Diretto da Pierluigi Montalbano

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lunedì 31 maggio 2010

Ritrovamento di asce in bronzo

Scoperto l'arsenale dei nuragici

Importante ritrovamento a Tortolì, in agro San Salvatore, tenuto a lungo segreto per evitare il saccheggio.

Anticipati i tombaroli, in salvo 19 asce in bronzo
A Tortolì i nuragici custodivano armi da guerra. Lo ha scoperto una equipe di archeologi guidati dalla sovrintendente Maria Ausilia Fadda. I reperti sono stati affidati in custodia alla Guardia di finanza.
Sono riemerse da un passato antichissimo per raccontare un inedito capitolo della storia ogliastrina. Sono le diciannove asce in bronzo rinvenute nell'insediamento di San Salvatore, sito archeologico che domina la costa di Tortolì, e custodite per pochi giorni nella sede dalla Guardia di Finanza ad Arbatax per il timore dei tombaroli. Le armi, preziosissima testimonianza della civiltà nuragica, hanno poi preso la strada della Sovrintendenza dei beni archeologici di Nuoro.
Il clamoroso rinvenimento risale a tempo addietro ma tutto è stato accuratamente nascosto proprio per evitare che i tombaroli saccheggiassero il sito prima del completamento degli scavi. La notizia è rimasta talmente segreta che del rinvenimento dei reperti non è stata informata neanche l'amministrazione comunale della cittadina. «L'abbiamo saputo di straforo - fanno sapere dal palazzo municipale di via Garibaldi - e abbiamo subito inviato lettera di protesta al sindaco di Villagrande, comune capofila del Piano integrato d'area archeologico, chiedendo di essere messi al corrente di ogni fatto importante che si verifica all'interno del sito di San Salvatore, soprattutto in presenza di notizie positive come quella del rinvenimento delle asce».
Il rinvenimento è stato effettuato dall'equipe che si sta occupando della campagna di scavi finanziata attraverso il Pia e coordinata dal direttore della Sovrintendenza, l'archeologa Maria Ausilia Fadda. Nel progetto, che punta alla valorizzazione del patrimonio archeologico ogliastrino, sono coinvolti i comuni di Villagrande con S'Arcu e is Forros e di Lanusei con Selene. Il sito di S'ortali e su Monte, a maggior ragione dopo la recente scoperta, viene considerato di grande interesse dagli studiosi. Il complesso comprende un nuraghe monotorre con antemurale ed un piccolo villaggio. A poca distanza del complesso si trovano anche una tomba di giganti e tre menhir, a testimonianza del fatto che l'insediamento appartiene a età diverse. In passato ha riservato altre, interessanti scoperte. Uno scavo, effettuato negli anni 1990 e 1991 dalla stessa Maria Ausilia Fadda ha permesso di riportare alla luce numerose capanne all'esterno dell'antemurale e di alcune strutture che si addossano alla cinta muraria. In due capanne circolari con al centro dei focolari è stata riscontrata la presenza di utensili come ceramiche, macine e pestelli. Sempre nell'area sono stati riportati alla luce nove siloi per la conservazione di derrate alimentari. Il rinvenimento di numerosi resti di granaglie ha indotto gli esperti a ritenere che l'accumulo di surplus fosse destinato agli scambi e quindi il sito di S'ortali e su Monte potesse essere un importante snodo commerciale. Ora con la scoperta dell'armeria nuragica è facile ipotizzare che a protezione del complesso che si trova a due passi dalla spiaggia di Orrì vi fosse una guardia armata.
Il Pia archeologico ogliastrino, partito nel lontano 2001 con una dote di sei miliardi delle vecchie lire, è andato incontro a diverse vicissitudini che ne hanno bloccato l'iter e rallentato l'attuazione dell'Accordo di programma. Ma ora grazie all'intervento, considerato un'occasione un'occasione di sviluppo turistico ed economico, si potrà approfondire una capitolo della storia millenaria di questa terra e del sito di San Salvatore, uno dei rari esempi di nuraghe realizzati a poca distanza dal mare.

http://giornaleonline.unionesarda.ilsole24...rticolo=2469502
dall' Unione Sarda del 30 maggio 2010

sabato 29 maggio 2010

La mappa di Piri Reis


La mappa di Piri Reis

La strana storia della carta è cominciata nel 1929 a Istanbul, che allora si chiamava Costantinopoli, quando venne ritrovata tracciata su pergamena. Nel 1520 l'ammiraglio turco Muhiddin Piri Reis (1470-1554) compilava l'atlante Bahriyye, destinato ai navigatori. Le carte nautiche di questo atlante, corredate da note esplicative e redatte su pelle di capriolo, furono più tardi scoperte dallo studioso Halil Edhem, direttore dei musei nazionali, il 9 novembre del 1929 nel palazzo di Topkapi, ad Istanbul. Grazie alle sue attente ricerche, Edhem trovò citata l'origine delle carte che componevano l'atlante Bahriyye negli stessi scritti lasciati dall'ammiraglio Piri Reis: ebbene, narra questi che nel 1501, durante una battaglia navale contro gli spagnoli, un ufficiale turco di nome Kemal catturò un prigioniero che disse di aver preso parte ai tre storici viaggi di Cristoforo Colombo, e che possedeva una serie di carte nautiche davvero eccezionali. Sarebbe stato proprio grazie all'aiuto di quelle carte nautiche così precise che il grande navigatore genovese individuò la meta finale del suo viaggio.La carta era datata nel mese di Nuharrem nell'anno 919 dopo il profeta: nel 1513 dell'era cristiana. La carta era firmata da Piri Ibn Haji Memmed, nome completo dell'Ammiraglio Piri Reis. Questa carta attirò l'attenzione di un primo ricercatore americano, Arlington Mallery. Egli dimostrò, per mezzo di calcoli, confermati da successivi controlli, che la carta aveva richiesto conoscenze molto progredite di trigonometria sferica, che risaliva ad un'epoca antichissima, un'epoca in cui il ghiaccio dell'Antartico non ricopriva ancora la zona della Terra Regina Maud (Antartide). Sulla carta in questione si trovano rappresentati in particolare il Rio delle Amazzoni, il Golfo del Venezuela, l'America meridionale, da Baya Blanca al Capo Horn, ed infine, come abbiamo detto l'Antartide, informazioni che nessuno poteva possedere a quei tempi. Il Prof.Charles H.Hapgood del Keene State College, New Hampshire, Stati Uniti assegnò alla carta di Piri Reis ed ad altre carte analoghe il nome di "carte degli antichi re del mare". Nella Vita dell'Ammiraglio Cristoforo Colombo, scritta da suo figlio Ferdinando si legge che "[Colombo] Raccoglieva accuratamente tutte le indicazioni che marinai o altri potevano fornirgli. E le seppe sfruttare così bene, che in lui maturò l'incrollabile convinzione di poter scoprire nuove terre a ovest delle isole Canarie". Inoltre, la distanza tra l'America del Sud e l'Africa vi è indicata con precisione sorprendente. Il bottino rappresentato dalle misteriose carte disegnate da Colombo finì nelle mani di Piri Reis il quale, sulla base delle voci che correvano a quei tempi, racconta nei suoi scritti che "Cristoforo Colombo, nel corso delle sue ricerche, trovò un libro risalente all'epoca di Alessandro Magno e ne rimase così impressionato che, dopo averlo letto, partì alla scoperta delle Antille con le navi ottenute dal governo spagnolo". Qualcuno ha tracciato questa carta in un passato molto remoto, ed a noi sono pervenute delle copie come la Piri Reis o come quella di Oriontio Fineo, del 1531. Su quest'ultima, le dimensioni del continente antartico corrispondono perfettamente a quelle riportate nelle più precise carte moderne. Segnaliamo, infine, che un'altra carta turca del 1559, quella attribuita a Hadjj Ahmed, ci mostra a sua volta una terra sconosciuta che, forma un ponte tra la Siberia e l'Alaska attraverso lo stretto di Bering. Questo passaggio terrestre svelerebbe molti misteri sulle migrazioni del Paleolitico; ma essendo scomparso certamente quasi 30.000 anni fa non si riesce a capire in che modo una civiltà terrestre, conosciuta o ignota, avesse potuto sapere della sua esistenza.

Fonte: http://www.tanogabo.it/images/images11/pirireis.jpg

giovedì 27 maggio 2010

Monte Prama, i giganti.


