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mercoledì 7 luglio 2010

Phoenike - Fenici in Sicilia - Mozia


Fenici: la Sicilia e Mozia
L’isola è importante per tutta l’area centro mediterranea, sia dal punto di vista politico che da quello culturale. A differenza della Sardegna c’è la presenza dell’elemento greco. Vi è anche una componente indigena dell’interno, a sua volta distinta in tre gruppi etnici che continuano a svilupparsi dopo l’arrivo dei coloni greci e fenici, avvenuto nell’VIII a.C.: gli Elimi ad ovest, i Sicani al centro e i Siculi ad est.
Secondo Tucidide i primi a giungere furono i fenici di Tiro che con l’arrivo dei greci si ritirarono nella costa occidentale alleandosi con gli elimi e dando vita alle tre città principali: Mozia-Lilibeo, Palermo e Solunto. L’incontro fra le genti fu importante sia per la crescita delle rispettive culture, sia per l’aspetto militare. Ogni popolo possiede proprie convinzioni religiose e divinità e l’influenza fu forte. Le città si svilupparono in maniera diversa rispetto alla situazione africana e sarda. Abbiamo poche città, tutte sulle coste, ed un entroterra controllato dagli Elimi che comunque mantennero buoni rapporti con i fenici fino al 241 a.C., quando la Sicilia passò sotto il controllo romano.
Oltre le città principali, altri centri di cultura mediterranea sono Selinunte, colonia greca che ha subito 150 anni di controllo cartaginese, Erice, centro indigeno, Monte Adranone e Pizzo Cannìta dove sono stati ritrovati due sarcofagi antropoidi, influenzati dal mondo greco. Dal V a.C. le città ebbero un rapporto conflittuale con le città rivali greche, soprattutto Siracusa.
Mozia
É la città che ha restituito le tracce più antiche. Si trova sull’isolotto di San Pantaleo, localizzato nello stagno di Marsala, ed è separata dalla costa da uno specchio d’acqua molto basso, circa 1.5 m, che consentiva una buona difesa da eventuali attacchi navali esterni, offrendo allo stesso tempo ai residenti la possibilità di rifornirsi velocemente di ciò che serviva per la vita quotidiana. Quindi un’isola protetta dai bassi fondali e vicinissima alla costa. Fu scavata agli inizi del Novecento ma è ancora indagata e ospita i vigneti dai quali si produce il Marsala, il famoso vino liquoroso siciliano. Il sistema fortificato circondava l’intera isola ed era stato impiantato intorno al 550 a.C. e visto che i rapporti fra levantini e indigeni sono sempre pacifici, non troviamo strutture fortificate antecedenti questo periodo. Chi riusciva a raggiungere l’isola, con difficoltà visti i bassi fondali, era controllato ed eventualmente attaccato dall’interno delle fortificazioni. Ci sono quattro porte nei quattro punti cardinali, ma quella a est non è stata ancora individuata. Il centro venne distrutto nel 397 a.C. da Dionigi di Siracusa e gli abitanti si spostarono nella costa fondando la città di Lilibeo. Le fortificazioni vivono 4 fasi costruttive e sono state scavate soprattutto a nord dell’isola.
La fase più antica presenta un muro semplice con uno zoccolo in pietrame non squadrato, cementato con malta di fango, e alzato in mattoni crudi. A distanza regolare, ogni 20 m, ci sono delle torri di guardia aggettanti rettangolari alte 12 m che comprendono 2 ambienti. Gli scavi della Ciasca, negli anni Settanta, hanno documentato i mattoni crudi protetti da un altro paramento murario. Nella seconda fase, sempre nel VI a.C. viene costruito un altro muro, addossato al precedente, che diminuisce l’aggetto delle torri. La terza fase, nel V a.C., vede paradossalmente una tecnica costruttiva militare greca, il nemico principale dei cartaginesi. I greci avevano armi d’assedio comprendenti arieti e minatori, pertanto l’aspetto militare fu quello percepito prima dai residenti: dovevano difendersi e impararono velocemente le tecniche del nemico. Costruivano con blocchi isodomi messi in opera a secco con disposizione di testa e di taglio per raddoppiare la consistenza e la resistenza allo sfondamento. Le mura inglobano la prima fase, mentre la fase centrale viene riempita. L’ultima fase, sempre nel V a.C., integra brevi tratti di fortificazioni con scheggioni messi in opera con malta di fango e ci sono grandi torri quadrangolari per rinforzare alcuni punti delle mura.
