essere facilmente attraversato anche nei periodi di maggiore intensità di precipitazioni. Questo popolo proveniente dalla Mesopotamia giunse in Sardegna presumibilmente tra il 1800 e il 1500 a.C. solo oggi avvalendoci dei numerosi toponimi e delle vestigia archeologiche rimaste, è possibile tentare di ricostruire la storia, sia pure con molta approssimazione. La ricerca si avvale anche degli studi sulla Sardegna degli autori del mondo classico. I territori oggetto della ricerca comprendono migliaia di ettari in cui visse questo popolo nuragico per oltre due millenni. Trattandosi di una civiltà sepolta, la sua storia non può basarsi su un solido fondamento, nonostante ciò, il mio intendimento è quello di provare che questa popolazione e una delle più antiche della Sardegna di cui si conosca il nome, anche se ricavato dai toponimi e dalle vestigia archeologiche e che uno studio serio potrebbe portare a nuovi e diversi contributi sulle zone interne della Sardegna nuragica. In quest'ottica un grande contributo offrono la ricerca archeologica, i numerosi toponimi e i villaggi nuragici e le antiche strade di collegamento che si trovano in questo territorio molto vasto che probabilmente si estendeva fino al Parteolla, che in origine si chiamava col nome del popolo che lo ha dominato. Al fine di dare consistenza alla ricerca filologica, che si basa sull'identificazione delle origini di questo popolo, faccio alcune riflessioni di carattere storico e geografico.
Il professor Giovanni Lilliu, sia nei testi che nelle sue lezioni da cattedratico, sostiene che le civiltà che poi hanno dato origine a quella nuragica provengono dalla Mesopotamia, dal nord e dal sud dell'Anatolia. Lo stesso Raimondo Carta Raspi condivide quest'opinione, sostenendo che la patria di origine della civiltà, in seguito sviluppatasi in Sardegna è l'Asia minore. Lo stesso concetto esprime l'emerito studioso della lingua sarda M.L.Wagner che riferisce la stessa opinione nel secondo volume del D.E.sardo. Nel fare le mie tesi di questi emeriti studiosi, ritengo utile fare alcune considerazioni di tipo linguistico e soprattutto archeologico. La zona archeologica prese in esame è riportabile alla civiltà nuragica, che si sviluppò anche nei suddetti territori, è quella scoperta e studiata dal barone M.Von Oppenheim negli scavi da lui effettuati nel 1911-1913 e nel 1927-1929 nelle collinette presso Tell-Alaf, regione bagnata dal fiume Abur nella regione denominata Gozan (Gusana).questa località si trova in Mesopotamia e confini tra la Siria e la Turchia, a sud dell'Anatolia. L'altra zona archeologica cui è interessata alla ricerca e ci riguarda forse da più vicino in quanto rappresenta meglio alla civiltà di Tell-Alaf è quella di Arpatsyach, località a nord est di Mossul ai confini tra la Turchia e l'Iraq.detti insediamenti archeologici sono databili al quinto millennio a.C. e le caratteristiche della civiltà rinvenuta sono le seguenti: oggetti in rame, doppia ascia, dee madri, bucrani e ceramiche varie. Gli stessi oggetti, più o meno comparabili e i nuraghi a corridoio sono stati rinvenuti un po' ovunque, anche nei territori oggetto della ricerca.bronzetti vari e oggetti di rame sono stati rinvenuti nel fiume Aratu durante i lavori per la realizzazione della strada provinciale che collega dello con Fonni, nel punto in cui è stato realizzato il ponte, in quanto nelle adiacenze si trova un interessantissimo villaggio, in territorio di Desulo, e ai confini con quello di Ovodda denominato "Sos Corros" ed anche questo toponimo è riferito al dio toro divinità sumera.
Trattasi del nome antico della località, e dell'omonimo villaggio nuragico, dove durante gli scavi relativi a costruzione del ponte sul Rio Aratu è stata rinvenuta una statuetta in bronzo, alta 21 cm, riproducente un guerriero con la lancia tra le mani, lo scudo rotondo e l'elmo con le corna. Detta località gli ovoddesi e i desulesi la chiamano anche "Su Samuhu" ma il suo vero nome antico e quello suddetto, forse anche per testimoniare il ritrovamento di questo tipo di oggetti avvenuto molto tempo prima della costruzione del ponte. Lo schema dell'edificio di Tell-Alaf e Arpatsyach corrisponde al tipo di nuraghe o torre che si trova nel territorio in cui visse questo popolo ed è caratterizzato dalle costruzioni a tholos e a cupola, accentranti su basi circolari e a forma di campana, precedute da corridori.
In tutto l'Egeo si diffonde la cultura della doppia ascia, e questo oggetto e il bucranio tanto caro ai shardana e ai popoli del mare, è stato ritrovato nel villaggio federale di Santa Vittoria in territorio di Serri e nel nuraghe Arrubiu di Orroli. In questa località, questo popolo aveva sicuramente esercitato molta influenza in quanto forniva il rame estratto nella miniera di Raminosa, nel comune di Gadoni ad altre popolazioni. La fusione del rame avveniva a Serra Ilixi, vicino ad Haiodda, nel comune di Nuragus.