I giganti di Monte Prama
Nel 1974 vicino a Cabras, in provincia di Oristano, mentre arava il suo campo, il signor Poddi si accorse che dalla terra saltavano fuori frammenti di pietra bianca calcarea lavorati dall’uomo: un busto, una testa e un braccio. Erano i primi fra gli oltre 5000 pezzi di statue monumentali venuti alla luce e sparsi su una necropoli sepolta: facevano parte di statue alte oltre 2 metri con volti, nasi e sopracciglia stilizzati e occhi incisi a cerchi concentrici. Statue realizzate da artigiani della civiltà nuragica. Nel 1977 la soprintendenza archeologica sarda e l’Università di Cagliari organizzarono una campagna di scavi in quella zona sabbiosa presso il mare chiamata Monte Prama (nome sardo della palma nana che cresce in quella zona, «prama»). I frammenti furono raccolti ma seguì un lungo periodo di stasi fino al 2005, quando un gruppo composto da una ventina di specialisti ha iniziato a riassemblare le statue nel Centro di restauro Li Punti, nel sassarese.
Gli scavi organizzati dalla soprintendenza di Cagliari, che affidò a Tronchetti il lavoro, misero in luce una necropoli con 34 tombe a fossa contenente corpi inumati. Era un’area sacra dell’VIII a.C. sopra la quale c’era un fossato su cui qualcuno aveva gettato le sculture ridotte in frantumi. Con i 300 frammenti di modellini di nuraghe, gli archeologi hanno recuperato altri 4.900 pezzi fra teste, braccia, cosce, piedi e altro: appartengono a figure poderose, alte in media di 2 metri e 40, ognuna dal peso compreso tra i 100 e i 250 chili per un totale di oltre 10 tonnellate.
A che epoca risalgono? Forse lo stesso periodo della necropoli, VIII a.C., ma si va rafforzando l’ipotesi che data le statue al X a.C. e che qualcuno le avrebbe inizialmente collocate in un punto visibile dal mare. Successivamente furono distrutte e buttate sulla necropoli già abbandonata da tempo. Le sculture rappresentano arcieri e guerrieri (corridori o pugilatori), ma vi sono anche dei piccoli nuraghe a dimostrazione che gli ideatori furono proprio i sardi nuragici.
Di rilevante importanza è la figura di alcuni personaggi denominati erroneamente pugilatori. Hanno in mano un maglio metallico e si proteggono la testa con uno scudo flessibile in cuoio (o giunchi intrecciati, o strati di lino uniti con resina) da oggetti scagliati dall’alto come avviene in battaglia. Personalmente ritengo si tratti di “corridori” che durante le guerre affiancavano gli arcieri e si lanciavano sul nemico moribondo per finirlo fracassandogli la testa col maglio metallico impugnato. L’equipaggiamento leggerissimo, costituito da un semplice perizoma, li avvantaggiava nei movimenti contro i nemici abbigliati con vestiario pesante o comunque ingombrante tipico di chi combatte sui carri. Con i loro dettagli raffinati come mani, pugni e corazze, per la loro somiglianza le sculture rimandano agli incantevoli bronzetti raffiguranti arcieri, guerrieri e corridori (pugilatori), realizzati dai nuragici con il metodo della cera persa e che misurano appena 10-15 centimetri. Forse chi ha fuso i bronzetti potrebbe essersi ispirato alle sculture di Monte Prama. La novità sarebbe enorme: i nuragici rappresentavano se stessi e fino a oggi non era conosciuta una loro scultura lapidea antropomorfa a tutto tondo. Ma non tutti gli studiosi concordano con l’ipotesi nuragica, alcuni li assegnano ai fenici. Altri interrogativi vengono a galla: chi e perché ha distrutto e incendiato le statue e la necropoli? Cosa rappresentavano le statue? Dove erano poste prima dell’atto vandalico?
Attualmente è in corso il restauro mediante l’assemblaggio dei frammenti, tra i quali vi sono 20 teste e 24 busti. A seconda delle ipotesi la datazione oscilla intorno al IX a.C. e ne fa comunque le più antiche statue di questa tipologia del bacino mediterraneo occidentale, antecedenti i Kouroi greci. Sono inoltre stati rinvenuti diversi modelli di Nuraghe e betili.
La statuaria antropomorfa sarda è antichissima. Attinenti all'iconografia della dea madre abbiamo numerosi idoli in stile volumetrico, finemente decorati e ricchi di particolari. Uno degli esempi più significativi è l'idolo di Perfugas (loc. Sos Badulesos), nel quale è raffigurata la dea nell'aspetto di nutrice che porta in grembo, stretto fra le braccia, un bambino che succhia il latte dalla mammella sinistra. Questa tipologia a due figure sarà poi ripresa nella civiltà nuragica con le pietà nuragiche (La Grazia, Madre dell’ucciso, Madre con bimbo in grembo)
Una diversa iconografia per temi e stilemi ci è offerta poi dalle Statue-menhir, personificate dagli schematici rilievi anatomici del volto a T, in unico blocco naso/sopracciglia, ma senza occhi né bocca. In esse è raffigurata un'arma a doppio pugnale e il pittogramma pettorale del "capovolto", raffigurato in forma a tridente, nella rappresentazione del mondo dell’aldilà sulle pareti interne dei sepolcri a domus de janas (Ugas, 2006).
Probabilmente di epoca successiva sono poi alcuni reperti trovati a Viddalba, Ossi (custoditi al Museo Sanna di Sassari) e Bulzi. Quest’ultimo (esposto presso il museo di Perfugas) consiste in una testa antropomorfa calcarea con tipico schema a T del volto, che rispetto alle predette Statue-menhir reca due fori a rappresentare gli occhi. Questa scultura è inoltre sormontata da un elmo a visiera frontale dotato di due incavi, nei quali furono inserite ad incastro le corna calcaree e delle quali residua un breve tratto. Queste caratteristiche avvicinano tali manufatti alle statue menhir di Filitosa in Corsica (datate intorno al 1600 a.C.). Sono queste sculture probabilmente a costituire il precedente artistico e ideologico dei Giganti di Monte Prama e della correlativa bronzistica.
Le statue sono state scolpite su pietra di arenaria estratta da cave nei pressi di Oristano. Gli occhi incavati, sono resi con un doppio cerchio concentrico creato con un compasso o uno strumento analogo. La bocca infine, è resa con un breve tratto inciso, che può essere rettilineo o angolare. I capelli sono in genere raccolti in lunghe trecce. I piedi poggiano su basi e sono ampi e larghi, con le dita bene definite. Le incisioni ripetono i simboli e le decorazioni della ceramica sarda e dei bronzetti creando un filo diretto tra le sculture bronzee e i Giganti. Infatti, i motivi disegnati derivano la propria matrice dalla tecnica della lavorazione a punta di bulino propria della bronzistica, le cui sporgenze e rilievi non potendo esser resi su pietra sono stati ricreati con la soluzione dell’incisione. Sono presenti i cerchi concentrici largamente utilizzati nei vasi nuragici tra i quali ad esempio gli Askos. Dalle tracce recentemente rinvenute si ritiene che le statue fossero dipinte di rosso e di nero. Il materiale organico utilizzato per i colori potrebbe forse essere utilizzato per determinare la datazione delle statue attraverso il metodo del carbonio 14.
Gli arcieri
I frammenti appartenenti a questa tipologia di statue, appartengono a 12 figure. Le caratteristiche, come nelle statuette bronzee, sono assai varie. L’iconografia più diffusa vede il guerriero che indossa una corta tunica che copre l’inguine e una placca pettorale a lati leggermente concavi. La resa del petto fra i lacci della placca indica che questi reggevano anche una sorta di goliera, peraltro visibile in alcuni bronzetti.
La testa in miglior stato di conservazione mostra il tipico elmo cornuto dei guerrieri shardana raffigurati nei bassorilievi egizi. Alcuni frammenti di piccoli elementi cilindrici, terminanti in sfere, possono esser ricondotti alle parti terminali delle corna degli elmi, come nei bronzi. Gli arti superiori presentano spesso il braccio sinistro munito di brassard che tiene l’arco mentre la mano destra è tesa in segno di saluto. Altri arti presentano la mano destra che tiene uno scudo. Nei busti di alcune figure di arciere è visibile una corazza; alcuni arcieri hanno, sulla schiena, la faretra con la spada a fianco.
I Corridori
Personalmente ritengo che i personaggi che Lilliu classifica come pugilatori, siano in realtà corridori, guerrieri dei popoli del mare con funzioni particolari che contribuirono alla caduta dei grandi imperi del passato e che ho descritto in questo libro nel paragrafo dedicato proprio alle invasioni dei popoli del mare avvenute intorno al 1200 a.C. Il torso è nudo ed i lombi cinti da un breve gonnellino svasato posteriormente a “V” visibile nella bronzistica dei pugili ma anche nell’arciere di Serri. Si percepiscono su qualche gonnellino i lacci che lo tenevano legato, raffigurati con cordoncini a bassissimo rilievo. Il capo è rivestito da una calotta liscia i cui due lembi ricadono ai lati del collo, al di sotto della quale escono le lunghe trecce. Il braccio destro è rivestito da una guaina in cuoio che parte dal gomito e il pugno impugna una sorta di maglio metallico che serviva per finire il nemico. Il braccio sinistro tiene lo scudo a coprire il capo. Lo scudo è di forma ellissoidale e doveva essere composto da cuoio, giunco intrecciato o altro materiale flessibile. La figura del pugilatore è molto rappresentata anche nella bronzistica e, oltre agli esemplari sardi, si segnala il bronzetto rinvenuto nella Tomba del Capo a Vetulonia.
Le statue furono rinvenute, come ho già detto, presso una necropoli formata da 34 tombe a pozzetto irregolare e prive di corredo funerario eccetto che per uno scarabeo. La necropoli di Monte Prama si trova in un territorio che registra un'altissima densità di monumenti nuragici. Quasi ogni rilievo collinare ha sulla sua sommità un nuraghe, di dimensioni variabili. Le tombe sono praticamente l’una attaccata all’altra e collocate entro recinti che suddividono il terreno in diverse aree sepolcrali. Il problema della datazione di tali opere è determinato dal fatto che, come già detto, con tutta probabilità furono spostate dalla loro sede originaria già in antichità ad opera dei loro distruttori. Attestano questi fatti l’estrema frammentazione e il rinvenimento di tracce d’incendio nella pietra. Uno dei recinti tombali offre un'indicazione fondamentale: le tombe erano poste in fila, e a causa del ristretto spazio interno al recinto, le ultime tre di esse, sono state affiancate alle precedenti. Si hanno quindi 34 tombe numerate dalla n°1 verso la n° 34 in ordine cronologico progressivo, quindi si provvedeva a scavare una nuova tomba man mano che se ne presentava la necessità, affiancandola a quella più recente. Nella tomba n° 25 è stato ritrovato uno scarabeo egiziano del Ferro con raffigurato un doppio fiore di loto schematizzato; una tipologia nota a partire dagli ultimi secoli del II millennio. La presenza di uno scarabeo identico ad un altro rinvenuto a Tiro, in uno strato dell'VIII a.C. ci indica il periodo al quale risalgono le tombe: intorno al 800 a.C.
Ma non si tratta di un calcolo definitivo. Infatti come si è detto i giganti di Monte Prama sono stati realizzati prima e gettati sulla necropoli, inoltre sono legati a doppio filo alla bronzistica sarda. Iconograficamente sono praticamente uguali ai bronzetti ritrovati nei santuari di Abini-Teti e Santa Vittoria-Serri. I vari studi affermano che i bronzetti sono del Ferro, non oltre comunque il X a.C. In tutto il Mediterraneo i bronzetti delle varie culture seguono la statuaria, riproducendola in forma ridotta come nel caso dei Kouroi greci. Non si vede quindi il motivo per cui solo in Sardegna sarebbe avvenuto il contrario. Quindi è plausibile l’ipotesi di retrodatare ancora una volta le statue di Monte Prama al X a.C.
Recentemente Rockwell ha analizzato personalmente le sculture riscontrando l’uso di vari strumenti in metallo, probabilmente in bronzo. In particolare ha osservato l'uso di: subbia, scalpello con lama di varie misure, uno strumento simile ad un raschietto utilizzato per levigare la superficie, una punta secca per incidere linee fini di dettaglio, uno strumento per produrre fori simile ad un trapano. Inoltre è evidente l’uso di uno strumento simile al compasso con il quale sono state realizzate le linee circolari degli occhi.

Il collage di immagini realizzato è stato eseguito presso il centro di restauro della sovrintendenza a Li Punti.

mercoledì 26 maggio 2010

Il Tempio di Antas


Il tempio di Antas
L’area abitata nel periodo nuragico attirò l’interesse dei Cartaginesi e dei romani per la ricchezza dei giacimenti di piombo e ferro. Le frequentazioni iniziano nel Bronzo Finale e percorrendo un sentiero che conduce alla vicina grotta di Su Mannau, si trovano i ruderi di un nucleo abitativo frequentato fino ad epoca romana, e le maestose rovine del tempio dedicato all’adorazione del Dio eponimo dei sardi Sardus Pater Babai.
La valle di Antas offre ai visitatori un paesaggio naturalistico che va oltre l’aspetto storico e culturale; sensazioni mistiche e una sacralità quasi tangibile sono le emozioni che le popolazioni del passato avevano già avvertito a suo tempo: lentischi centenari fanno da sentinella alle colonne del tempio e vi sono antichi affioramenti rocciosi di 500 milioni di anni.
La necropoli antistante il tempio presenta 3 tombe a pozzetto scoperte nel 1984. Due contenevano individui inumati, uno dei quali si trovava in ginocchio, adornato da una collana, un anello e un bronzetto nudo con il braccio destro alzato in segno di saluto, mentre nell’altra mano ha una lancia. Una delle tombe era stata eretta a scopo commemorativo (cenotafio) poiché, priva del defunto, presentava solo il corredo funerario.
Al di sotto della gradinata d’accesso al tempio romano sono visibili i resti del precedente tempio dedicato al Sid Addir Babai, continuazione del culto nuragico del dio Sid Addir. La prima fase di costruzione risale al 500 a.C., con un saccello attorno ad un affioramento calcareo che fungeva da roccia sacra. Nel 300 a.C. furono trasformate le decorazioni esterne con iscrizioni dedicatorie al Dio Sid Addir Babai.
Il tempio scoperto nel 1836 da La Marmora fu ricostruito nel 1967 da Barreca e si divide in tre parti: pronao, cella e adyton bipartito. Il prospetto è tetrastilo con 4 colonne frontali e 2 laterali, alte circa 8 metri. Il pavimento della cella presenta un mosaico con bordo nero. Nella parte sacra del tempio (adyton) si aprono due vaschette impermeabilizzate per le cerimonie di purificazione. È stato rinvenuto un dito della mano della statua del Sardus Pater e, secondo le proporzioni, era alto circa 3 metri. In origine il tempio era coronato da un frontone triangolare e da una copertura in tegole piane e da coppi ornati alle estremità da personaggi alati. Nell’area sono state ritrovate statue in bronzo, oltre 1000 monete e lance in ferro.
L’iscrizione, datata 213-217 a.C., posta sull’epistilio, ossia nel frontone del tempio, riporta: “In onore dell’Imperatore Cesare Marco Aurelio Augusto, Pio Felice, il tempio del Dio Sardus Pater Babai, rovinato per l’antichità, fu restaurato a cura di Quinto Celio (o Cocceio) Procuro.
Nelle immediate vicinanze del tempio si trovano le cave romane da cui si estraevano i massi calcarei per il tempio. Venivano trasportati con carri a buoi e lavorati con martello e scalpello. Il villaggio nuragico di Antas presenta ambienti circolari e tra i reperti sono stati rinvenuti: vasellame, punte e lame di ferro, piombo fuso e scorie di lavorazione del vetro. Lungo il sentiero chiamato “strada romana” che collega il tempio alla grotta di Su Mannau sono state trovate lucerne a olio e navicelle votive, testimonianze della pratica del culto delle acque.