La porta sud è in corrispondenza del bacino del Cothon e all’esterno dell’area furono ritrovati dei merli crollati. Questi elementi lapidei di forma centinata, che misurano circa un metro, hanno fatto ipotizzare il coronamento della struttura. Elementi di questo tipo sono rari e i ritrovamenti si limitano a 4 siti: Mozia, Tharros, Lilibeo e in Gallia.
L’abitato è stato scavato solo in piccola parte e non ne conosciamo l’estensione. Dopo la distruzione, avvenuta nel 397 a.C. ad opera di Dionigi, Mozia ha continuato a vivere perché i suoi abitanti, che si trasferirono sulla terraferma costruendo una rocca inespugnabile, continuarono a frequentare l’isola. Greci e romani non riuscirono mai a conquistarla e solo alla fine della II guerra punica, con la resa di Cartagine, la città passò sotto il controllo romano. Inizialmente la sistemazione dell’abitato, ipotizzata dall’archeologo inglese Taylor, era ortogonale e poi si sarebbe raccordata con l’andamento delle fortificazioni dell’isola che seguivano la forma della costa, quindi un passaggio da ortogonale a radiale. Tuttavia recenti scavi hanno dimostrato che l’impianto originale era molto frastagliato e non certo ortogonale.
La porta nord è stata scavata da Withaker agli inizi del Novecento. La struttura è costituita da un lungo corridoio suddiviso in due parti e sbarrato da tre porte consecutive che costituivano una difesa dall’esterno. Gli inglesi hanno scavato la porta nord trovando due saccelli, di cui rimangono solo le fondazioni. Quello a destra, rettangolare di 5 x 7 m, aveva addossato ad uno dei muri 4 anfore infisse nel terreno legate ad una offerta o ad un culto indigeno. Fu identificata anche una grande quantità di ciotole e scodelle. L’altro saccello attualmente è di forma quadrata ma in antico era rettangolare, più piccolo. Gli scavi nell’area hanno riportato alla luce alcuni frammenti di capitelli: uno dorico e alcuni angolari fogliati. Si è ipotizzato che la struttura della prima fase avesse un aspetto greco, mentre nella seconda fase, nel V a.C., fosse stata sistemata con elementi di tipo orientale. Forse gli stessi moziesi, in occasione dell’attacco di Dionigi di Siracusa, hanno raso al suolo la struttura per evitare che fosse utilizzata dal nemico. Non conosciamo la funzione dei saccelli ma considerato che sono fuori dalle porte, in una zona di contatto con l’esterno attraverso una strada che porta verso la costa, si è pensato ad un punto in cui c’era l’incontro fra gli abitanti dell’isola e quelli della terraferma, forse una guardiola per riscuotere i dazi doganali.

La parte centrale dell’abitato fu scavata da Tusa e mostra strutture arcaiche molto semplici. In una di queste, forse un magazzino, furono trovate una serie di file di anfore da trasporto vuote, (casa delle anfore). La vecchia casa padronale di Withaker è stata musealizzata e al suo interno si trovano molti materiali scavati nelle stratigrafie. In occasione del rifacimento del pavimento del capannone costruito per la produzione del vino sono state individuate tracce della frequentazione moziese. Gli ambienti e i materiali sono visibili attraverso passerelle che hanno salvaguardato l’impianto originale.