Il disegno nell'immagine è dell'autore.

...domani la 2° parte

martedì 21 settembre 2010

Missione archeologica Italiana


IV campagna archeologica italiana a Tell al-Mashhad
di Francesco M. Benedettucci


Rapporto preliminare sulla quarta campagna della Missione archeologica Italiana a Tell al-Mashhad (Giordania)
Tra i mesi di luglio e agosto del 2010, si è svolta a Tell al-Mashhad, nel Regno Hascemita di Giordania, la quarta campagna di indagini e prospezioni archeologiche, organizzata dall’Associazione OLIM di Roma, grazie ad un generoso finanziamento privato. La missione ha goduto inoltre del fattivo supporto del locale Dipartimento delle Antichità. Hanno preso parte alla campagna 2010 gli archeologi Simona Bracci, Angelo Ghiroldi, Nicolò Pini, Dario Scarpati, Giacomo Tabita e il sottoscritto (responsabile delle attività sul campo).
Tell al-Mashhad, noto anche come Khirbet ‘Ayun Musa, è un importante sito dell’epoca del Ferro, collocato in una posizione strategica, a guardia di una sorgente perenne, che la tradizione locale identifica con quella fatta sgorgare da Mosè durante le quarantennali peregrinazioni che portarono il popolo ebraico verso la Terra Promessa. Il legame della regione con le tradizioni bibliche, in particolare con la figura di Mosè, è ulteriormente sottolineato dal fatto che il sito oggetto dello scavo si trova proprio nella valle sottostante il monte Nebo, dove il profeta morì dopo aver potuto finalmente vedere da lontano la Palestina.
La presenza umana nella zona circostante Tell al-Mashhad inizia già nell’epoca paleolitica, come attestato da alcuni manufatti rinvenuti a poche decine di metri dall’insediamento. Pur avendo forse goduto di una possibile occupazione anche in epoche precedenti, la fase principale dell’insediamento umano si ha tra la fine dell’VIII e l’inizio del VI secolo a.C., quando l’area di Madaba, il principale centro regionale, si trova contesa tra i due regni tribali di Moab e Ammon, vassalli del grande impero assiro.
Il sito di Tell al-Mashhad è caratterizzato soprattutto dalla presenza di un grande edificio quadrangolare che domina il villaggio, disposto lungo il pendio di una ripida collina; esso è stato individuato nel 1932 da N. Glueck, padre dell’archeologia della Transgiordania, che ne aveva fornito una descrizione abbastanza dettagliata, unitamente ad una prima, sommaria pianta, nei resoconti dei suoi viaggi a cavallo nella terra a est del Giordano. Ulteriori visite al sito furono compiute negli anni ’50 dal tedesco H. Henke, che, come Glueck, vi raccolse anche frammenti di alcune figurine umane fittili; negli anni ’80, una nuova visita fu realizzata dalla missione americana operante nella non lontana Hesban, nell’ambito del survey regionale, e, infine, nel 1995, dalla missione danese, del Mount Nebo Survey, cui prese parte anche lo scrivente, sotto la direzione di P. Mortensen.
Le attività di scavo vero e proprio furono avviate nel 1999, grazie anche a finanziamenti del Ministero per gli Affari Esteri, da un team della Fondazione “Ing. C.M. Lerici” (Politecnico di Milano) di Roma, con il supporto logistico del Franciscan Archaeological Institute, allora guidato dal compianto p. Michele Piccirillo: esse si concentrarono soprattutto nel settore meridionale del tell (che aveva da poco subito dei gravi danni a causa dell’ampliamento e dell’asfaltatura di una stradina che già all’epoca di Glueck divideva il sito archeologico in due parti), con l’individuazione di alcuni ambienti domestici, ed il rinvenimento di preziose testimonianze sulla vita quotidiana dell’epoca del Ferro, tra cui una gran quantità di cereali e legumi carbonizzati. Nel corso della seconda campagna, svoltasi nel 2000, l’area di scavo fu ampliata e vennero realizzate delle indagini geofisiche che portarono alla possibile individuazione di strutture sepolte in diversi punti del tell.
La campagna del 2002-2003 fu invece principalmente dedicata alla realizzazione di una prima, dettagliata pianta delle pietre affioranti relative al grande edificio che domina l’insediamento, edificio che è stato proprio l’oggetto della campagna 2010, che ha messo fine a un lungo periodo di inattività della missione a causa della scarsità di finanziamenti. Purtroppo, proprio nei giorni precedenti l’inizio delle attività di scavo, si è verificata un’intensa attività da parte di scavatori clandestini che hanno realizzato una grande e pericolosa fossa, profonda fino a 6 metri, proprio nel centro dell’edificio.