Da segnalare che a Fluminimaggiore c'è un museo etnografico allestito in un Antico Mulino ad acqua del 1700, gestito dalla stessa cooperativa del tempio di Antas.

martedì 25 maggio 2010

Pausania

Ricevo e pubblico volentieri il seguente testo.

Pausania (II d.C )...nel suo Hellados Periegesis
Traduce Professor Gianni Ragona
Pausania : 10. 17 - Echecràtide , un cittadino di Larissa ( Grecia ), caricò sulla sua nave una piccola statua di Apollo e questa , dicono i Delfi , fu la prima di tutte le offerte votive poste (nel tempio). Fra gli stranieri che verso occidente occuparono la Sardegna alcuni mandarono una statuetta bronzea (di Sardo) da cui essi traevano il nome.
La Sardegna, per la grandezza e per la sua prosperità, è simile a quelle (isole) che vengono lodate moltissimo. Io non so quale fosse il nome originario che gli abitanti del luogo le avessero dato, ma i Greci che navigavano per motivi commerciali la chiamarono Ichnussa , soprattutto per il fatto che l’isola ha la forma di un’orma di piede umano. La sua lunghezza è di 1120 stadi, la larghezza va oltre i 420 stadi. (nota: 1 stadio=177,6 m. E fu stabilito da Ercole con 600 dei suoi piedini). Si dice che i primi a navigare verso l’isola furono i Libi; ai Libi era capo Sardo (figlio) di Maceride , soprannominato Eracle da Egizi e Libi. Vi furono segni molto chiari che indicarono allo stesso Maceride il viaggio verso Delfi. L’autorità di Sardo sui Libi si estese fino ad Ichnussa. (Oppure: il potere dei Libi per Sardo si accrebbe verso Ichnussa) e proprio da Sardo l’isola mutò il suo nome. La spedizione militare dei Libi, tuttavia, non cacciò via gli abitanti del posto, i quali, essendo diventati coabitanti, li accettarono per la forza più che per benevolenza. Inoltre nè i Libi nè le tribù originarie seppero fondare città. Ma abitarono sparsi qua e là nelle capanne e nelle grotte, così come a ciascun gruppo capitava per caso. Alcuni anni dopo (l’arrivo) dei Libici arrivarono nell’isola dalla Grecia quelli al seguito di Aristeo. Si dice pure che Aristeo fosse figlio di Apollo e di Cirene. Raccontano che (Aristeo) durante il suo regno avesse sofferto oltre misura a causa delle sventure (capitate a suo figlio) Atteone e che, sentendosi oppresso per queste cose dai Beoti e da tutti i Greci, venne a stabilirsi in Sardegna. Alcuni ritengono che, allora, Dedalo fosse fuggito da Inico (Sicilia) a causa dell’aggressione dei Cretesi e si fosse unito ad Aristeo nella trasmigrazione verso la Sardegna. Ma potrebbe non essere vera la notizia che al tempo in cui Autònoe (madre di Atteone) era unita in matrimonio con Aristeo, Dedalo avesse preso parte alla trasmigrazione (in Sardegna) o a qualche avvenimento del genere. Questi (Dedalo) visse al tempo in cui Edipo regnava a Tebe. [il ciclo tebano è coevo rispetto a quello troiano] Ma neppure costoro fondarono alcuna città poichè per numero e per forze militari mi sembra che fossero troppo deboli rispetto a chi potesse fondare una colonia.
Dopo Aristeo, gli Iberi attraversarono il mare verso la Sardegna, sotto la guida di Norace che comandava la spedizione e fu fondata la città di Nora. Ricordiamo che questa città fu la prima ad essere fondata nell’isola. Dicono che Norace, fosse figlio di Ermes e figlio di Eritea, la quale era figlia di Gerione [decima fatica di Ercole]. Come quarta parte (gruppo) approdò in Sardegna il gruppo di Tespiesi di Iolao con una spedizione militare dall’Attica e fondano la città di Olbia mentre gli Ateniesi fondarono Ogrile, lasciando il nome di qualche luogo, pur abitandoci e lo stesso Ogrile prese parte alla spedizione. Sicuramente, secondo me, c’è ancora in Sardegna la regione di Iola e Iolao riceve onori tra quei coloni. Quando fu distrutta Ilio, altri troiani e (oltre) quelli che si erano salvati con Enea, fuggirono via. Una parte di loro spinta (a caso) dai venti verso la Sardegna si unirono ai greci che già ci abitavano. Egli [il soggetto sembrerebbe Enea] impedì che gli stranieri (che già erano in Sardegna) portassero guerra ai Greci e ai Troiani; infatti in tutti i mezzi di guerra (armamenti) erano pari e il fiume Torso (Tyrso) scorrendo nella parte centrale della regione con diritto perfettamente uguale per loro, offre ad entrambi motivo di temere gli attraversamenti. Tuttavia molti anni dopo i Libici furono spinti di nuovo verso l’isola con una flotta più grande e capeggiarono una guerra contro i Greci. Ma i Greci impedirono che fossero annientati del tutto. E dopo questo fatto tralascio le cose di piccola importanza. I troiani si rifugiarono sull’alture dell’isola avendo occupati i monti resi inaccessibili da palizzate e gli Iliesi conservano ancora il nome delle terre basse (pendii) secondo me , ed essi hanno senza dubbio lineamenti, foggia delle armi e ogni usanza simili ai libici. Vi è un’isola che non è molto lontano dalla Sardegna chiamata Cyrno dai Greci, Corsica dai Libici che vi abitano. Una parte di questa, essendo stata circondata, per la sua posizione non molto piccola arrivò fino alla Sardegna e coloro che restarono separata da questa regione seguitarono ad abitare sui suoi monti . Sicuramente i Corsi sono chiamati con questo nome da quelli che abitano in Sardegna.
Quando i Cartaginesi divennero molto più abili nell’arte del navigare , sottomisero anche tutti quelli della Sardegna tranne gli Iliesi e i Corsi, ai quali fu di aiuto la sicurezza dei monti per non cadere in schiavitù. Ed essi fondarono colonie nell’isola e proprio i Cartaginesi fondarono Cagliari e Sulci. Libici e Iberi essendo giunti, con l’aiuto cartaginese, ad una contesa per il bottino, quando l’ottennero, ritiratisi dalla contesa si stabilirono sull’alture dell’isola. Balari è il loro nome secondo la lingua dei Corsi; essi infatti chiamano balari gli esuli. Anche queste tribù che si sono stabilite in Sardegna si chiamano così. I monti dell’isola, verso nord e verso il continente, di fronte l’Italia sono inaccessibili riuniti insieme gli uni accanto agli altri. Se tu la volessi circumnavigare l’isola per questo motivo non offre ancoraggi alle navi, i venti sono irregolari e gli alti promontori dei monti rimandano indietro verso il mare. Nella sua parte centrale vi sono altri monti più bassi. L’aria in questi luoghi è generalmente malsana (densa di vapori) e insalubre. La causa di ciò è la salsedine che si attacca e il vento del sud è greve e fastidioso e opprimente. I venti del nord , a causa dell’altezza dei monti prospicienti l’Italia, impediscono con i loro soffi che le stagioni primaverili rinfreschino l’aria e la sua terra. Alcuni dicono che la Corsica sia separata dalla Sardegna da un tratto di mare di non più di otto stadi e che la Corsica montuosa presenti alture per tutta la sua estensione. I Corsi dunque credono che Zefiro e Borea impediscano di giungere fino alla Sardegna. Non sono nati nè cresciuti serpenti che creassero sventura per gli uomini nè altre specie innocue nè lupi. I montoni non sono più grandi di quelli (che vivono) in altri posti ma hanno un aspetto simile ad un caprone selvatico che avrebbe potuto scolpire un artista di Egina. Ma essi , tutt’intorno al petto, sono ricoperti di peli più di quanto la scultura di Egina potrebbe raffigurarli. Hanno corna contorte sopra la testa ma crescono accanto alle orecchie quasi subito. Tutti gli animali selvatici saltano con rapidità. Se si esclude una sola specie di pianta, l’isola non presenta piante velenose che procurano la morte. C’è un’erba velenosa simile al prezzemolo, dicono che per coloro che la mangiano la morte sopraggiunga con una smorfia di sorriso. Per questo Omero e poi altre persone chiamarono Sardanio quel sorriso senza vivacità. L’erba velenosa cresce rigogliosa presso le sorgenti ma essa non trasmette il veleno all’acqua. Riportiamo poi queste notizie sulla Focide, che riguardano anche la Sardegna, ossia i Greci intorno a quest’isola non avevano affatto notizie. Dicono che il Cavallo, che si diffuse insieme all’immagine della Sardegna, lo avesse portato l’ateniese Callia (discendente) della famiglia di Lisimaco, avendo accumulato delle ricchezze in seguito alla guerra contro i Persiani.

Confrontate i vari storici.

lunedì 24 maggio 2010

Viaggi e letture - Nora


Si è svolta ieri nell'incantevole cittadella punico-romana di Nora la giornata culturale dedicata alle Chiese dei Monaci Vittorini, organizzata dalla Biblioteca Provinciale di Cagliari.

Relatore dell'incontro è stato il Prof. Roberto Coroneo, preside della facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari e docente di Arte Medievale, che ha esposto la storia dell'arrivo dei monaci in Sardegna e ha analizzato le chiese di San Saturnino a Cagliari, Sant'Antioco nell'omonima isola e Sant'Efisio a Nora.

All'appuntamento, accompagnato da uno splendido sole che contrastava il blu profondo delle acque cristalline della baia, hanno partecipato oltre 50 appassionati che al termine della presentazione hanno animato la giornata con domande sui monasteri e hanno partecipato attivamente alla visita guidata all'interno del parco archeologico. Il pranzo sulla terrazza a mare del ristorante e la visita serale al museo di Pula hanno fatto da contorno alla manifestazione.

sabato 22 maggio 2010

Il capovolto nei menhir


Ma quale capovolto...i simboli sono altri.


I menhir antropomorfi della Sardegna centrale sono tanto affascinanti da commuovere. Sarà che sono nostri, però mi sono sempre sembrati i più belli del mondo. Di certo sono i più enigmatici.
Una visita al museo di Laconi, dove sono stati raccolti i più rappresentativi per evitare che vengano rubati (sic!), restituisce le immagini di figure e categorie espressive lontane nel tempo e però, data la consuetudine con l’arte della prima metà del secolo scorso, geometria, essenzialità, simbolismo, ci sembra di sentirli particolarmente vicini.
A sentire i più, le statue-steli (o steli-menhir), diffuse in un ampio territorio che abbraccia gran parte dell’Europa occidentale, sarebbero falli di pietra, figure essenziali alle quali, a cavallo dell’eneolitico e dentro il primo bronzo, si cominciano ad aggiungere fattezze umane schematiche. Qualche tratto per il volto, talvolta due seni, le braccia, spesso oggetti simbolici indice di posizione sociale: armi (pugnali, accette, spade, archi) abiti splendidamente lavorati, ornamenti, alabarde, animali.