L’edificio abitativo più importante è la casa dei mosaici, scavata da più studiosi. Si trova a sud del villaggio, vicina alle fortificazioni. È costituita da un nucleo di rappresentanza, a nord, e una serie di strutture relative alla vita e allo stoccaggio delle derrate alimentari, a sud. La casa è su due livelli a causa del declivio verso il mare. Nella parte alta, quella di rappresentanza, c’è una corte, (un peristilio), con un pavimento decorato con ciottoli di fiume neri, bianchi e grigi che formano dei mosaici raffiguranti la lotta di un leone con un toro e un grifone alato che attacca un cervo. Il mosaico è un unicum nel mondo punico e gli studiosi hanno problemi di datazione: Acquaro parla del VI a.C., Tusa lo data al momento della distruzione della città, agli inizi del IV a.C. In questo caso si accetta l’influenza dei mosaici macedoni ed ellenistici come quelli documentati a Pella nello stesso periodo. C’è da considerare che sono stati scavati materiali del V a.C. al di sotto del piano di calpestio, pertanto la datazione più probabile è quella del Tusa.
La necropoli arcaica dell’VIII a.C. si trova nella parte settentrionale dell’isola. Attualmente è a ridosso delle fortificazioni ma in origine non era così perché l’impianto è precedente alla costruzione delle fortificazioni, infatti l’archeologa Ciasca ha trovato delle tombe sotto le torri. I primi scavi sono di Withaker ma negli anni Sessanta Tusa ha scavato alcune sepolture individuando 162 tombe, quasi esclusivamente ad incinerazione con deposizione secondaria. Sopra lo strato di roccia vi era mezzo metro di terra, asportato durante lo scavo, nel quale erano scavate le fosse per porre la cista litica costituita da lastre in pietra poste verticalmente, oltre quella sul fondo. All’interno della cista ci sono l’urna e i materiali di corredo. Negli scavi è stato riportato alla luce un vaso antropomorfo e altro materiale con elementi greci che consentono una datazione puntuale (intorno a sequenze di 25 anni), al contrario di ciò che avviene per i materiali mediterranei, molto più conservativi nello stile. La necropoli arcaica finisce nel VII a.C. ma Mozia continua a vivere fino al 397 a.C.
La necropoli più recente si pensava fosse sulla terraferma (per risparmiare spazio utilizzabile), infatti gli scavi hanno mostrato una strada, sommersa da mezzo metro d’acqua, larga fra i 7 e i 12 m e lunga 1500 m che partendo dalla porta nord conduce a Birgi, sulla terraferma, dove furono individuate delle tombe puniche. Recentemente gli scavi nella zona hanno individuato anche delle tombe cosiddette fenicie con una percentuale inversa di defunti: a Mozia 1 su 3 è greca, a Birgi 1 su 3 è fenicia, quindi si è ipotizzato che Birgi sia la necropoli di un centro ancora da identificare ubicato sulla costa. Sulla base di alcuni ritrovamenti recenti si è ipotizzato che la necropoli punica di Mozia si trovi diffusa sulla spiaggia, all’esterno delle fortificazioni, in una serie di tombe ad inumazione (a cassone e a sarcofago) vicino alla porta nord. A ridosso delle fortificazioni sono state individuate dalla Ciasca anche delle tombe ellenistiche ad incinerazione. Sappiamo che questo rito risente dell’influenza greca perché il fenomeno si riafferma nel IV e nel III a.C., e nelle tombe molti materiali sono greci. In base a questa interpretazione si è escluso che la strada che collega l’isola a Birgi servisse ai moziesi per raggiungere i defunti.
Il santuario di Mozia si trova a Cappidazzu (cappellaccio, forse nome dello spaventapasseri per i vigneti) e ha una lunga vita, fino al periodo bizantino. La parte arcaica è costituita da tracce di fondamenta e fosse profonde circa 30 cm con resti di sacrifici animali bovini e ovini. La seconda fase (VII a.C.) vede la costruzione di muretti e la presenza di un pozzetto. Durante la fase punica venne impiantato un edificio monumentale che aveva in opera delle gole egizie. Il monumento venne smontato in età ellenistica per costruire un edificio a tre navate.
La parte settentrionale della città è importante per la fiorente attività artigianale, soprattutto per la produzione di manufatti in ceramica. Nell’area addossata alle fortificazioni ci sono forni ceramici ben conservati e vasche per la preparazione e la tintura di pelli e tessuti. I forni sono di fase punica: sono di forma circolare, non ad omega, ma persiste ancora il muretto che non è stato sostituito dal pilastro centrale. La suola in argilla che ingloba i mattoni piano-convessi è ben visibile, così come il vano di combustione e il vano di attizzaggio.