Lo scavo italiano si è allora concentrato proprio sulla messa in sicurezza del settore interessato dall’attività clandestina, ma, soprattutto, si è spostata sulle mura perimetrali della struttura, che sono state portate alla luce nella quasi totale interezza in tre lati su quattro della grande costruzione, a pianta quadrata, di circa 22 metri di lato. Si è quindi potuto osservare, non senza sorpresa, che le mura, realizzate con grandi pietre rozzamente squadrate, erano molto ben conservate raggiungendo, in alcuni punti del lato settentrionale, quasi i tre metri di altezza. I prioritari lavori di messa in sicurezza della parte interna dell’edificio non hanno consentito di accertare l’effettivo spessore delle mura stesse, che, tuttavia, non sembra essere inferiore al metro e mezzo.
La tipologia architettonica cui può essere ricondotta la struttura è quella dei cosiddetti Quadratbau, molto utilizzata in Palestina sin dall’epoca del Bronzo Tardo, per i più diversi scopi, dai templi (come nel caso dell’edificio sacro individuato alla fine degli anni ’50 nell’area del vecchio aeroporto di Amman), agli usi agricoli (come nel caso della struttura individuata a Mabrak) fino a quelli militari (come a Rujm al-Mukhayyat, molto vicina a Tell al-Mashhad).
Il materiale rinvenuto è essenzialmente ceramico; tra le tipologie identificate, si riconoscono diversi tipi di coppe, tra cui alcune carenate, ma anche forme chiuse, come pentole, crateri e giare, in particolare le cosiddette “Ridged Neck Jars” (giare dal collo crestato), tipiche dell’epoca del Ferro.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non appare possibile indicare con certezza il nome antico del sito, per il quale è stato in più occasioni proposto quello di Bet-Peor, che ricorre (talvolta con la variante Baal-Peor) in diversi passi dell’Antico Testamento.
La prossima campagna, prevista per l’estate 2011, avrà tra i principali obiettivi la completa liberazione del perimetro dell’edificio, per poterne identificare la porta di accesso, la realizzazione di alcuni sondaggi in profondità all’interno dello stesso per poterne verificare la storia occupazionale e la ricerca di elementi che portino all’identificazione del nome antico dell’insediamento.

Fonte: Archeorivista
Approfondimenti
http://digilander.libero.it/tellalmashhad