Se si tralascia per il momento il caso sardo, tutti i dettagli delle statue-steli ritrovate in Europa sono stati perfettamente identificati, salvo un caso, quello del famoso “object”, una sorta di corto bastone di cui non si conosce l’uso ma si intuisce il senso: probabilmente una specie di segno di comando, o scettro.
E quelle sarde?
Dei pugnali si è già detto: pugnali sono e restano anche se l’attribuzione al tipo Remedello è problematica. L’altro curioso simbolo enigmatico (unico anch’esso in tutto il panorama dei menhir antropomorfi) è la raffigurazione del cosiddetto”Capovolto” (fig 1 a sinistra; statua-stele Orrubiu IV). Si tratterebbe di un simbolo derivato da un’immagine antropomorfa col capo rivolto verso il basso, ad indicare il viaggio verso l’aldilà. In altri termini un defunto.
Questa interpretazione deriva da una lettura dei graffiti della cosiddetta “Tomba dell’emiciclio” della necropoli a Domus de Janas di Oniferi (Sas Concas) (cfr. (1), pag 8), mostrati nella fig.2 (essi sono realizzati in corrispondenza del portello di ingresso della tomba, appena più in alto, sulla sinistra).
Il “Capovolto” sarebbe l’antropomoforfo indicato con ‘1’, mentre i graffiti indicati con ‘2’ ne sarebbero un’evoluzione, una semplificazione, che avrebbe dato origine ai simboli riportati a rilievo sui menhir antropomorfi (un caso a parte il simbolo ‘3’ di cui si dirà in seguito). Secondo l’interpretazione corrente, il simbolo 2 sarebbe equivalente all’1, indicherebbe anch’esso il viaggio nell’aldilà del morto. Il ritrovarli in una tomba ne sarebbe una conferma (c’è stato chi ha voluto vedere un parallelo anche con la raffigurazione di Tanit rovesciata in una tomba ipogeica della necropoli di Monte Sirai).
Premesso che le raffigurazioni tombali dell’eneolitico (periodo al quale si riporta la necropoli in oggetto) contengono in genere simboli di rigenerazione (protomi taurine, spirali, denti di lupo), sia l’interpretazione del graffito 1 come un antropomorfo rovesciato, che l’equivalenza 1=2 appaiono deboli.
Parliamo del Capovolto. Se si trattasse effettivamente di un essere umano con il capo rivolto in basso, sarebbe evidentemente maschio, con un pene di lunghezza inusitata di cui non si attestano altre raffigurazioni. In particolare sarebbe ben diverso dall’antropomorfo a testa rotonda inciso su un peso da telaio ritrovato a Conca Illonis e considerato iconograficamente simile, tanto da essere citato come prova della correttezza dell’attribuzione del tipo 1 (fig 2 a sinistra). L’antropomorfo di Conca Illonis è asessuato ed ha il capo rotondo connesso al tronco da un lungo collo (che nel graffito di Sas Concas manca; esiste un tratto verticale che connette la coppella al resto del graffito ma risulta è molto spesso ed iconograficamente incompatibile; né si conosce in quale periodo venne realizzat0 e/o (eventualmente) ampliata).

È vero invece che sono attestati (si potrebbe dire in tutto il mondo e in tutte le epoche) numerosissimi antropomorfi caratterizzati dalla presenza di una coppella in mezzo alle gambe e sono interpretati dalla totalità degli esperti (ad esempio: E. Anati, I Camuni, Jaka Book 1982) come antropomorfi femminili, essendo la coppella una raffigurazione della vagina. In tutta evidenza, se si prescindesse dalla presenza dei simboli di tipo 2 e 3, qualunque esperto di graffiti neolitici/eneolitici non potrebbe che interpretare l’antropomorfo 1 come una figura femminile, intendendo in questo caso che il tratto verticale in alto non indica un pene bensì la testa. Le grandi dimensioni della coppella, potrebbero essere riferite a due eventualità: da una parte la possibilità che sia stata ampliata nel corso degli anni durante riti di rigenerazione che prevedessero un’azione meccanica sulla cavità (intendendo con questo una nuova nascita del defunto), oppure che si tratti di un parto simbolico, di un nuovo essere che esce dall’utero della terra dopo essere stato da essa inghiottito, attraverso il portello della tomba. Non può essere escluso, infine, che i graffiti siano stati deteriorati da azione meccanica deliberata nel corso degli anni (non ultima l’abitudine riprovevole di ripassare i graffiti col gesso!).
Altrettanto problematica appare la sintesi del “Capovolto” nel graffito di tipo 2. Attraverso quale meccanismo simbolico si sarebbe scelto di rappresentare il morto unendo la testa alle gambe ed al pene, piuttosto che conservando testa e braccia, con eventualmente una porzione del torso?
Bisogna ricordare, che graffiti di esseri umani “dimezzati” sono ben attestati nell’eneolitico/bronzo della Valcamonica (Anati, op. cit. fig 3). Essi sono rappresentati da un “mezzo” antropomorfo di cui si conserva la testa e le braccia; queste però incorniciano la testa e non si trovano dalla parte opposta (come sarebbe il caso dei graffiti di Sas Concas). L’interpretazione corrente, li vorrebbe simboli di spiriti (entità soprannaturali o defunti) e non sono mai rappresentati con la testa in basso.
Se poi osserviamo i graffiti tipo 2a notiamo che essi (simili al tipo 2) sono privi della coppella (ovvero la “testa”nell’interpretazione di Atzeni) ed è presente il caso tipo 2b che è chiaramente una protome taurina (simbolo di rinascita e potenza sessuale).
In conclusione, l’ipotesi che il simbolo sui menhir antropomorfi sia un “Capovolto”, si basa:
1) Sull’interpretazione che il graffito tipo 1 sia un capovolto;
2) Sull’ipotesi che il tipo 2 sia anch’esso un capovolto (ma su quali basi?);
3) Su una mancanza di spiegazione in merito alla presenza dei simboli di tipo 2a e 2b (cosa sarebbero?)

Per quanto riguarda i simboli di tipo 3 (attestati anch’essi nei menhir antropomorfi, sebbene più rari) ancora una volta, non si spiega per quale motivo, se davvero si trattasse di antropomorfi capovolti, dovrebbero avere le braccia invertite rispetto al tipo 1 (e per di più curve e non squadrate), né per quale motivo in un caso sia presente la coppella (la “testa”) e in un caso no.
Si deve sottolineare, che Atzeni non fa alcuna ipotesi sulla stratificazione dei graffiti di Sas Concas, cioè non dice, ad esempio, se essi derivino da un’unica azione compositiva oppure si siano accumulati nel tempo (ed in tal caso, la “Stilizzazione” del capovolto, cioè la transizione dal tipo 1 al tipo 2 troverebbe una certa consistenza). Poiché tuttavia non esiste alcuna sovrapposizione tra i graffiti, si dovrebbe assumere come prevalente l’ipotesi che essi siano stati realizzati in un unico atto, e dunque rappresentino un “messaggio” simbolico compiuto. In tale eventualità, la riduzione del “Capovolto” al “Tridente” sarebbe di difficile giustificazione.
Si deve anche citare il fatto, che i graffiti antropomorfi isolani sono assai pochi (se confrontati con le decine di migliaia dell’area alpina, ad esempio) dunque è difficile operare su base statistica come avviene con altre realtà più ricche (le alpi Marittime o la Valcamonica). Ancor meno se si restringe l’indagine a quelli presenti nelle Domus de Janas, in cui i graffiti di figure antropomorfe sono molto rari.
Tuttavia, essendo attestati fin dal neolitico commerci (ad esempio di ossidiana) tra l’isola e l’area meridionale francese e ligure - e di conseguenza scambi culturali - non sarebbe inopportuna una comparazione con l’iconografia dei graffiti presenti in quelle aree.
Supponiamo che i “Tridenti” raffigurati accanto all’antropomorfo di tipo 1 non siano una rappresentazione del “Capovolto” (e più in generale che l’antropomorfo 1 sia una figura femminile e non un Capovolto): cosa potrebbero rappresentare?
È bene sottolineare, a scanso di equivoci, che dentro i graffiti protostorici si può vedere di tutto: gli UFO, i marziani, su ballu tundu e su passu torrau, antichi alfabeti, Yahvé. È uno dei settori in cui i pazzoidi e gli amanti della fantarcheologia si sbizzarriscono di più, soprattutto per via del fatto che in mancanza di basi storiche (e per le ovvie difficoltà dell’archeologia nel caso specifico) qualunque scemenza finisce per avere senso nel pubblico dei non addetti ai lavori. Pertanto, da non addetto ai lavori, la mia modestissima critica ad Atzeni vorrebbe essere basata soprattutto su due aspetti: a) la bassa statistica alla base dell’attribuzione, e b) una comparazione con graffiti coevi di altre aree geografiche, con le quali è archeologicamente attestato uno scambio culturale.
In altri termini eviterò accuratamente raffronti con categorie simboliche o artistiche riconducibili al presente, che sarebbe poi l’errore tipico degli “studiosi” de noantri.
Inoltre, per ragioni di spazio, non presento esplicitamente tutte le figure dei tridenti presenti sulle statue-steli; raccomando (per chi fosse interessato) di esaminarli rapidamente, per apprezzare la variabilità della rappresentazione, scorrendo il volumetto di Atzeni disponibile come PDF (1).
Nella fig 1, a destra, ho evidenziato il tridente, suddividendolo nelle due parti, A e B. Propongo un piccolo quesito. Supponiamo di non aver mai sentito parlare del “Capovolto”: cosa ci ricorda la parte B? Prima di rispondere, suggerisco ancora di scaricare dal web il (gradevole) libricino di Atzeni sul museo di Laconi per osservare con attenzione tutte le figure riportate.
Non pretendo che si sia d’accordo con me (mi parrebbe eccessivo!): mi rammentano le corna di un toro, soprattutto per il fatto che in alcuni casi (ad esempio Pranu Maore III, pag 19, Tamadili I, pag 23, Martingiana II, pag 24, Piscina ‘e Sali II, pag 53 ed altri) sono talmente arcuate che arrivano a toccarsi all’estremità. Se si trattasse degli arti (inferiori) di un antropomoforfo, sarebbe l’unica attestazione che si conosca (per quanto ne so) mentre per gli arti superiori ci sarebbe qualche esempio (assai raro) (ad es Anati op. cit. pag 167, orante femminile con braccia (quasi) unite sulla testa e due coppelle in mezzo alle gambe).
Credo insomma che il simbolo letto come “capovolto” sia altro, e comprenda le corna taurine e un altro oggetto sovrapposto.
Del resto, quando le rappresentazioni antropomorfe graffite (schematiche) assumono proporzioni maggiori, si assiste automaticamente ad una maggiore definizione dei dettagli naturalistici (dita, viso, genitali primari e secondari) com’è testimoniato, ad esempio, dalle braccia ricavate in rilievo sulle statue-steli della Lunigiana e Aosta, o dalle raffigurazioni naturalistiche (pitture) del neolitico della valle dell’Ubaye (cfr “Sui sentieri dell’Arte rupestre - Edizioni CDA, 1995), in cui all’estremità degli arti compaiono invariabilmente le dita. Il caso del “Capovolto” sui menhir antropomorfi sardi, sarebbe dunque l’unico esempio al mondo di antropomorfo con arti schematici a punta. (Si veda inoltre l’antropomorfo sul peso da telaio di Conca Illonis, in cui addirittura sono raffigurate le mani.)
Sebbene non possa dare il link di riferimento, ricordo che l’ipotesi di una diversa attribuzione del tridente è già comparsa in rete, sebbene mi sia parsa dubbia. Essa, se non ricordo male, si riferiva alla possibilità che alle corna taurine si sovrapponesse un coltello (in bronzo). Da parte mia, sarei portato ad escluderlo, poiché il coltello è effettivamente rappresentato alla cintola con dovizia di particolari (il caso di Tamadili I di (1) pag 23 è esemplare per la raffigurazione di un coltello in pietra). Non si dimentichi inoltre, che le raffigurazioni di coltelli in bronzo sono assenti sull’isola, laddove sono numerosissime nelle aree di confronto di cui parlavo pocanzi (essenzialmente di tipo Remedello).
E’ vero invece che in alcune rappresentazioni antropomorfe riconducibili alle statue-steli, sono raffigurati oggetti che si pensano quasi esclusivamente di uso simbolico, come le ben note “alabarde” (ad esempio la composizione pseudo antropomorfa del ‘Capitello dei due Pini’ a Paspardo – Valcamonica, fig 4; si notino anche cinque pugnali di tipo Remedello nella rappresentazione classica).
Le alabarde non avevano (si pensa) un uso pratico ma rappresentavano piuttosto il simbolo di un elevato status sociale (sul tipo degli stendardi medievali).
Ritengo insomma che varrebbe la pena considerare il ‘tridente’ da questo punto di vista, anche alla luce del graffito tipo 3 (fig 2, parte 1/2) che consiste (nella mia ipotesi) di due protomi taurine sovrapposte, unite dal tratto verticale. Tale rappresentazione si ritrova nei menhir antropomorfi sardi (ad es. Genna Arrele II, pag 15 in (1)) e le doppie protomi sovrapposte sono assai comuni come segno di rinascita nelle Domus de Janas (non sto a citare: da Villaperuccio in poi).
Per riassumere:
· ritengo debole l’attribuzione al graffito 1 del significato di ‘defunto in viaggio verso l’al di là’;
· credo che nei graffiti della Tomba dell’emiciclo siano rappresentati un simbolo femminile di rinascita ed altri simboli di ‘status sociale’ della famiglia di cui accoglieva i morti (tridenti singoli e doppi);
· ipotizzo che gli stessi simboli di ‘status sociale’ siano rappresentati sui menhir antropomorfi assieme ai coltelli, all’interno di un sistema simbolico che presenta evidenti analogie con quello coevo del Nord Italia, salvo le ovvie differenziazioni locali, con il quale sono attestati scambi culturali.
In conclusione, vorrei sottolineare ancora una volta come si tratti di suggestioni da non addetto (e visto che le suggestioni le hanno anche gli addetti ai lavori vorrei prendermi la stessa libertà).
Poiché scrivo in un blog, mi pare ovvio che si parla tra amici e non si ha alcuna pretesa di gridare alla verità offesa o all’untore che nasconde i menhir.
Che sono tutti esposti museo di Laconi e raccomando caldamente di andare a vedere: avendone ammirati molti un po’ ovunque per l’Europa, posso assicurare che si tratta di un’espressione simbolica assai intrigante ed unica (gli unici che reggano il confronto per bellezza e capacità di coinvolgimento emotivo, sono quelli di S. Martin de Corleans ad Aosta e quelli di Sion). Tra l’altro un’espressione simbolica “nostra” e “vera”; per dirla con una sola parola: “Sarda”.