Un’altra area artigianale è denominata “zona K”. Ha restituito sia una fase arcaica di lavorazione, con un pozzo per l’acqua e un forno ad omega, sia una fase punica con un grande forno circolare e un muretto con alzato in mattoni crudi che si è conservato perché inglobato nelle fortificazioni.

Nella zona K è stato rinvenuto “il giovane di Mozia”, una statua greca in marmo del V a.C. che rappresenta forse una divinità o un’auriga o un sacerdote. Nella testa, nel petto e nella schiena ci sono dei fori per attacchi metallici. Forse si tratta di una statua di committenza punica realizzata da artigiani greci che fu sepolta dai moziesi per preservarla dall’attacco di Dionigi di Siracusa. Oggi è esposta nel museo di Mozia.
Presso la porta sud si trova il Cothon, un bacino rettangolare del VI a.C., scavato nella roccia profondo 2.5 m, con un passaggio che da direttamente sul mare. Il vascone, che misura 30 metri di lunghezza, è stato completamente svuotato e scavato dagli archeologi inglesi e presenta un fondo naturale con le pareti rivestite di blocchi sovrapposti a secco. Non si riesce ancora ad interpretarlo: non è un porto, (troppo piccolo), forse era un allevamento di pesci, oppure un bacino per le operazioni di carico e scarico delle merci, o un bacino di carenaggio. Qualche studioso ha pensato a un luogo di culto, perché nelle vicinanze sono stati trovati elementi di un edificio interpretato come tempio. Il passaggio dal mare al bacino è consentito da un canale provvisto di una scalanatura che fa pensare ad uno spazio ricavato per consentire il passaggio della chiglia.
Il tophet è stato individuato da Whitaker e scavato dalla Ciasca ed è l’unico ad essere stato indagato completamente. Si trova ad ovest della porta nord e sono evidenti due fasi di utilizzo: A e B. Al momento della costruzione delle mura il tophet, che era preesistente, venne inglobato all’interno con una deviazione. Generalmente il tophet non viene mai trasferito, si deviano le mura ma non si spostano le sepolture. La fase A viene datata alla fine dell’VIII a.C. e mostra un’area trapezoidale, circondata da un temenos, che presentava un vasto campo d’urne centrale, un edificio allungato, un pozzo e un edificio quadrato che poi venne smontato ed obliterato, non sappiamo se fosse interamente chiuso. Alla fase arcaica si riferiscono i primi 3 dei 7 strati in cui si suddivide l’utilizzo. Lo strato settimo, quello più antico risalente alla fine dell’VIII a.C. è composto da incinerazioni con deposizione direttamente sullo strato roccioso naturale e le urne, come a Cartagine, sono avvolte con pietre senza nessuna stele. Lo strato sesto risale al VII a.C., è stata fatta una gettata di terra sul vecchio strato e si nota l’aumento delle urne ma ancora niente stele. Lo strato V si data alla prima metà del VI a.C. e troviamo la comparsa delle prime stele, alcune ad edicola. Successivamente l’area viene ampliata, con la costruzione di un edificio sacro (contenente un bancone) che viene separato dal tophet, e vengono edificate le fortificazioni. Gli scavi hanno portato alla luce un capitello dorico e si è ipotizzato che il saccello potesse essere stato realizzato con una architettura mista: struttura greca con capitelli dorici e copertura piana a lastre. Nel 397 a.C. il saccello venne smontato e parte della struttura fu utilizzata come favissa. Gli strati successivi sono sfalsati rispetto ai primi e abbiamo il quarto strato (fine VI a.C.) che si trova allo stesso livello del settimo (nonostante sia affiancato) a causa del declivio dell’area verso il mare. Gli strati seguenti (inizio V a.C.) vedono il riutilizzo delle stele per aumentare l’altezza del muro di contenimento ma le urne rimangono in posizione originaria. Dallo strato secondo (fine V a.C.) abbiamo la scomparsa delle stele. Lo strato primo vede migliaia di urne e il tophet continua dopo la distruzione della città avvenuta all’inizio del IV a.C.

Nelle immagini: Mozia, tratti di mura e il bacino "Cothon".

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