(1) http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_4_20060403120123.pdf

venerdì 21 maggio 2010

Inaugurato il vano "e" a Su Mulinu






Oggi 21 Maggio alle ore 11 c'è stato il taglio del nastro. Il sindaco Daniela Figus ha regalato alla comunità di Villanovafranca una giornata emozionante. L'apertura della giornata è stata nel museo archeologico, presenti i sovrintendenti Marco Minoja e Donatella Cocco, il sindaco, alcuni assessori e il Prof. Giovanni Ugas, che ha descritto minuziosamente, al folto pubblico, la storia degli scavi.
In anteprima vi mostro alcune immagini e la descrizione del sito.
Realizzato nel XIV a.C. nel livello inferiore del bastione trilobato del nuraghe di Su Mulinu, a Villanovafranca, il vano “e”, ha pianta ellittica (a dimostrazione dell’arcaicità), con coperture a carena di nave rovescia, costituita da blocchi in calcare e chiusa da lastre oggi mancanti. Sin dalle origini l’ambiente venne destinato alla celebrazione di culti religiosi, testimoniati dalla costante presenza al suo interno di almeno due focolari rituali: il primo, decentrato, per la bruciatura delle sostanze oleose; il secondo, centrale, funzionale al sacrificio di giovani suini, ovini e bovini. Dopo un periodo di abbandono, tra XIII e XI a.C. la ripresa del culto nuragico comportò la realizzazione, all’interno del vano, di un bancone-sedile, di due fosse sacrificali e la posa in opera di un monumentale altare in pietra. Intorno al IX a.C., infatti, il nuraghe diventa un importante centro cultuale e religioso. L’altare, addossato alle murature nord-est del vano, mostra due soli lati rettilinei e ortogonali, mentre il terzo, ricurvo, si adatta perfettamente al profilo del paramento murario dell’ambiente ellittico. Questa incantevole struttura è internamente scavata a vasca e realizzata in arenaria tufacea in tre pezzi sovrapposti. Sulla sommità una conca era destinata alla raccolta dei liquidi impiegati nel rito che, attraverso una canaletta, venivano fatti scorrere all’interno della vasca. Tre else di spade, scolpite a rilievo (in origine 4), sostenevano lame in bronzo. Altri oggetti bronzei (pugnali e figurine antropomorfe), decoravano superiormente i due bordi dell’altare e, infine, un rilievo in forma di crescente lunare o di corna taurine venne realizzato frontalmente. La vasca non presenta foro di scarico dell’acqua e i due elementi sovrapposti che la compongono non sono sigillati. La celebrazione dei rituali avveniva in occasione di ben definite scadenze del calendario agrario, una delle quali era il solstizio d’estate (21 giugno). La fine dell’anno agrario imponeva, infatti, adeguate cerimonie di ringraziamento e gli indispensabili auspici per propiziare, dopo la crisi estiva, il buon esito del nuovo ciclo.

mercoledì 19 maggio 2010

L'atto finale, Levantini ed Etruschi


Levantini ed Etruschi
Un documento straordinario che riguarda l'inizio del XIV a.C. è in grado di svelarci la situazione costiera mediorientale. Si tratta del resoconto del rocambolesco viaggio di Wen Amon, inviato a Biblos dal sommo sacerdote tebano di Amon Ra a procurarsi il legname per costruire una nuova cerimoniale barca divina. L'Egitto non sembra più la potenza di un tempo, infatti, provvisto delle credenziali necessarie, Wen Amon si imbarca su un legno siriano ed è costretto ad una sosta nel porto di Dor, controllato dai Tjekker e solo dopo oltre quattro mesi raggiunge Biblos. In qualità di personaggio non gradito, trascorre una quarantena in porto e solo dopo un mese, per intercessione, viene introdotto al cospetto del principe Sakar Baal (Tjekker Baal). Presentate le proprie credenziali avanza la richiesta di legname adducendo che allo stesso modo avevano fatto gli antenati del principe e che ciò rappresentava una tradizione. Sakar Baal si dimostra disponibile ma esige un cospicuo e immediato pagamento. Wen Amon ammette di non poter pagare poiché nel porto è stato derubato, ma il principe replica dicendo di farsi spedire dell'altro denaro dall’Egitto mentre si prepara il legname. Il pagamento arriva dopo alcune settimane e tutto sembra andare per il meglio, ma una flotta di Tjekker si presenta in porto e in un incontro con il principe pone il veto sull'operazione del legname. Sakar Baal è obbligato a non consegnare il legname e Wen Amon riesce a sfuggire a stento rientrando in Egitto dopo che una tempesta lo fa approdare a Cipro. Questo episodio indica la stretta parentela, se non il totale controllo, che esisteva fra i Tjekker e Sakar Amon. I popoli del Mare dominavano tutta la fascia costiera mediorientale perché, oltre ai filistei e ai Tjekker, più a nord sono attestate le presenze di Shardana e Dani, a cui si deve la fondazione nell'odierna Turchia della città di Adana. Ciò è attestato dall'Onomastico di Amenomope. Prima della sovrapposizione violenta dei popoli del mare, Tiro era solo una modesta gregaria delle più importanti città cananee Biblos e Sidone, e fino ad allora aveva esercitato con l'Egitto un fruttuoso commercio di cedri del Libano, anche se si trattava di una navigazione costiera e utilizzava soprattutto grandi zattere. Eccetto le navi dei Keftiou, solo i micenei utilizzavano imbarcazioni con chiglia profonda, adatte alla navigazione in alto mare. Ciò chiarisce che coloro che chiamiamo Fenici, sino all'inserimento dei popoli del mare, non possedevano ancora nessuna delle qualità di audaci navigatori per come li conosceremo in seguito. Il curatore del museo archeologico di Beirut, Baramki, il cui parere è riportato nel libro "l'avventura dei Fenici" di Herm, afferma: "i protofenici cananei, erano un popolo dotato di tutte le qualità necessarie ad una conquista marinara e commerciale del Mediterraneo. Buoni mercanti ed organizzatori, possedevano la temerarietà degli antenati beduini e disponevano anche di una forza religiosa. Mancava loro quel fondo di sapere nautico e tecnico senza il quale non è possibile la navigazione d'alto mare. Ne disponevano invece i misteriosi invasori che aggredirono verso il 1200 a.C. i paesi del vicino oriente, ossia i popoli del mare. Devastatori di parti del Libano, si associarono in seguito ai cananei per lasciarsene, infine, assorbire. Dal processo di fusione, nel quale i primi portarono le loro capacità marinaresche, sorse la razza fenicia, per usare l'espressione di Baramki. Da quel secolo in avanti, nelle letterature dei paesi vicini si parla sempre meno delle singole città libanesi, e si intende con Tiri o Sidonei, un gruppo ben delineato: i cosiddetti fenici. Sono gli innesti provenienti dalle isole del Grande Verde che innescano quella rivoluzione che condurrà all'alfabeto: una profonda trasformazione sconvolse quel mondo che aveva a cardine della società gli scribi, veri sacerdoti locali la cui casta rappresentava il meccanismo fondamentale del potere. Il cuneiforme richiedeva lunghi anni di studi e di sacrifici ma il traguardo era un ruolo di grande prestigio. Quale scriba avrebbe mai divulgato ciò che avrebbe rappresentato la rovina della propria casta e l'annullamento di propri privilegi? L'alfabeto quindi deve essere giunto dall'esterno. Garbini individua iscrizioni filistee talmente precoci da considerarle le prime forme di scrittura. I primi segni alfabetici scoperti a Biblos non derivano dal cuneiforme utilizzato in Mesopotamia, né può l'alfabeto fenicio essere messo in rapporto con le 30 lettere consonantiche ugaritiche, sempre cuneiformi. E' inammissibile che i Fenici provenissero dal deserto arabico o dagli aridi entroterra mediorientali poiché essi rimasero padroni di una sottile linea di territorio costiero. Anche i filistei si erano dimostrati dominatori del mare, ma solo di una limitata area costiera pianeggiante, dove esercitavano la supremazia grazie ai carri da battaglia. Erano gente di mare e di pianura, una caratteristica evidenziata anche dai micenei che certo avevano ben esigui spazi dove utilizzare i loro carri. Erodoto, Strabone, Plinio e Giustino affermano che i Fenici non erano autoctoni di quella regione in precedenza chiamata terra di Canaan. Giustino scrive che giunsero "ad Syriam stagnum" dopo aver abbandonato la patria a causa di terremoti. La cultura fenicia avvierà da questa epoca una lenta ma continua colonizzazione le cui tappe testimoniano del X a.C. per Cipro e del IX a.C. per la Sardegna, per Cartagine e per il resto del Mediterraneo. Ma l'espansione fenicia così pianificata non spiega agli studiosi l'età di fondazione delle città di Cadice in Andalusia e di Lixus nelle coste del Marocco, che la tradizione colloca intorno al 1100 a.C. attribuendole ai Tiri. Chi erano quindi coloro che gli antichi chiamavano Tiri? Esiste nella tradizione un legame che sfugge agli storici fra la prima espansione dei Fenici e il ritorno degli Eraclidi. Questi avvenimenti coincidono ai tempi della fondazione sulle coste atlantiche di Lixus e Cadice, dove i più antichi templi conosciuti dedicati ad Ercole avvalorano la tesi di una colonizazione da parte di genti che consideravano Eracle la loro guida spirituale. Così era per i Dori e per i popoli del mare che, insediatisi nell'antica terra di Canaan, furono chiamati Tiri dagli antichi e Fenici da noi oggi, infatti Eracle-Melkart è il supremo Dio di Tiro. La fondazione di Utica risultava quindi una tappa intermedia del viaggio che portava oltre le colonne d'Ercole. Strabone (Geografia, 1.3.2) afferma che gli insediamenti della Libia si trovano a metà strada tra la Fenicia e lo Stretto di Gibilterra. Ecco dunque svelarsi la rotta dei Fenici verso occidente: sentirono l'inevitabile necessità di stabilire un percorso che da Tiro li portasse attraverso la tappa di Utica verso Cadice e Lixus. A quell'epoca esisteva però un'altra potenza sulla scena: la città di Tartesso, in grado di mantenere contatti, attraverso rotte sempre più segrete, con ciò che restava dell'Haou-Nebout, come dimostrano i beni di lusso tipici delle isole del Grande Verde che verranno importati ai tempi di Salomone. Garbini afferma che le prime frequentazioni mediterranee attribuite ai Fenici sono in realtà filistee. Lo studioso sostiene che nell'XI a.C. i filistei approdarono in Sardegna alla ricerca del ferro. Uno dei siti, Macompsisa (luogo del signore), l'attuale Macomer, rivestiva un'importanza particolare dal momento che si tratta di un'area dell'entroterra, generalmente non raggiunto dagli insediamenti cosiddetti Fenici. La funzione di un centro commerciale nella zona di Macomer, che aveva nel porto di Bosa il suo naturale complemento, è rivelato dalla toponomastica, non soltanto nel nome di Monteferro ma anche in quello della cittadina di Bortigali formato su un'antica radice mediterranea che significa ferro. Era dunque la ricerca del ferro che portava i filistei in Sardegna, quel ferro che consentiva la loro supremazia militare in Palestina. Raccolto nella zona di Macomer, il minerale veniva imbarcato a Bosa, il sito portuale sul fiume Temo che sfocia sulla costa occidentale. La presenza filistea in Sardegna è stata definitivamente provata dal ritrovamento nel 1997 a Neapolis di un sarcofago antropomorfo di terracotta esattamente come quelli di Beth-Shean, che contenevano le spoglie dei filistei di alto rango. Garbini afferma inoltre che anche il toponimo sardo "Gadara" è filisteo derivando dalla radice GDR, ossia muro. La zona in cui è collocata Gadara è stata abitata fin da tempi molto antichi. Qui si trova, qualche chilometro a sud di Orosei, il villaggio nuragico di Serra Orrios, caratterizzato dalla presenza di due piccoli templi del tipo a megaron. Nella stessa area è stata trovata ceramica micenea nonché lingotti di rame dalla caratteristica forma a pelle di bue. Se i filistei dalla Palestina andavano a cercare il ferro in Sardegna, tralasciando la Toscana, la spiegazione è una sola: ignoravano l'esistenza delle miniere toscane e laziali. L'aspetto più interessante della questione è che tali miniere erano ignote anche agli stessi abitanti del posto.
La civiltà etrusca assume i suoi caratteri definitivi solo nel IX a.C., quando i cosiddetti Villanoviani si scoprono ricchi di miniere e, abbandonati i loro villaggi nell'Italia centrale, danno vita ai primi nuclei delle loro città costiere.
L'anno 900 a.C. segna convenzionalmente l'inizio del Ferro in Italia e contemporaneamente della civiltà etrusca, che con il passaggio dal protovillanoviano al Villanoviano subisce un processo di profonda trasformazione. Può essere interessante chiedersi come mai i villanoviani, dopo aver dormito per diversi secoli sopra le loro ignorate ricchezze, si siano improvvisamente risvegliati abili scopritori e sfruttatori dei metalli, grazie ai quali furono poi ben presto in grado di conquistare militarmente in buona parte dell'Italia. A partire dal IX a.C. nelle tombe etrusche più ricche si trovano oggetti votivi in bronzo, e modellini di navi sarde deposti accanto a cadaveri di donne di alto rango: si trattava evidentemente delle spose di origine sarda di signorotti locali, che avevano sancito con il matrimonio accordi politici e economici con la classe dirigente dell'isola. Non sappiamo come gli etruschi scoprirono l'esistenza delle miniere e il modo di sfruttarle, certo è che, appena saputo della scoperta, dalla Sardegna arrivò qualcuno, naturalmente con una nave, che in qualche modo voleva partecipare all'impresa, ed è impensabile che in tutto ciò i filistei di Gadara non avessero alcuna parte. È probabile che all'inizio vi fosse un accordo a tre, tra etruschi, sardi e filistei. Si misero d'accordo per interdire il Tirreno a tutti gli estranei, vale a dire ai greci e agli orientali, fra i quali primeggiavano allora gli aramei di Damasco. Tutto ciò è evidente dal fatto che sulle coste tirreniche dell'Italia centrale fino all'inizio dell'VIII a.C. non c'è traccia né di greci, né di aramei, né di Fenici. Nel 775 a.C. qualcosa cambiò: gli etruschi aprirono un porto franco nell'isola di Pitecusa (l'attuale Ischia), dove si concentrarono i mercanti (greci, aramei e fenici) che volevano scambiare le loro merci con quelle degli etruschi. Nel gioco politico a tre, qualcosa andò male per i filistei, che a quel punto uscirono di scena, lasciando agli etruschi il predominio del Tirreno, dove in precedenza essi si muovevano liberamente. Nacque così quella talassocrazia etrusca testimoniataci da Tito Livio quando scrive: "La potenza degli etruschi, prima del dominio romano, si estendeva largamente sulla terra sul mare. Quanto furono potenti lo dimostrano i nomi del mare superiore e di quello inferiore, dai quali l'Italia è circondata come un'isola, dato che le genti italiche il primo lo hanno chiamato Mare Etrusco, e il secondo mare Adriatico, dal nome della colonia etrusca di Adria; i greci chiamano quei mari Tirreno e Adriatico".
Il dominio dei popoli del mare era quindi totale all'interno del bacino del Mediterraneo, eccetto che per l'Egitto. Giochi politici e alleanze trasversali come quella fra sardi, etruschi e filistei, dominavano la scena dei nostri mari. Provenienti dall'Oceano e diretti alla colonizzazione del bacino mediterraneo, a fini strategici dovevano assicurarsi dei capisaldi all'imbocco dello Stretto di Gibilterra, e furono così fondate Lixus e Cadice. La questione se siano stati filistei o Tiri diventa non fondamentale, poiché comunque si trattava di popoli del mare, di Pelasgi, che si identificavano nel culto di Eracle. Nei secoli in cui Cadice coniò monete, sino alla piena età romana, Eracle rappresentò l'esclusiva immagine riportata.


Nella foto in alto le perline di pasta vitrea, scavate e assemblate da Giovanni Ugas

Nora e le Chiese dei Vittorini



Domenica 23 Maggio a Nora si svolgerà il 6° appuntamento della rassegna "Viaggi e Letture". Relatore sul tema "Chiese Romaniche dei Monaci Vittorini" sarà Roberto Coroneo, professore straordinario di Storia dell'arte medievale
nell'Università degli Studi di Cagliari, svolge attività di ricerca nel
Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storico-artistiche e attività
didattica nella Facoltà di Lettere e Filosofia, della quale è Preside. Fra
le altre pubblicazioni si segnala il volume "Architettura romanica dalla
metà del Mille al primo '300" (collana Storia dell'arte in Sardegna, Nuoro,
Ilisso, 1993).

Nell'XI secolo i re dei quattro giudicati sardi, per dichiarare la loro
fedeltà alla Chiesa romana, effettuano donazioni di chiese, terre e beni a
favore dell'ordine benedettino. Nel giudicato di Cagliari le donazioni vanno
ai monaci vittorini di Marsiglia, che ottengono le chiese di San Saturnino
di Cagliari, Sant'Efisio di Nora, Sant'Antioco e altre. Immediatamente i
Vittorini curano lavori di ristrutturazione o ricostruzione che permettono
di constatare l'arrivo in Sardegna delle forme architettoniche del Romanico
europeo.

Sono 125 disseminate in tutta la Sardegna e rappresentano il momento più alto dell’architettura e della cultura medievale nell’isola. Sono le chiese romaniche costruite tra la metà del Mille e il Trecento. Tre secoli di storia in un’epoca in cui la Sardegna era divisa nei quattro giudicati che avevano stretti contatti con le repubbliche di Pisa, Genova e il Papato. La Sardegna giudicale si stacca dall’Impero bizantino e si avvicina al mondo occidentale che ruota attorno a Roma e al Papa. Così i giudici, diventati sovrani di quattro regni indipendenti, guardano ai rapporti culturali e commerciali con le coste tirreniche. Arrivano i monaci Camaldolesi dalla Toscana e i Vittorini da Marsiglia per costruire quelle chiese che caratterizzano in tutta Europa l’architettura romanica. In Sardegna nasce uno stile originale, dove prevalgono gli influssi tosco-pisani con l’aggiunta di elementi arabi, espressione della presenza di maestranze di provenienza o cultura islamica.
Quelle chiese sono la sintesi di un linguaggio artistico internazionale e mostrano la Sardegna, uscita dall’isolamento totale dei secoli precedenti al Mille e inserita nella storia continentale. Oggi queste chiese che s’incontrano sperdute nelle campagne, ai margini delle strade o inglobate nei centri storici di paesi e città, sono il migliore esempio dell’arte medievale. Misteriose nella loro architettura semplice e austera come si conviene ai monaci che le costruirono, fatte con pietre locali che alternano motivi policromi di nero, rosso e bianco, affascinanti nel loro silenzio, ben conservate anche se molte necessitano di importanti e costosi restauri, sono un patrimonio di grande valore, ma sinora tagliato fuori dai flussi turistici.
Cattedrali come San Gavino di Porto Torres, Santa Giusta, San Nicola di Ottana, monastiche come Santa Maria di Bonarcado, Santa Maria di Tergu o la splendida SS Trinità di Saccargia unica per i suoi affreschi, San Saturno di Cagliari che salva e sviluppa l’originale basilica del quinto secolo, le piccole chiesette di granito della Gallura o gli esempi minori che si ritrovano qua e là in tutta la Sardegna con l’eccezione dell’Ogliastra.

martedì 18 maggio 2010

Su Trimpanu. Mito o realtà?



Su Trimpanu

Nelle varie zone della Sardegna viene anche chiamato
"scorriu", "moliaghe", "orriu", "zumbu-zumbu".
Originalissimo congegno fonico, usato dai malviventi in tutta la Sardegna, fino ai primi del secolo scorso, per disarcionare da cavallo i Carabinieri: consta di un cilindro di sughero rovesciato, con una sola base ricoperta da una membrana di pelle magrissima, ricavata scuoiando un cane morto di inedia, sulla quale scorre una treccia di crine di cavallo. Uno spago impeciato attraversa la membrana dall'esterno verso l'interno; sfregato con un pezzo di orbace, produce un rumore ruvido e stridente, che pur non venendo avvertito dalle persone che si trovano vicino è invece sentito fino a 1.000 metri di distanza, specie se suonato di notte; la sua particolarità è che è capace di far innervosire in modo incredibile gli animali ed in particolar modo i cavalli. Fu tassativamente vietato nel 1880 tramite
un Regio Decreto per i motivi su esposti.
Vi propongo un quesito:
Poteva essere conosciuto e utilizzato fin dall'età del bronzo? Poteva essere utilizzato contro i cavalli che trainavano i carri? Poteva essere un'arma da guerra segreta?

Sea People - I Filistei


I filistei
Ciò che conosciamo sui filistei è dovuto in gran parte alla ricerca del professor Garbini del 1997. La fonte principale delle notizie su questo popolo è la Bibbia che nel passo del profeta Amos dell'VIII a.C. recita: "non ho forse fatto uscire Israele dalla terra d'Egitto, i filistei da Kaftor e gli aramei da Qir?". Più sfumato è il testo di Geremia sulle origini filistee: il testo ebraico parla di "superstiti dell'isola di Kaftor", mentre quello greco recita "superstiti delle isole". Questa conferma biblica lascia ben comprendere l'entità del disastro che i testi egizi raccontano essersi abbattuto sull'Haou-Nebout. Mentre Creta dall’epoca dello stanziamento dei micenei aveva goduto di un'ottima salute, interrompendosi solo con la sovrapposizione dorica, la Bibbia ci conferma esplicitamente dei disastri delle isole Haou-Nebout. Secondo Garbini, dai testi più antichi dipende l'affermazione del Deuteronomio secondo cui “la regione da Gaza verso oriente era stata conquistata dai Kaftoriti usciti da Kaftor”. Dato che questa area era abitata dai filistei, continua Garbini, non vi è dubbio che a questi ci si volesse riferire. Il forte legame culturale con Creta, confermato anche dalla Bibbia, lascia supporre un radicamento dei filistei in tale isola, difficilmente compatibile con una permanenza provvisoria di pochi decenni. Ma ci si potrebbe chiedere come mai gli archeologi non abbiano trovato a Creta tracce dell'antica presenza filistea. La tradizione asserisce che furono i Dori a portare il ferro, ma la relazione di Garbini sullo strapotere bellico dei filistei si basa sul possesso del ferro: “dal punto di vista militare fu il carro da guerra la più importante acquisizione dei filistei in Palestina”. Resi ancora più temibili dagli accessori in ferro che i filistei vi introdussero, doveva trattarsi di un'arma terribile, specie per i poco equipaggiati israeliti se al tempo di Saul quelli che dovevano essere poche decine di carri apparvero a costoro come se fossero 30.000 (Samuele13.5) e se nell'insperata vittoria ottenuta presso Medio fu visto il diretto intervento di Dio, che fece straripare un torrente rendendo impossibili le manovre dei carri stessi (Giudici 5,21). Resta sottinteso che l'impiego di carri era limitato alle zone pianeggianti, e questo spiega come mai i filistei restarono sempre padroni della pianura costiera palestinese. Il 1200 a.C. segna per gli archeologi il passaggio al Ferro, ma questo metallo era già conosciuto in precedenza, introdotto nel vicino oriente probabilmente dai popoli del mare, visto che nella Bibbia c'è un passo che si riferisce al tempo di Saul (X a.C.) che recita: "in tutta la terra di Israele non si trovava un fabbro perché, dicevano i filistei, gli ebrei non si fabbricassero spada o lancia. Tutti gli israeliti dovevano recarsi dai filistei per affilare chi l'aratro o l’ascia o la zappa o la falce" (Samuele 13, 19-21). Se gli ebrei non erano in grado di fare il filo a una zappa, è evidente che non erano tecnicamente capaci di lavorare il ferro. I filistei, possessori delle nuove potenti armi, potevano facilmente dominare il paese. È proprio la mancanza del ferro da parte degli israeliti che viene sottolineata nel Cantico di Debora (Giudici 5), che celebra la vittoria sui carri filistei. I primi esemplari di questo metallo furono rinvenuti nell'area di insediamento filisteo oggi chiamato Beth-Shean, Tel Gemme, e risalgono al XI a.C. In Geremia 15,12 si parla di "ferro di settentrione che nulla può spezzare", e si asserisce che il costo pagato al fabbro filisteo per affilare una scure corrispondeva al valore di una pecora. Il ferro dunque era monopolio sia dei filistei che dei Dori, entrambi esponenti dei popoli del mare. I filistei parlavano una lingua indoeuropea strettamente imparentata al greco, e il credo religioso filisteo, come si può leggere nelle righe di Tell Miqne, si rivolgeva a divinità equivalenti sia al mondo greco che a quello semita, nonché a quello egizio, con quel concetto di assoluto sincretismo religioso per cui non era importante il nome della divinità, ma i suoi attributi. La religione si fondava su una triade divina con una presenza femminile che ereditava gli aspetti cultuali direttamente dalla dea madre, mentre Dagon, la divinità principale (da Flavio equiparato ad Apollo), percorre come Osiride la via dell'aldilà per poi arrivare alla resurrezione. Ciò è condiviso da molte divinità semitiche come ad esempio il Melkart di Tiro. Questa trinità è completata dalla figura tipica di Baal, che a Ekron (Tell Miqne, una delle cinque città della pentapoli filistea) acquisisce il nome di Baal-Zebul che significa "Signore della dimora", ossia l'aldilà. L'odio degli ebrei nei confronti della religione filistea lo fece divenire il noto Belzebù. Le arti magico divinatorie possedute dai sacerdoti di Dagon e Baal-Zebul esercitarono un potere enorme sugli ebrei, e la Bibbia ci racconta che lo stesso re del regno di Giuda mandò a richiedere responsi oracolari alle divinità filistee. Un altro dei popoli del mare che eccelleva nella magia e nella teurgia era quello dei Tursha, gli etruschi. Non va dimenticato che dalla fondazione di Roma a quando rimasero in vita, le ultime famiglie etrusche furono le sole a Roma a stabilire le leggi e i rituali del culto, osservati con assoluto rispetto ed estremo rigore. Anche l'arcano mondo etrusco in cui la figura dell'Aruspice troneggiava sulla figura stessa del Lucumone, derivava, insieme alla superba arte divinatoria filistea, dall'Haou-Nebout, dalle isole del Grande Verde. Alcuni classici affermavano che Dagon era l'equivalente dello Zeus nato a Creta, divinità dei Keftiou, oggetto di culti misteriosi nelle grotte del Monte Ida, dotato della peculiarità di essere un Dio che muore. Erodoto sostiene che il tempio più famoso di Afrodite nel Mediterraneo, a Pafo nell'isola di Cipro, era stato fondato dai filistei di Ascalona, e gli stessi avrebbero fondato l'altrettanto famoso tempio a lei dedicato sull'isola di Citera, di fronte al Peloponneso. Due posizioni particolarmente strategiche per traffici e commerci, che conferirono la massima notorietà, e due santuari che divennero patrimonio di tutto il mondo greco, antesignani di quei templi dedicati a Ercole-Melkart che i cosiddetti Fenici distribuirono in tutto il Mediterraneo. Queste notizie fanno comprendere di quale libertà di movimento e di insediamento godevano i filistei, un dominio marittimo che implicava una condizione di potere consolidato e in grado di realizzare grandi opere, anche molto lontani geograficamente dal loro insediamento palestinese. Il repertorio figurativo è indicativo di un identico credo religioso nell'aldilà e nello stesso concetto di vita e resurrezione del mondo egizio: scarabei, dischi solari alati, sfingi, il simbolo ank, falchi, serpenti, scimmie e figure di divinità completamente sovrapponibili alle immagini egizie, per terminare con i sarcofagi antropomorfi di terracotta dove la figura è rappresentata nell'identica postura di quella egizia. L'idea che i filistei abbiano derivato le loro concezioni escatologiche dal contatto con l'Egitto, durante l'invasione di Ramesse III, è errata in quanto non esiste esempio storico dove due nemici che si affrontano in battaglia siano poi disposti a modificare il proprio mondo religioso. Non dimentichiamo, inoltre, che si tratta di un popolo arrogante e bellicoso tanto da indurre, sostiene Garbini, altri popoli del mare come i Dani e i Tjekker ad allearsi e ad entrare nel contesto delle tribù d'Israele, tradizionali nemici dei filistei. La spiegazione del fatto che i filistei adottavano culti egittizzanti è che l'Haou-Nebout fu la loro patria originaria. È il luogo dove si svolge la stessa scena del mito egizio e dove dominano gli stessi dei dell'Egitto, vi si pratica l'imbalsamazione, l'arte magica e quella medica: è il regno di Seth.
Nell'immagine in alto il bronzetto di Decimoputzu.

lunedì 17 maggio 2010

Sea People - La nascita del nuovo mondo.


La nascita del nuovo mondo:
La studiosa Sacconi afferma che la fine del XIII a.C. è caratterizzata da una serie di avvenimenti che sconvolgono il quadro politico dell'Egitto, della costa siro-palestinese e dell'Anatolia, e le ripercussioni profonde colpirono anche la Grecia. Una delle distruzioni, attribuita ai Dori, è importante per i documenti che provengono dall'archivio di Pilo in Messenia. Il catalogo delle navi dell'Iliade mostra che Pilo era la seconda forza navale dopo Micene, ed era guidata da Nestore. Le tavolette in creta ci sono giunte in perfette condizioni grazie al fuoco che le ha cotte, arrivato sino all'archivio. Si legge di una macchina burocratica dello Stato che registra tutti i beni dello Wanax, racconta gli ultimi giorni di Pilo e manifesta l'angoscia per un imminente pericolo. La città, infatti, è la prima a cadere fra quelle dei regni micenei, seguita da Creta e Micene nel giro di cinquant'anni. Nelle tavolette si intuisce una situazione di emergenza che provoca la requisizione del bronzo dei templi per la fabbricazione di armi. È evidente una grande penuria di metalli poiché solo un terzo dei 270 fabbri presenti in Messenia è fornito di bronzo e in grado di produrre armi. Risulta evidente la completa interruzione delle rotte commerciali marittime. Sacconi descrive il contenuto delle tavolette chiamate O-ka (contingente militare) che raccontano la provenienza del pericolo. I cinque testi (An657,519,654,656,661) trattano della dislocazione, lungo la costa del regno di Pilo, di 10 contingenti di guardie costiere. Dimostrano l'intenzione del palazzo di edificare una serie di osservatori lungo i 150 km di litorale per sorvegliare gli spostamenti delle truppe nemiche. Ogni contingente conta cinque generali, 80 uomini e alcuni ufficiali di collegamento fra le guardie costiere e il palazzo. In quei tempi fu costruito anche un forte bastione difensivo sullo stretto di Corinto. È evidente che il nemico proveniva dal mare, quindi i Dori, ritenuti responsabili degli attacchi, possedevano una flotta potente. Tucidide afferma che gli abitanti della Grecia continentale prima di popolarla erano anch'essi pirati, appartenenti ai popoli del mare, e anche dopo secoli mostravano con fierezza quegli usi e costumi forgiati sul mare. Anche nel poema omerico si chiede ad Ulisse se sia un pirata di Creta, ma la frase non è pronunciata in senso dispregiativo. Molti studiosi affermano che i Dori erano differenziati in tre tribù, e alcuni di loro solcavano i mari prima della migrazione definitiva. Lo testimonia Omero nell'Odissea quando elenca le 5 lingue parlate a Creta: acheo, eteocretese, cidonio, dorico e pelasgico. Nell'Iliade è testimoniato che Rodi (con Tlepolemo) e l'isola di Cos (con altri eraclidi) erano state già dorizzate in epoca micenea. Si arriva così all'ultimo atto delle isole del Grande Verde e dell'Haou-Nebout quando la migrazione totale e definitiva è stata accuratamente predisposta. Gli Haou-Nebout conoscevano perfettamente il Mediterraneo e progettarono una manovra a tenaglia per schiacciare l'Egitto. Il mondo austero e severo dei principi guerrieri, all'apice di una piramide di tipo feudale che ha caratterizzato oltre cinque secoli di storia, viene cancellato e sostituito da confederazioni di libere poleis. I popoli del mare possiedono un atteggiamento di tipo federalista: dalla pentapoli filistea alla dodecapoli etrusca, alla confederazione delle città lice e sarde, alle poleis greche, si tratta di un modello non casuale che dall'Haou-Nebout si propaga, cambiando definitivamente il corso della storia.
Nelle iscrizioni del tempio di Medinet-Habu si legge: "i paesi stranieri ordirono un complotto nelle loro isole, e la guerra si diffuse in tutti paesi e li sconvolse, e nessuno poté resistere alle loro armi, a incominciare da Khatti, Kode, Danu e Weshesh". Gli egizi non lasciano dubbi: è nelle isole che è stata ideata e progettata l'invasione grazie alla perfetta conoscenza sia della geografia dei luoghi che delle forze in campo. A differenza degli Hyksos che 500 anni prima strariparono nel Delta, Ramesse III arginò l'avanzata terrestre e colse una vittoria navale all'interno delle bocche del Nilo. Le navi nemiche penetrarono un braccio del grande fiume, ma le profonde chiglie adatte alla navigazione in alto mare limitarono la capacità di manovra a causa dei bassi fondali. Ramesse III aveva disposto numerosi arcieri sulle rive e arpionò le navi nemiche con funi immobilizzanti. Un gruppo di manovrabili imbarcazioni egizie ebbe la meglio, e questa trappola consentì al faraone di catturare i nemici e disperdere nel mare le armi.
Una riflessione è indispensabile: come è possibile che le isole dell'Egeo avessero potuto scatenare un tale spropositato evento? Non possiamo dimenticare che tempo prima tutti i più grandi potentati micenei, compresa Creta, non erano riusciti in 10 anni a piegare la resistenza di una sola città se non con l'astuzia di Ulisse. I riscontri archeologici confermano una scia di distruzione ma gli storici, che minimizzano il fenomeno dei popoli del mare, parlano di crisi politico-sociali, con rivolte interne e disgregazione degli stati. Questa è ad esempio la teoria di Gardiner sugli Ittiti. Ma non si può pretendere che fenomeni di crisi interna siano dilagati ovunque. Gli eserciti Ittiti di Arzawa, Karkemish e altri, per quanto affamati e ridotti nei ranghi, dovevano sempre rappresentare una macchina bellica la cui forza non poteva essere annientata da bande di pirati e razziatori. L'intera civiltà mediterranea fu completamente ridisegnata. Sarà anche una profonda rivoluzione di contenuti, col nuovo mondo nascerà l'alfabeto che utilizziamo e che permetterà all'accesso alla scrittura facendo crollare il mondo degli scribi, così esclusivo ed elitario. È un intero sistema che si dissolve, ed inizia l'ultima era dell'uomo: quella del Ferro.


Nella foto in alto un bassorilievo scolpito nel tempio di Medinet Habu

domenica 16 maggio 2010

Viaggi e letture


Si avvia alla conclusione la rassegna culturale della Biblioteca Provinciale. Gli ultimi 3 appuntamenti si svolgeranno a Nora il 23 Maggio con Roberto Coroneo, al Tempio di Antas con Carla Del Vais il 30 Maggio e a Teulada il 20 Giugno con Pierluigi Montalbano. I temi trattati concludono il ciclo di presentazioni sulla Storia della Sardegna e saranno caratterizzati dalla presenza di ospiti che integreranno le relazioni degli studiosi. I partecipanti, fino ad oggi, sono stati 290 in 5 giornate ma si punta a superare i 400, contro i 200 della scorsa edizione.

sabato 15 maggio 2010

Sea People - I Dori


I Dori:
Alla morte di Ramesse II era salito al trono suo figlio Mereptah. Nel V anno del suo regno (1220 a.C.), da occidente, i libici insieme ad altre genti sconosciute chiamati Meshwesh (i futuri berberi), dilagano oltre i confini dell'Egitto. Il re dei libici Meriye guida una coalizione di 5 popoli del mare: Shardana, Lika, Ekwesh, Shekelesh e Tursha. Sono gli abitanti delle isole del centro del Grande Verde, i popoli stranieri dell'Haou-Nebout, i precursori del grande movimento migratorio che investirà tutto il Mediterraneo nel 1185 a.C. A cominciare dal re libico, gli invasori portavano con sé l'intera famiglia, il bestiame ed ogni genere di bene, a dimostrare che l'invasione aveva il preciso scopo di trovare nuovi insediamenti. Nell'opera di Breasted leggiamo che i libici affermano: "il fuoco ci ha penetrati, il nostro seme non esiste più, le nostre città sono state ridotte in cenere, devastate, desolate". Ne risulta che non solo la Libia aveva subito un improvviso processo di desertificazione, ma che un tale disastro ambientale si era verificato anche più a ovest nel territorio dei Meshwes, che doveva essere un regno dall'elevato livello culturale se consideriamo il grado di nobiltà attribuito dagli egizi a questo popolo: sia perché Ramesse III si fregia del titolo di "principe dei Meshwesh", sia perché in seguito i principi di questo popolo si integreranno nell'aristocrazia egizia diventando addirittura faraoni con Sheshonk, fondatore della XXII dinastia che conta ben nove faraoni. Gli invasori avevano saccheggiato le fortezze di confine e alcuni di loro erano penetrati anche nell'oasi di Farafra. La battaglia decisiva avvenne in una località detta Pi-yer, nell'interno del Delta. I testi riferiscono che la battaglia durò 6 ore con 6000 libici uccisi e 9000 prigionieri, e riferisce di perdite non numerose inflitte ai popoli del mare, i quali non entrarono in uno scontro con gli egizi, ma si limitarono ad appoggiare le operazioni terrestri capeggiate da Meriye. La Sanders nel 1978 scrisse che agli occhi egiziani questi alleati degli africani, da qualsiasi luogo giungessero, erano tutti dei paesi stranieri del Nord, compresi libici e Meshwesh. Questa alleanza fra tribù della Libia, degli abitanti delle isole e dell'Anatolia è sorprendente. Dalle fonti sappiamo che gli achei sono i più numerosi fra gli alleati di libici.
I Lici erano già conosciuti come popolo pelasgico ed erano stabiliti sulle coste egee dell'Anatolia: le loro incursioni marine come pirati sono testimoniate da una lettera trovata in Egitto a Tell El Amarna, dove il re di Alasya-Cipro lamenta frequenti incursioni dei lupi di mare. Avevano inoltre partecipato a fianco degli Ittiti nella battaglia di Qadesh e si erano battuti a fianco dei troiani della guerra omerica. Lo studioso Gardiner parlando di Ramesse II racconta qualcosa sugli Shardana, affermando che una stele proveniente da Tanis dice che giunsero dal mare aperto con le loro navi da guerra e che nessuno era stato in grado di fronteggiarli. Poco dopo si trovano fra le guardie del corpo del faraone, riconoscibili per gli elmi sormontati da corna, gli scudi rotondi e le grandi spade con le quali sono raffigurati mentre uccidono i nemici Ittiti. In alcuni documenti troviamo molti shardana che coltivano pianticelle in terreni di loro proprietà, avuti come ricompensa dei servizi militari. Erano guerrieri Haou-Nebout del Grande Verde, e si sovrapposero alla civiltà megalitica che da secoli popolava la Sardegna. È testimoniato il sopraggiungere nell'isola di un'elìte aristocratica numerosa dal numero degli imponenti edifici, operante una spinta evolutiva che lascia sbalorditi per le spettacolari monumentali rovine. I complessi nuragici presentano volte a tholos e schemi a megaron, simili ai modelli di Troia e Micene, ma probabilmente sono più antichi. Del culto delle acque ci restano le costruzioni dei pozzi sacri, realizzati con una perfezione tecnica che dimostra capacità architettoniche straordinarie. Le corna taurine che sormontano alcuni luoghi sacri ci riportano al conosciuto culto, mentre nei depositi votivi troviamo oro, argento, ambra, avorio e una evoluta tecnica metallurgica che ci ha lasciato una corposa serie di splendide figure, soprattutto di sacerdoti e guerrieri in tenuta da parata con elmi dalle lunghe corna. Il mondo Egeo, e Creta stessa, saranno sconvolti di lì a poco dalla catastrofe nella quale, al ruolo di primo piano dei popoli del mare, si sovrappone la migrazione dorica, tramandataci dai greci come il ritorno degli Eraclidi. I dori erano guidati infatti dai discendenti dell'eroe e vantavano diritti su molti regni micenei precedentemente conquistati da Eracle. Siamo giunti a un punto nodale del flusso della nostra civiltà. Il concetto che assimilava i dori a robusti montanari dell'Epiro e della Macedonia, ha tratto in inganno molti studiosi. Ma i dori erano montanari o marinai? Sappiamo che le popolazioni di montagna non si improvvisano marinai, temono ed evitano il mare. Se osserviamo l'area di diffusione dei dori e dei loro centri urbani, evidenziamo la strategica collocazione a dominio del mare Egeo, Creta compresa. Come per i minoici, i micenei e gli altri greci aspiravano alla talassocrazia. Il mare fu un invito costante al contatto e al commercio con gli altri popoli. Come è possibile constatare in Pausania e altri autori, gli alberi genealogici dei re delle più importanti città doriche hanno un unico capostipite: Oceano. Nell'Iliade, Omero afferma che "l'acqua corrente del fiume Oceano a noi tutti è padre comune, e che Oceano è padre dei numi e Teti madre di questi". Di certo nessun balcanico o montanaro avrebbe potuto collocare nell'oceano la propria origine. Probabilmente i dori si possono identificare con quegli Akawasa che rappresentano il più numeroso dei popoli del mare. In questo modo si risolverebbe anche l'annosa problematica se fossero stati i dori o i popoli del mare i fautori della distruzione della cultura micenea. L'identità e la continuità fra achei-micenei e dori è evidenziata anche dal fatto che Eracle diventa l'eroe dorico per eccellenza e non appartiene ad alcuna città specifica, ma all'intera Grecia. Persino gli ateniesi, così attenti alla loro identità, arrivarono a consacrargli un numero maggiore di santuari che non all'ateniese Teseo. Eracle appare come la figura emergente e più celebrata dai popoli del mare, e alcune delle fatiche di Ercole sono vissute oltre i limiti che lui stesso stabilisce con le celebri Colonne, in Oceano, su misteriose isole dove pare, come nel caso delle Esperidi, che l'oro cresca come pomi sulle piante. Elementi culturali collegati all'arrivo dei dori sono lo stile geometrico nella ceramica, l'uso dell'incenerazione e l'uso del ferro. In luogo dei complessi palaziali emergono le poleis che si alleano in federazioni pronte a combattere anche fra loro, e Creta entra a far parte completamente del mondo ellenico, perdendo ogni forma di unità politica ed economica. Anche il confronto fra Wanax miceneo e Basileus (dorico o ionico) è illuminante: il primo ha un controllo sull'economia fondato su una solida amministrazione gerarchizzata, mentre nessun Basileus possiede un'amministrazione, troviamo infatti un consiglio del popolo e un'assemblea che ne limita i poteri. In nessun centro miceneo è attestato nulla di simile: si è già compiuto quel grande passo che porterà alla democrazia. È al tramonto l'era in cui dominavano le caste di principi guerrieri, giunti sulla scena verso il 1750 a.C.


L'immagine in alto è tratta da Lilliu, 1966, sculture della Sardegna nuragica